di Gian Marco Griffi
Copertina: Trento – Andrea Herman
Si era svegliato presto, come sempre. Prima di scendere dal letto aveva pensato a Tilde e a Lito, come sempre. Era sceso in cucina col buio e aveva preparato il caffè cercando di ricordare il sogno che aveva fatto.
Mentre beveva il caffè aveva avuto un’illuminazione, si era appoggiato al tavolo, aveva preso un foglio, aveva iniziato a scrivere.
“Cara Tilde, inizio un altro racconto che non leggerà mai nessuno, e sono contento così, ché da molti anni ho deciso di tenermi le mie parole per me. Le parole segrete sono come la neve appena caduta sul brecciame della ferrovia che correva accanto alla finestrella dell’ufficio mezzo vuoto da cui riportavo i fatterelli domestici di una guerra bastarda, come il lessico famigliare tra amanti, sono i pomodori rubati dall’orto, prima che arrivi qualcuno a dirti che non valgono niente”.
Aveva avuto un capogiro, si era seduto sulla poltrona dove aveva letto centinaia di libri, aveva pensato alle batterie per automobili, a un bistrot di Parigi, a una donna di nome Adele, aveva recitato mentalmente una poesia di Yves Bonnefoy, aveva chiuso gli occhi, era morto.
Lo trovarono dopo tre giorni. Il mercoledì due testimoni di Geova avevano citofonato a casa sua, non aveva risposto. Per dieci anni aveva aperto a dozzine di testimoni di Geova, gli aveva preparato il caffè, si era fatto raccontare della Bibbia, aveva discusso di Dio. Lui gli parlava dei Bibelforscher durante il nazismo, dei cani del cielo, dei triangoli viola, loro parlavano di Gesù e della Causa Prima, della separazione dal mondo.
Non avendo ricevuto risposta uno dei testimoni di Geova aveva chiamato i carabinieri, aveva detto che era successo qualcosa al vecchio di via del Diavolo, i carabinieri avevano ridacchiato, avevano fatto un paio di battute sui testimoni di Geova. Il venerdì i testimoni di Geova erano tornati a casa sua, avevano citofonato, non aveva risposto.
Questa volta i carabinieri erano andati sul posto, avevano sfondato la porta, lo avevano trovato sulla poltrona.
Uno dei carabinieri lo conosceva di vista, disse che si chiamava Lito Barbolini e che si era trasferito a Reggio da un paio d’anni, arrivava dall’Argentina. Cercarono i documenti, non li trovarono. Trovarono invece uno scatolone pieno di cartoline indirizzate a un certa Tilde Apostolo, residente a Montemagno, provincia di Asti, e centinaia di pagine battute a macchina. Il maresciallo chiese di cosa si trattava, l’appuntato disse non so, sfogliava le pagine ingiallite e ne annusava l’odore stantio; il maresciallo disse stasera ti toccherà leggerle tutte, l’appuntato disse certo maresciallo, il maresciallo disse scherzavo, De Giorgi, a cosa vuoi che serva leggere tutta ‘sta roba, l’appuntato disse che forse, tra quelle pagine, c’era qualche indizio sull’identità del morto, il maresciallo disse bravo, De Giorgi, porta tutto in caserma.
Nel pomeriggio cercarono il nome Lito Barbolini all’anagrafe, non lo trovarono. Domandarono a quelli della frazione, tutti lo conoscevano come Lito Barbolini, nessuno lo conosceva davvero. Qualcuno lo aveva visto tre o quattro volte, qualcuno gli aveva venduto il pane, il latte, i peperoni, il vino, ecc. ma nessuno gli aveva mai parlato per più di dieci minuti. Alla Cantina Sociale non s’era mai visto neppure per un bicchiere di vino, non era iscritto alle liste elettorali, quelli del bar non avevano idea di chi fosse, qualcuno sapeva che era arrivato dall’Argentina e perciò avevano iniziato a chiamarlo l’Argentino.
Tennero il corpo all’obitorio in attesa di riconoscimento, in attesa di trovare almeno un parente che potessero avvertire.
Non trovarono nessuno.
Dopo due giorni l’appuntato De Giorgi propose di chiamare la donna cui erano indirizzate le cartoline mai spedite, il maresciallo acconsentì.
Rispose un uomo, disse di essere il figlio della donna. De Giorgi pensò che la donna potesse essere morta, ma dopo un quarto d’ora sentì una voce che diceva pronto, De Giorgi disse buongiorno signora Tilde, si presentò, la donna non diceva niente, De Giorgi le domandò se aveva conosciuto un uomo di nome Lito Barbolini, la donna rimase in silenzio per altri dieci minuti, poi disse no, e riattaccò.
§
Giunio Ferraro era nato ad Asti il ventitré luglio millenovecentoventuno e fino a diciannove anni non aveva scritto una sola parola che fosse innecessaria per la sua quotidianità. Nel 1943 si era arruolato nella Guardia Nazionale Repubblicana, aveva cominciato a scrivere parole innecessarie. Teneva un diario e raccontava le vicende di una terra immaginaria che aveva chiamato Sabbione, il cui nome aveva desunto da un verso dell’Inferno di Dante.
