di Gian Marco Griffi
Copertina di Daria Pesce
April is the cruellest month
I primi a germogliare furono i cadaveri più giovani, di sei o sette mesi.
Il fenomeno si verificò nei pressi del cimitero cattolico di Sabbione un giovedì mattina di aprile intorno alle undici; circa settanta cadaveri sepolti nella terra cominciarono a buttare, producendo fiori di numerose varietà tra le quali orchidee e tulipani, papaveri e fiori di campo azzurri e gialli.
Alcuni dei presenti raccontarono che i fiori germogliarono e fiorirono rigogliosi in meno di dodici minuti, accompagnati dallo stupore della folla silenziosa. Dopo circa quindici minuti si verificarono i primi casi d’isterismo: un bambino scoppiò a piangere e un’anziana signora a urlare tenendosi il capo tra le mani. Gli addetti alle tombe, sconcertati, alzarono i telefoni e chiamarono chi di dovere; nel giro di un’ora arrivarono i primi medici, la polizia, le guardie Gerarcali.
Fecero venire dei botanici. I botanici osservarono il fenomeno e stesero un rapporto di diciotto pagine che finì su tutti i giornali.
In breve, termini come sporangio, gametofito e ciclo diponte entrarono nel vocabolario dei cittadini sabbionassi. Scoprirono che i gas rilasciati al momento dell’autolisi e della decomposizione erano alla base della formazione dei vegetali, i quali attecchivano nelle ossa e da lì si generavano secondo un processo cleistogamo.
Dopo il primo caso ne seguirono molti altri. Alcuni cadaveri buttarono piante come magnolie e betulle. Le piante squarciarono bare e loculi ed emersero in superficie dal terreno riesumando i cadaveri da cui si erano generati.
Qualcuno riconobbe un parente o un amico. “Il vecchio Kreskajoj ha buttato una magnolia, un pesco e quattordici papaveri da oppio”, diceva qualcuno al bar. “Mia zia Ester ha germogliato uno splendido bouquet di tulipani gialli e orchidee selvatiche del Brasile”, diceva qualcun altro dal barbiere.
Dopo qualche tempo si giunse persino a premiare il cadavere germogliato più bello. La Deutsche Orchideen Gesellschaft consegnò i suoi ambitissimi riconoscimenti a tre cadaveri di ventidue anni circa. Eravamo allibiti.
Nel giro di una settimana più di cinquantamila cadaveri germogliarono, originando un vero e proprio groviglio botanico di spermatofiti, boccioli, fiori e piante ornamentali. All’inizio il fenomeno si manifestò solo in prossimità dei cimiteri, ormai ridotti a invalicabili giungle; in seguito, per via della particolare conformazione di Sabbione, costruita su decine di necropoli (nelle quali dal medioevo all’800 erano stati sepolti i suicidi®), si estese a tutta la città. Le piante iniziarono a farsi luce attraverso i condotti fognari e fuoriuscendo dai tombini spaccarono il bitume delle strade e il cemento dei palazzi, stringendo in una morsa imperiosa perfino il palazzo Gerarcale, avvolto da liane ed edere rampicanti.
Non mancarono le ripercussioni. I cattolici, che inizialmente presero le distanze dai fatti, arrivarono a sostenere una sorta di predeterminazione nella fioritura dei cadaveri; una costola del culto cristiano fondò una sorta di teologia botanica, della quale pubblicò un breviario; in sintesi il testo emanato sosteneva che le azioni compiute in vita avrebbero generato un determinato tipo di fiore da cadavere.
Ma ben presto la popolazione cominciò a subire le conseguenze di quella fioritura: i fiori puzzavano tremendamente e la puzza col passare dei giorni si fece insopportabile.
Tornammo a casa dopo il lavoro e c’incontrammo in cucina, come spesso accadeva. Insegnavo metodi innovativi e sicuri di smaltimento delle carcasse animali a un gruppo di lavoratori extracomunitari; erano marocchini, egiziani, un paio di turchi.
“Potremmo seppellire mio padre in giardino”, disse Laura.
Suo padre era morto pochi giorni prima.
Io non dissi nulla e accesi la televisione. Le telecamere inquadravano il cimitero monumentale ventiquattrore su ventiquattro per documentare la crescita delle piante in tempo reale.
Il Governo fornì delle maschere anti-gas a parte della popolazione. Ma le maschere non bastavano per tutti. C’erano circa millecinquecento, duemila maschere, buone per il due percento della popolazione.
