di Antonio Fidel Mereu
Copertina: Ta ta ta – Antimonio
Da appena dopo l’ora di pranzo fino all’istante in cui il sole con morta indifferenza cominciò il suo implacabile, stanco e lento declino dietro la vallata, improvvisando una tramontata di disinibito squallore oltre la folta coppa delle colline, sbavando di un rosaceo ciuffo il cielo che, poco a poco, scivolava sul fondo disperato del giorno, lasciando spazio alla purezza della sera, la ragazza rimase sempre lì seduta, senza mai muoversi un momento, granitica, come un fiore marcito e secco, quasi al di fuori del tempo, su una frastagliata roccia, a rimuginare nella quiete anch’essa pensosa, ora, calma e placida, Perché, perché a me, perché e mentre si arrotolava nel vento un principio di polline: è sua la colpa, pensava, il vento, il calore, le sterpaglie storte e rotte; colpa, questa, che, man mano che il tempo si versava furioso nel decadimento dell’attimo, assumeva un peso sempre maggiore, in un crescendo di torturata commiserazione, di odio e rimpianto verso il mondo, verso i suoi maledetti animali, verso le rocce, l’acqua, verso questa natura morta e immota, ubiqua, che sempre si divora, bramando il nulla originale, perché no, no, non può essere solo colpa dell’uomo, no, non hanno colpe questi uomini, queste donne, questa gente è solo stanca e sopporta, tutto sopporta, di tutto è stanca, stanca di vivere, stanca di respirare, stanca di dormire, di risvegliarsi, di mangiare, mangiare, mangiarsi tutto, padri e figli, questi gobbi sonnambuli senza coscienza, nudi di fronte alla natura, se hanno colpe, l’incolpevolezza è la colpa, il giogo pesante che stringe loro il collo, anche loro hanno colpa, certo, la hanno, pensava, ma in minima parte, in quanto ciò avrebbe implicato anche la sua, di colpa, per il fatto di essere essa stessa parte di quel tutto che l’uomo è, e questo, ancora, non era in grado di accettarlo. Eppure fu solo allora, seduta su quella roccia a guardare la valle e i tristi monti, alti poco più di una collina guardata da lontano con lieve imbarazzo, che capì perché qualcuno una volta le disse che l’estate, nella sua terra, là al centro, nella valle in cui lei stessa era nata e cresciuta, non venne mai considerata un periodo di gioie, sorrisi, passeggiate sui marciapiedi in vestitino, vacanze in famiglia e asciugamani sulla spiaggia, ma, anzi, la si aspettava con un timore tutto particolare, come si aspetta di arrivare a quella fossa che la natura col tempo ha nascosto sotto del vecchio fogliame là da qualche parte nel campo lungo cui si cammina, indugiando e attenti, coscienti di esser prossimi alla caduta, che pure si accoglie, quando arriva, inesorabile, con sempre nuovo stupore: il grano, il fieno: l’alzarsi del maestrale: l’estate: gli incendi.
Sorse alle tre in punto, furioso tra le campagne, accecante e senza vergogne, pian piano consumando quanto gli si portava alla bocca. La sorella più grande era già là fuori, svuotata di lacrime e di voce, un temporale inespressivo, scavata nel volto come una statua di sale, una nera sagoma disegnata sullo sfondo rosso della campagna movimentato da un gioco d’ombre cinesi in cui bestie, tra cavalli e agnelli, s’inalberavano danzanti, rotolavano, si gonfiavano, pingui di fumo e, silenziosi, si estinguevano a terra, morti, mentre lei, la piccola, ancora tardava a rinvenire da un sonno non suo, calda sull’erba, un poco distante dalla casa dove il padre, ancora, tentava invano di rientrare, destreggiandosi tra le fiamme con una coperta lacera, come per domare un toro urlante impetuoso, testardo, come testardo era lui, che non cedeva alle grida supplici della figlia strozzata dal fumo e ferma, gridando il Caso. Dovettero unirsi entrambe per portarlo via, una sola non riusciva. Le fiamme avanzavano rapide, violente. Partirono con quanto la madre era riuscita a portare in salvo per loro, che non riuscirono a portare in salvo lei, percossa dalle travi, abbruttita, sgretolata dalla vampa. Si lasciarono alle spalle una luna di sangue, e quando il sonno fu ritrovato, l’alba.
