di Noemi De Lisi
Copertina: Senza titolo – Chiara Casetta
Da quando si è tagliata i capelli, Anna di spalle sembra un maschio. Se la fida a cambiare sesso solo per vedermi cadere malato. Mia madre me lo dice che non è più la ragazza che ho sposato, si è scimunita, con l’età è peggiorata, devo stare attento, è maligna: «Quanta pazienza c’ vol’, quanta ne tin, figghj mij, quanto amore p’ chella matt». Le guardo il porro sulla nuca, si vede anche a distanza: «Come fa non scorticarselo?», grat grat, vorrei toccarlo, premergli un dito come facevo prima, quando avevamo più confidenza: «Ti faccio male se faccio così?». Anna cammina davanti a me come se fosse sola. Anche mia madre lo faceva quando mi accompagnava alla scuola vicino casa, hanno questo vizio. Mi prendeva la mano per attraversare la strada, poi la lasciava e cominciava a camminare davanti a me lungo il marciapiede stretto. Io la seguivo anche se c’erano sempre degli impedimenti. Come quella volta che lo sportello di una macchina posteggiata si era aperto bloccando il marciapiede, e io avrei voluto superarlo, hop, un cavallo felice. Invece ero rimasto fermo ad aspettare l’uscita di una signora piena di buste. In punta di piedi, sul marciapiede intasato, mi ero strappato il collo in direzione di mia madre che già non si vedeva più. «Ma dove sei stato? Si nat p’ farm pigghià vlen!». Anna è tornata a stare per un po’ a casa dei suoi perché suo padre si è aggravato. Sta vicino al Cappellone, ci vado e rimango in zona senza citofonare, guardo la sua finestra dall’altra parte della strada, seduto su una panchina della villetta tutta rinsecchita. Non mi sento più solo quando vado nel suo vecchio quartiere, fiuuu, basta che non la disturbo altrimenti poi mi butta voci. Fisso il portone e faccio finta di aspettarla come quando eravamo fidanzati. Anche se ci mettevamo d’accordo per un orario, Anna ritardava sempre; non sapevo mai quando l’avrei vista spuntare. Immaginavo di invecchiare, di incurvarmi, torcermi tutto fino a cadere per terra a faccia in giù nell’asfalto. Lei mi avrebbe trovato così al suo arrivo: i capelli bianchi, la tela di un ragno, impolverato, mischiato al catrame. A vedermi, si sarebbe trattenuta dallo sputarmi addosso, dal ridere; avrebbe scosso i capelli lisci sui fianchi e allungato una gamba per voltarmi e rivoltarmi con la punta del piede fino a farmi tornare giovane. Quando me ne torno a casa, non mangio e non dormo, non riesco manco a leggere i fumetti perché ogni parola mi fa piangere; così strappo tutto, e il pavimento è pieno di coriandoli, grumi di carta volanti, patacrash. Non la sopporto questa sua novità di non parlarmi, pure ai morti si parla. Prima ci leggevamo nel pensiero, lei mi diceva: «Facciamo il gioco del silenzio?», e quando dicevo di sì, rideva, batteva le mani, le si scombinavano i capelli, i vestiti. Ci mettevamo sul divano, tutti storti a metà, uno di fronte all’altra; poi mi guardava pensando intensamente a una parola e io dovevo indovinarla. Perdevo sempre perché lei barava, è bugiarda di natura: se dicevo «cuore», lei cambiava e diceva «no, pomodoro!»; se dicevo «bacio», lei diceva «morso». Io mi avvicinavo, mi piegavo sul divano, le spostavo i capelli lunghi su una spalla: «Il mio punto debole è la nuca, lo sai, se mi baci qui, mi metti incinta…», e le davo un morso vicino al porro, le lasciavo il segno rosso:
«Oh, scem’!»
«Quanda moss’… è solo un bacio.»
Da quando abbiamo perso il bambino, Anna è sempre più nervosa. Se le racconto le storie dei fumetti, se la chiamo «patané», lei mi dice: «Non t’azzardare»; oppure sta ferma in silenzio, seduta in cucina, con le palpebre fisse sul tavolo, le scombina solo se mi avvicino per toccarla, vrrrr, un fulmine blu elettrico trafigge il cuore dell’uccellino. Mi sono messo pure in ginocchio per dirle che amavo mio figlio, che potevamo farcela, tutto daccapo, non era stata colpa sua. Lei mi sputa in faccia, mi graffia, mi tira i capelli, piange, queek, quiik. Dopo un mese dal fatto, poi, ha detto che era meglio se per un po’ tornava a casa di suo padre, così pure io sarei stato più tranquillo senza lei. Io ho risposto che poteva fare avanti e indietro, non c’era bisogno di dormire là e lasciarmi solo. Dovevamo stare insieme, ricominciare tutto; sognavo il nostro bambino seduto in macchina accanto a me, era fatto di semi di pomodoro tremolanti, munch munch, diventavano petali rossi quando sorrideva, avevo paura. Anna è andata via di nascosto mentre ero in officina e non mi ha parlato più: è matt malign, è sempre stata così. Solo suo padre ogni tanto risponde ancora al telefono per dirmi di lasciarla stare, che forse è stato meglio così anche per me, che dobbiamo dimenticare e andare avanti.