Dopo un mese Sabbione era avvolta da fiori di ogni varietà, più simile a un giardino botanico tropicale che all’informe massa di palazzine e tetti rossi che ci eravamo abituati a vivere. La puzza dei fiori era tremenda, e il fenomeno tanto eccezionale da dar luogo a curiose manifestazioni. Enrichetta Brumoj, un vecchio cadavere femmina di quarantasette anni, buttò alcune piante carnivore giganti delle montagne Tepui che terrificarono un intero quartiere e, si dice, inghiottirono alcuni barboni.
Laura avrebbe tanto desiderato una fioritura di suo padre e cominciò a pregare. Teneva sul comodino il breviario di teologia botanica e ogni notte lo leggeva e rileggeva.
“Pensi che mio padre butterà un rododendro? O forse un non-ti-scordar-di-me? Il non-ti-scordar-di-me non mi dispiacerebbe. Neppure a mamma credo. Anche un semplice mazzo di margherite andrebbe bene. Ho sempre adorato le margherite”, disse.
“Com’è potuto succedere?”, domandai io.
“La bocca di leone”, disse lei. “Secondo la teologia botanica germoglia solo dai cadaveri che hanno avuto una vita esemplare”.
Mi accesi una sigaretta.
“Credi che mio padre butterà una bocca di leone?”, chiese.
“Non ho dubbi”, risposi.
Prima di andare a letto mi masturbai. L’odore di fiori mi stordiva e io ribadii il mio odio nei confronti del mondo vegetale, confermando la mia instabilità emotiva. Mi scagliai contro le due piante del mio soggiorno, insultandole, schernendole, sputando sulle loro foglie morenti e sul loro fusto rinsecchito. Presi l’annaffiatoio e versai qualche goccia d’acqua nella terra. Volevo che soffrissero, quelle figlie di puttana, e le dileggiai ancora con oltraggi e sputi.
Molte persone patirono disturbi intestinali, nausee, conati. La protezione civile distribuì tonnellate di scopolamina; furono approntati dei punti di distribuzione nelle vie e nelle piazze di Sabbione e dei maggiori paesi sabbionassi, ma ben presto le scorte di scopolamina si esaurirono.
Quando esaurimmo le scorte di scopolamina si scatenò una lotta selvaggia per procacciarsi le poche confezioni rimaste.
La scopolamina è un farmaco alcaloide allucinogeno ottenuto da piante della famiglia delle Solanaceae. Ha un effetto anti vomito e agisce come anti-spastico sulla muscolatura gastrointestinale. Fu un dottore di Pizzengo a consigliarla attraverso un programma televisivo assai noto. Dapprima fu prescritta e consigliata da tutti i medici ma poi, quando l’uso divenne smodato, la situazione sfuggì di mano. Le grandi case farmaceutiche fecero di tutto per inviare sempre nuove scorte di medicinale, ma le ultime derrate furono bloccate e confiscate dal Governo.
Ottenemmo i permessi necessari e seppellimmo il padre di Laura in giardino un mercoledì di fine giugno. La notte prima era piovuto come in tutto il cenozoico, e adesso si stava come nell’hararet di un hammam; il caldo nebbioso acuiva la percezione di un lento strangolamento e l’oppressione vegetale si stava facendo sempre più gravosa. La pioggia nefritica contribuì ad accelerare la germogliazione dei cadaveri e a poco servirono i tentativi di bloccarla dalla nascita, estirpando prima i boccioli e poi, ancora più radicalmente, i cadaveri. Qualcuno propose di approntare un’enorme pira nel mezzo della piazza più grande di Sabbione, ma tutti i cadaveri, o quasi tutti, avevano parenti e amici che si opposero con fermezza a questa soluzione.
Laura cominciò a recitare una preghiera per suo padre. Io scavai un fosso profondo due metri e gettai il corpo nella terra avvolto da un sacco di plastica. Mentre ricoprivo la fossa ascoltavo la radio, non faceva altro che ripetere notizie sui cadaveri germogliati. A Scurzolengo, nelle colline sabbionasse, l’intero cimitero aveva germogliato un’unica, immensa, vigna, i cui pampini e acini emanavano un violento lezzo acidulo e cadaverico.
In breve ci isolarono. Le televisioni non ne vollero più sapere. Un’intera città era allo sbando, la sua popolazione era ridotta alla stessa stregua di un gruppo di universitari dopo una colossale sbronza; i miasmi, i conati, le allucinazioni, i barcollii della gente che non si reggeva in piedi, le splendide donne sabbionasse ridotte a femminucce anoressiche, erano tutti fattori che tenevano lontana l’attenzione della gente.