Settecento ettari arsero durante la notte. Il paese venne evacuato. Gli interventi aerei furono impediti dal vento; le campagne, spolpate dalle fiamme. Tutto era perduto. Il sacrificio: la vita: tutto. Si contavano circa trecentoventi incendi, nella regione, da che l’anno era cominciato, naturali una ridicola parte. È la siccità, dicono, sì, la siccità, le sempre più rare piogge all’interno dell’isola le quali, quando presenti, funeste e impetuose, vanificano al pari degli incendi il lavoro di braccianti e cadaverici agricoltori, ridicendo in bisbigli le dure terre, le viti, le case. L’aria torrida, il fieno selvaggio, i campi incolti, martoriati e abbandonati presto, terre di nessuno, micce a cielo aperto, un cerino, alla natura il resto. Una punizione, un castigo, pensò la ragazza.
Verso quell’ora l’incendio ancora consumava, ma venne circoscritto a un’area controllata via terra verso est. Dalla città il fumo aveva ormai quasi terminato di divampare nell’aria, sebbene qualche filamento grigiastro saliva ancora dalla terra, ispido e denso, come il fumo di una fornace. Lento, si apriva a ventaglio nell’aria per poi riavvolgersi su se stesso fino a sparire, risucchiato da una sorta di battigia formatasi progressivamente in su nel cielo, come una colonna di fumo orizzontale o un indefinito filare lanuginoso che separò, distinto, quel che resta del fumo dalle vere e proprie nuvole, qualcosa di vivo che respira, che aspetta che qualcuno lo guardi, e farsi guardare dentro, pensò la ragazza. Rimase a guardarlo tutto il tempo sfilacciarsi e riavvolgersi denso nell’aria dalla sua roccia, calma, ora, imperturbabile, sopra l’altura in cui trovarono riparo durante la fuga, in quella notte di sangue e di lacrime, quella notte in cui una casa venne distrutta, ed un’altra, dentro essa, perduta.
La piccola cercò allora di isolare con lo sguardo la pantomima di una qualche lontana fiammella rimasta ancora accesa, ora sull’anta di una casa, ora tra le ceneri nel ferro, nella campagna, così esile e innocua ora che il vento si era fatto più gentile e leggero, lievi fiammelle, piccole, come il lume di una candela, mentre un murmure di zolfo furtivo si ostinava a spandersi inosservato nella terra e l’aria, arida, portava dal paese minuscoli brandelli di mura e di gente, di carte, di città, di vite, ricordi e sogni mai compiuti, incontri rimasti allo stato larvale, trasportati verso il cielo e verso lei, invisibili, che poco a poco le coprirono la pelle e le vesti di una sottile patina salmastra, di una memoria ancora fisica e vera, tangibile, in disfacimento verso l’astratto. E se per un attimo ebbe l’impressione di sentire qualcosa, non fu capace di carpirla all’affabulare del vento, un sibilo indecifrabile, come un bisbiglio o una nenia, un lamento dolce o, forse, un latrato lontano, la voce della sorella, forse, probabile, ma non avrebbe saputo dire. Guardò la macchia al di là dell’altura e tra gli alberi, pensando a come tutto si muova, a come tutto si disperda. È infantile pensare che tutto rimanga com’è. Sarebbe bello, sì, lo sarebbe. Vivere di carezze e marmellata l’intera vita. Eternamente giovani. Giovani fino alla morte. Sì. Ma forse è un bene che tutto cambi e, comunque, è un qualcosa al di fuori del controllo dell’uomo sulle cose, indipendente. Forse. Perché se anche fosse dall’uomo che dipende, la natura ha una volontà tutta sua che sa come rendere dipendente da sé ciò che c’è di estraneo al suo movimento. Forse bisognava solo fare spazio ad altre cose. Forse non è stata una punizione, un castigo, un capriccio, ma qualcosa che sarebbe servito a farle muovere, le cose. È bene che tutto cambi, allora. Non poteva restare tutto così e non si poteva impedire che così non fosse. Forse è ciò che sta cercando di dirmi. E forse è questo che ha fatto, il vento, e, io, lo guardo, che viene caldo e freddo insieme verso me, fallo, dice, come portandomi ciò che non poteva essere più, perché io ricordi, perché io non dimentichi, per poter andare avanti.