Non passa nessuno per strada alla controra, la luce bollente ha risucchiato tutti i suoni, tranne quello della busta che mi oscilla appesa alla mano sbattendo contro il ginocchio, klang klang. Ho deciso di allungare il passo per raggiungere Anna e camminarle a fianco, è una vergogna stare divisi. Tanto nessuno la sentirebbe se dovesse buttarmi voci come al solito. Mi ha sempre dato fastidio questo suo vizio di fare sapere le cose nostre agli altri, parlare forte, come quella volta da Gabrielino. Una goccia del mio gelato caffè le era finita sulla maglia bianca, plop, e lei aveva gridato in piazza, davanti a tutti, che facevo sempre danno, che non sapevo neanche coordinare i movimenti mano-bocca, che ora potevo mettermi io a fare la lavatrice a casa. Nessuno degli altri ragazzi con cui era uscita ci era mai riuscito con lei, solo io avevo la pazienza di sopportare il suo carattere; nonostante tutto, speravo che nostro figlio venisse uguale a lei, figghj mij malign. Nell’ultimo periodo, avevamo promesso di riprovarci ogni sera, non c’era tempo da perdere. Mi spogliavo sempre per primo perché poi dovevo aiutarla: le allargavo i vestiti, un filo pendeva da un orlo scucito, un bottone cadeva sul pavimento; la mettevo sul letto, i polsi le diventavano subito rossi, le aprivo le gambe con il ginocchio. Poi si alzava: «Vado a lavarmi i denti», e non tornava più. Allora, mi avvicinavo alla porta chiusa del bagno, avevo paura di trovarla morta, e invece mi tranquillizzavo perché la sentivo piangere: «Mannagg a iss». Certe volte diceva che era colpa mia se il bambino non era nato, e che forse era meglio così perché non voleva avere un figlio uguale a me. Quel giorno, ero tornato dall’officina, e avevo dovuto spingere forte per aprire la porta di casa perché lei si era appesa alla maniglia e stava tutta accartocciata sulla soglia, ai miei piedi: «Dammi la chiave…», ripeteva. Avevo visto il sangue, le cosce troppo strette, un fiore liquido scoppiato lì in mezzo, blubb, un orgasmo: «Che hai fatto?», l’avevo presa, mi ero spezzato la schiena per portarla giù in macchina, avevo guidato come un pazzo verso l’ospedale. Sul sedile del passeggero è rimasto un alone rossastro come la macchia dei semi di pomodoro sulla tovaglia in cucina. Ero così felice, da piccolo, quando mia madre mi faceva i semi per merenda. Il piatto pieno di muco di pomodoro, il sale, l’origano, l’olio lucido; prima del pane ci immergevo un dito, la superficie tremava, i semi si scombinavano, si dividevano attorno a me.
Sfilo la chiave inglese regolabile 32 dalla busta, Anna si gira a guardarmi, butta una voce, si mette a correre, la raggiungo, la colpisco sulla nuca, crack. Cade sul marciapiede, mi piego, continuo ad abbassare e alzare la mano sullo stesso punto, finché qualcuno non mi afferra alle spalle e mi butta a faccia in giù nell’asfalto. Anna ha dimenticato di avermi amato, può essere, anche io mi sento pieno di lividi dentro, panf, dump. Posso dimenticare il suo odio, pure adesso, e lei può dimenticare l’aborto, tutto il resto. Possiamo toglierci i ricordi brutti una volta per uno e ritrovarci puri nello stesso momento felice: le punte dei capelli ti fanno il solletico? la polvere è sabbia, viene dal mare, chiudi le finestre, sei fatto al contrario, quando sbadigli ti copri gli occhi, ti ricordi bene le cose, hai un dono, lo so, tutte le donne della mia famiglia ce l’hanno, sai i compleanni a memoria, anche di quelli morti, oggi mia nonna avrebbe fatto 89 anni, se vengono gemelli farò fatica pure a camminare, eh chi lo sa, meglio così, una sola volta per due, ti togli il pensiero, prometti che mi amerai sempre più di nostro figlio? Possiamo aggiustare tutto io e Anna, siamo fatti per stare insieme, col tempo la sua parte maligna sparirà, swoosh.