Accompagnai Laura nella zona alta della città, in collina, dove l’aria era più respirabile e il lezzo meno nauseante.
Mi chiese di portarla al Luna Park.
Ci fermammo ad ammirare i neon impolverati, le luci rosse, l’immenso clown dalla bocca spalancata che pareva sbadigliare nella noia d’estate. Il luna park era deserto; sebbene alcune giostre fossero funzionanti nessuno ci veniva da settimane. La accompagnai sulle montagne russe e per un momento credetti che si stesse divertendo, l’aria fresca ci accarezzava il viso e le alte velocità coprivano il fetore della vegetazione.
“Mio padre mi portava spesso sulle montagne russe”, disse. “Ne ero terrorizzata. Gli chiedevo di tenermi stretta, ma lui diceva che dovevo crescere, che un giorno non avrei avuto nessuno a cui stringermi, che avrei dovuto sbrigarmela da sola”.
Del grande Luna Park di Sabbione restavano quattro o cinque giostre funzionanti e un solo chiosco di mais abbrustolito, peraltro deserti, oltre alla tenda della Maga Vulshok, una novantenne moribonda mascherata da fattucchiera.
Laura volle entrare. La maga mi sembrò in uno stato di ipnosi, o catalessi, e tuttavia non pareva particolarmente turbata dagli eventi. Indossava una vestaglia scura sulla quale spiccavano motivi celesti e sedeva su uno sgabello marcio che faticava a reggerne il peso.
“Vogliamo conoscere il futuro”, disse Laura.
“Il futuro di chi?”, chiese la fattucchiera mostrando il suo unico dente brillante al centro della bocca.
“Il futuro di tutti”, replicò Laura.
La vecchia era ridotta piuttosto male. Aveva una specie di barba sul viso pallido, traballava sullo sgabello, ciocche di capelli le si staccavano dalla testa e cadevano sul pavimento ricoperto di giacinti.
“Questi giacinti sono tutti i miei morti” disse con un filo di voce, “osservate i giacinti che sono i miei morti”; scostò la tenda scura che aveva alle spalle, strappò un giacinto e lo porse a Laura, poi tornò nel suo stato di trance, quasi in coma.
Tornammo a casa con le braccia pesanti e gli occhi annebbiati, e Laura mi sembrò bellissima con il giacinto infilato tra i capelli madidi. Le strade di Sabbione erano avvolte da una nebbia misteriosa e l’asfalto era ricoperto di terriccio scuro, humus, fanghiglia. Le radici delle piante più grandi squarciavano le strade ovunque, arrampicandosi sui palazzi, attorcigliandosi ai semafori e ai lampioni. Macerie di pietra avvolte da erbe infestanti ingombravano le vie d’accesso agli ospedali e alle scuole.
I pesticidi furono inutili. I cadaveri continuavano a germogliare più rigogliosi che mai. Ci fecero notare che i cadaveri ebrei e musulmani, così come quelli di altri culti, non attecchivano. Gli unici ad attecchire erano i cattolici.
Nessuno seppe spiegare di preciso perché, ma dal momento che la gente non sembrava interessata a questo aspetto della vicenda nessuno se ne preoccupò.
Al quinto mese l’Osservatorio Medico Legale del Sabbionasso giudicò il fenomeno insolito e stilò un rapporto di trecentoquaranta pagine, consultabile presso l’Archivio cittadino.
Pensammo di andarcene, ma nessuno voleva lasciare la città, io ero così attratto e tormentato dalle piante che un pomeriggio trascorsi diverse ore a odorarne le emanazioni. Tiravo avanti a scopolamina tagliata e a esalazioni fetide. Di notte vagavo per bar e locali cercando persone, gente che come me si aggirava per la città a caccia di una nuova specie tropicale, di un germoglio appena sorto, ossessionata dalle esalazioni fetide ed equipaggiata di scopolamina. Nei bar ormai si servivano siringhe anziché bibite.
I pochi locali chiudevano presto, rigettando nelle strade invase dai vegetali tutti gli intossicati ormai strafatti di esalazioni e scopolamina. Vagabondai lungo il fiume in cerca di piante migliori, più grandi, dal gusto diverso e mostruoso. Le prostitute avevano lasciato quei luoghi ormai da tempo: la chiatta era invasa da potentille e un numero imprecisato di piante da spezia, pimenta racemosa, cinnamomum zeylanicum, camellia sinensis.
Ormai mi spostavo sempre con un grosso manuale illustrato di botanica nello zaino. Lo avevo studiato minuziosamente.