Zoppicò a terra la magra ombra della sorella, alle sue spalle, che, dolente, messa alla prova dalla lunga notte, si avvicinava, muta e torva come un uccellaccio, un avvoltoio pensò la ragazza, nera, nella polvere smossa dai passi. Ora lei si aspetta che io dica qualcosa. Sì. Vuole che io lo dica: Sì. Lo farò, sì, sì. Non c’è bisogno che lei lo chieda neanche. Lei sa di avere la ragione con sé; inutile parlare con chi è convinto di averla, la ragione. Mi guarda come si guarda in una cornice vuota, uno specchio opaco di riflessi rotti. Ha bisogno che anche io lo faccia, sì, per non essere la sola, per non essere sola, per riflettersi, confortarsi, compatirsi. Non ti guardo. Non avrai i miei occhi. No, ma lo capisco. Lo capisco bene. Dico sempre: non è mai l’egoismo a dettare per il meglio, quanto è la disperazione che porta a dare per buona quella che l’unica possibilità sembra. Una speranza illogica. Illogica, come ogni speranza. Salvati e assaggia la tua stessa carne perché non c’è altro modo. La bocca chiede perdono. È il sangue sempre a peccare. Il vino è poco. Oggi o mai più. Qualunque cosa lei dica ora, sappiamo entrambe cosa le parole significhino realmente. Tiene la calma salda e fredda, lei, come ci hanno insegnato i nostri genitori, come un cane rognoso legato al palo, o una serpe intrappolata in un cristallo. Vittima delle circostanze, sì, come tutti, e come tutti non si è accorta che la circostanza ultima è forse l’unica ad essere veramente dipesa da lei e dalla sua ragione Ma ancora non la aveva guardata in volto, e se ne stava seriosa sulla sua roccia, con sulle ginocchia il gomito che le reggeva la testa abbandonata sulla mano infantile e pura, intenta a guardare verso la valle e il fumo stanco, a guardare la fanciullezza che l’abbandonava.
Poi, all’arrestarsi del vento, il ticchettio nervoso delle unghie riacquistò vagamente peso nell’immobilità dell’altura, senza però mai divenire invasivo, come un suono indifferentemente percepito dall’orecchio umano o lo scandirsi di un tempo, un minuto, un secondo, che ora non contava più alcunché per nessuno, una morta clessidra fossilizzata, quasi i loro corpi cercassero di rigettarlo o, anzi, lo avevano ormai ingerito, divorato, consumato, il tempo, come se passato, presente e futuro si fossero riuniti dentro quell’unico istante dilatato all’estremo in cui loro erano ora immerse e da cui tutto avrebbe poi dipeso.
«Ti farà bene, non è troppo sporca l’acqua, vatti a dare una rinfrescata. C’è da schiattare per il caldo. Conviene muoverti se non vuoi schiattare con le stesse vesti di ieri ‘ppiccicate addosso» disse la sorella, rivolta verso il sentiero dove, non lontano, una fontana sgorgava inutile sullo sterrato.
Lei non rispose, pensando a quell’acqua che evapora ignorata sull’asfalto, nessuno l’avrebbe abbracciata, litri e litri che scorrono a vuoto e nessuno disposto ad accoglierli. E il bisogno d’acqua, la cara sete e l’ondeggiare dei ciuffi d’erba tra le rocce, la riportarono in campagna, tra i campi brulli e argillosi vicino i binari del treno, la riportò al pozzo dove da bambine andavano con la madre a riempire i secchi d’acqua da portare agli animali, la riportò sotto l’ombra di una quercia vecchia e spoglia sotto cui si riposavano, riprendevo le forze respirando piano, semidormienti, e stavano ad ascoltare il frinire dei grilli nascosti lontano nel fieno, o nell’erba, che cresceva a macchie sulla piana, secca e dura, smossa dal vento come da una spazzola i capelli. La riportò in un primordiale idillio conservato nell’eterno come un’antica reliquia, un paesaggio finemente scolpito di un tempo in cui ancora la vita era facile, appena triste e bella.
Pensò a quanto ancora avrebbe potuto fare e a chi avrebbe potuto essere se solo le circostanze non si fossero alterate. È infantile pensare a come sarebbe potuto essere, ma come non farlo L’alba nella stalla, il tempo perso in lezioni di diritto alla scuola commerciale, le ripetizioni poco economiche che avrebbe potuto non fare, ma necessarie, allora, quando il futuro era sempre più certo e abbandonare la campagna che ora risognava si rivelò una possibilità e non solo un sogno. Amate odiate radici. Che ne restava ora? Qualche nozione copiata dalla lavagna e degli appunti indecifrabili non appena la lavagna non le era più davanti. Ma così è, e non altrimenti. Ricordo la prima volta è stato a scuola. Disegnai i miei animali e la campagna e il vento entrava dalla finestra, scostando la tenda, per guardare le nostre cose come un bambino curioso che ride. Non sarebbe stato male mettere colori qua e là su un foglio per il resto della vita. Bastava solo un po’ di pratica, forse; col tempo avrei imparato. Ma ho messo tutti i miei colori nel disegno sbagliato. Erano nei libri di scuola, a volte sui giornali, lucidi, i dipinti. Pittori dell’acqua, il pittore del vento. Non ricordo i loro nomi. Gli impressionisti. Li avevamo studiati a scuola, loro e le loro teorie: del colore: della sottrazione. Non li impastavano mai, altrimenti tutto si sarebbe fatto nero. Colore sopra colore e via, fino al nero. Il nero che è un colore vero al contrario del bianco, il bianco che in teoria è tutti i colori, ma insieme, sono neri nella realtà, e è ciò che si ottiene a volere tutto, alla fine arriverà quel qualcosa di troppo e il danno sarà irredimibile. Come sulla nostra terra e su questa terra, nera e dura, bruciata, cancellata. Salvare il salvabile e il resto nel nero che resta. E dove c’era la nostra casa ora c’è un buco di fossi e dentro le nostre cose una sopra l’altra nere a carbonizzate. Dove stavo a dormire è crollato tutto e la mamma si è voltata a guardarmi ed ore dorme sotto il mio letto. E l’erba è la casa è tutto di nero. Com’era? Senza vita, né forze, né vento. Nel vento tante persone, ma ora solo silenzio. A galla nel fondo del mondo ed ora solo nel vento. Senza mai andare a fondo, bagnata e salata galleggio. Dov’era? Nell’acqua morta. Nera. Qual era? Mar nero o mar morto? Piatto, morto, nero, Amora e Sdom, veleno, ma qual era? …
Ma all’improvviso il flusso della sua mente errante venne interrotto, di netto, come troncato in due dalla vanga, attirato da una roteante cantilena. Ed ecco, si voltò finalmente, per la prima volta, verso la sorella, scorgendola tra fasci di luce, senza riuscire a vederla ancora nitidamente, come tra banchi di nebbia, sfuocata, un po’ per il sole e la polvere che si era alzata intorno a loro, un po’ perché confusa, soprappensiero, incapace di mettere in ordine le parole che l’udito le suggeriva, e soffermandosi un istante a domandarsi se per qualche strano motivo le parole che andava pensando le fossero veramente sfuggite di bocca, infime, a tradimento, o se pure lo stava solo sognando, preoccupandosi per un nulla.
«Cosa qual era? Qual era cosa?» continuava la cantilena. «Qual era cosa? Sembri malata».
Allora era così, doveva essere vero, quasi il vento l’avesse tradita ancora. Lei strabuzzò gli occhi con forza, turbata e colma di vergogna, si sentì persa, come una foglia staccata, sbattuta qua e là dai venti, che non ritrova più il suo albero. Da quanto stava parlando? Un’ora, un momento? Fu solo allora che distinse la sorella e la vide chiaramente, come attraverso uno specchio, col viso in penombra e un riflesso di luce pallida sulla guancia, avvolta da vesti leggere, e la vide così per come anche lei stessa era: sola e un po’ infelice. Allora prese ad alzarsi e scosse i grumi di polvere cumulatosi sulla veste col dorso della mane, pudica e con occulto dolore, quasi volesse liberarsi di punto di un qualcosa da cui non avrebbe voluto mai separarsi. Scostò la sorella guardandola di sottecchi, le dita ritorte nascoste tra i palmi, e passò avanti, col sole nelle reni. L’acqua alla fontanella continuava perpetua a sgorgare, correva un fiore di polveri.