Il fiume trascinava materiale di ogni genere, ma lungo le sue rive non c’erano più pescatori, né i soliti adolescenti notturni in vena di sballi, non c’era nessuno. Mi fermai presso il terrapieno che segnava l’argine, ora ricoperto da una gigantesca Bougainvillea Spectabilis; la teologia botanica spendeva parole dure per i cadaveri che buttavano quel genere di arbusto.
Odorai a lungo e profondamente, sentendomi vibrare il più interno midollo delle ossa. Le mie narici, ridotte a una sottile cartilagine, erano lacerate, le ginocchia mi sorreggevano a fatica.
Pensai di gettarmi nelle acque sudice e sconvolte del fiume e subito dopo svenni.
Laura volle tornare in collina. Dall’alto il panorama della città era incantevole. Fiori multicolore addobbavano i palazzi e le strade, i lampioni, le panchine. E poi boccioli, gemme, alberi ad alto fusto, alberi da frutto.
Mi sedetti rivolto alle montagne e piansi.
Poi venne Shiv Wiratchant.
Shiv Wiratchant era un biologo ipovedente originario dell’India, o della Thailandia, che produsse e coltivò un particolare parassita in grado di eliminare l’odore. Un parassita che si nutriva di esalazioni fetide. In sostanza incrociò una forma di lepidottero tropicale con comuni afidi succhia linfa e li bombardò con radiazioni ionizzanti.
Ne produsse a milioni, forse a miliardi, e li rilasciò in città.
Nel giro di due settimane, disse, avremmo ottenuto dei risultati. Tutti attendemmo i risultati.
Solo che fu un fallimento. I parassiti assimilarono le esalazioni dei fiori ma non bloccarono la crescita delle piante. A quel punto la città sembrò esplodere in una bolla di qualunquismo. Qualcuno non riuscì a ritrarsi dalla dipendenza alla scopolamina e fu immediatamente alienato, ma alcune persone ne uscirono.
Prima di andarsene Wiratchant ripeté centinaia di volte una sola frase nella sua lingua, soltanto una, ma nessuno la comprese.
Poi successe qualcosa. Qualcosa che era già successo in passato, quando ci battezzarono, quando ci costrinsero a combattere, quando scoprimmo la morte.
La gente ricominciò pigramente a rubare, rompere, uccidere, fare l’amore.
Tornai alla sardigna municipale e qualcuno dei miei apprendisti mi spronò a discutere con loro della questione.
Mi chiesero, che significato hanno? Le piante, i fiori, i morti, le radici.
Risposi, nessuno può saperlo.
Dissero, eppure qualcuno dovrà saperlo.
Risposi no, non necessariamente.
Domandarono, non stiamo forse soggiornando nel bel mezzo di un profondo atto simbolico?
Risposi probabilmente sì, ma il simbolo presuppone un’acquisizione dell’essenza del significato.
Dissero, eppure se significato e significante coincidessero, non staremmo parlando di un atto di Dio?
Risposi, qui non si tratta di un mero atto singolo, ma di un processo costantemente progredente di determinazione che dà la sua impronta all’intero sviluppo della coscienza.
Domandarono, non sei convinto che sia stato Dio a fare questo?
Abbozzai una risposta, ma a quel punto ci consegnarono una partita di cani randagi morti e fummo costretti a riprendere il lavoro.
Dissero, spesso la morte manifesta la vita.
Risposi, può darsi.
Dissero, ci sembri provato, prenditi una vacanza.
Dissi, ci rifletterò.
Venne l’inverno e i fiori cominciarono ad appassire. I cittadini usarono i cadaveri germogliati per abbellire i palazzi; li misero sui terrazzi, sui tetti, nei parchi, costruirono orti e giardini pensili. I parassiti andarono in letargo, o comunque sparirono dalla circolazione. La neve ricoprì la città.
Portai Laura in montagna e fabbricammo uno splendido palazzo di ghiaccio. Era un palazzo molto grande.
“Quassù mi sento libera”, disse Laura distendendo i suoi capelli lunghi e neri.
Abitammo qualche settimana nel nostro palazzo, scrivendo canzoni e poesie, facendo l’amore e traducendo antichi libri sanscriti, cibandoci di bacche e carne, pregando un po’. Laura pregò molto e cantò diverse canzoni.
Suo padre non germogliò mai.
Disse, perché è successo? Risposi, nessuno lo sa.
Disse, perché mio padre non è germogliato? Risposi, non lo so Laura, nessuno può saperlo.
Disse ancora, eppure qualcuno dovrà saperlo. Risposi no, non necessariamente.
Quando tornammo in città i fiori erano avvizziti e le strade profumavano di disinfettante industriale.