In un bar aveva conosciuto Tilde, come spesso accade tra giovani se ne era innamorato follemente; nello stesso bar aveva conosciuto Lito e gli altri pittori monferrini, nonostante fosse un soldato della Repubblica Sociale Italiana aveva maturato l’idea che fosse bene scrivere e basta, senza schierarsi né da una parte né dall’altra; aveva preso a frequentare Lito e i suoi amici, si raccontavano storie e dipingevano, una notte lui e Lito avevano ammazzato un ufficiale della Gestapo nel suo orto ad Asti, l’ufficiale li aveva sorpresi a rubare ortaggi, aveva riconosciuto Giunio, Lito lo aveva preso a badilate; dopo una settimana dall’Albergo Nazionale di Torino erano riusciti a risalire a loro, durante un rastrellamento li avevano localizzati, era fuggito.
Nell’ultima pagina astigiana del suo diario aveva scritto:
“È successo in un momento. Quando sono arrivati stavamo ridendo come matti per l’interpretazione di Ettore e Giovanni.
Lito mi ha fatto uscire dal retro. Mi sono tuffato nello stagno e ho nuotato fin dall’altra parte. Ho sentito un paio di colpi. Sentivo i soldati a sessanta passi, dall’altra parte dello stagno, urlavano e si incitavano come se fossero al tirassegno, io correvo come un matto cercando di raggiungere il bosco, ero in un punto in cui la collina è spelacchiata, sentivo i proiettili che sfrondavano la vigna alla mia destra, ho pensato eccomi morto, e trecento passi dopo ero con la schiena attaccata al tronco di una quercia. Non so quanto tempo sono rimasto lì. Ogni secondo pensavo ecco, mi prendono, sono finito. Mi fucilano da traditore. Dopo un po’ non ho sentito più nessun rumore. Mi sono voltato per vedere che fine avessero fatto i soldati. Non c’era anima viva. Mi sono alzato e ho iniziato a camminare.
Quando sono arrivato a casa il sole stava tramontando. Fissata alla porta ho trovato la nostra fotografia nella valle tra Grana e Casorzo; sul retro c’era scritto “sappiamo chi sei, maiale fascista”. Sono entrato in casa con il cuore in gola, mia madre stava preparando la cena, quando mi ha visto si è subito preoccupata, mi ha chiesto se mi sentissi bene, ho detto che era tutto a posto e sono filato in bagno a vomitare.
A cena non ho detto una parola. Neppure mio padre. Mia madre ha detto qualcosa che non ho ascoltato. Masticando un peperone ho cominciato a pensare che se restavo ad Asti mi avrebbero fatto la pelle. I nazisti, i fascisti o i partigiani. Con la minestra mi è presa una voglia di vivere che non avevo mai provato prima. Ho pensato a Tilde. Ho pensato a Lito e agli altri. Morsicando l’ultimo pezzo di pane mi sono detto che non potevo proprio farmi ammazzare dai nazisti o dai partigiani. Ho attaccato a rimuginare. Dopo cena sono salito in camera, ho rimuginato due ore. Mi sono ricordato di quel tizio che doveva partire per la Svizzera con il suo camion. Ho fatto su un po’ di vestiti. Ho scritto una lettera per mia madre, l’ho lasciata in cucina. Nella lettera ho scritto sette volte la parola “timore”; nove volte la parola “papà”; quattordici volte la parola “mamma”; nove volte il verbo “vivere”; due volte la parola “guerra”; tre volte il verbo “amare” e una volta la parola “amore”; tre volte le parole “Tilde”, “Lito”, “Nicolao”; una volta la parola “ciao”.
Ho aspettato che dormissero, sono uscito; quando mi sono ritrovato in strada, mi sono messo a correre come se un doberman mi stesse per mordere le chiappe, o come se fossi inseguito da un plotone di spettri o di diavoli, anche se in giro non c’erano né cani né spettri, Asti era semplicemente deserta e avvinghiata nel coprifuoco, buia e irrisolta come tutte le cose che si abbandonano per sempre.”
Aveva una lontana zia che viveva in Svizzera, a Lugano (l’aveva vista due volte, la prima al funerale di suo nonno, la seconda al funerale di sua nonna); dopo cinque notti, durante le quali sognò cinque volte di essere fucilato, bruciò i suoi documenti e riuscì a superare il confine nascosto in un camion carico di legna e ragni. Con sé aveva una valigetta contenente trecentoventi fogli battuti a macchina e nient’altro.
Sua zia non si ricordava di lui, gli domandò chi fosse e cosa volesse, lui disse zia, sono Giunio, il figlio di Arturo, tuo cugino. La zia si ricordava a malapena di suo cugino Arturo, ciononostante gli permise di trascorrere una notte a casa sua; aveva un marito e tre figlie, una delle quali era una ragazza alta e magra con gli occhi verdi, si chiamava Adele; quella notte entrò nella camera di Giunio e gli chiese se pensava che fossero parenti, Giunio non capì la domanda, lei disse stavo riflettendo sul nostro grado di parentela, Giunio disse che probabilmente erano qualcosa tipo cugini di terzo o quarto grado, lei gli domandò se fare l’amore con un cugino di terzo o quarto grado fosse un peccato mortale, o se potesse dirsi incestuoso, Giunio disse no, fecero l’amore.
Il mattino dopo, durante la colazione, Giunio disse che sarebbe andato a fare una passeggiata, il marito di sua zia gli rivolse la parola per la prima volta in due giorni per comunicargli che si doveva trovare un posto per dormire.
Passeggiando con Adele, Giunio disse che ci aveva riflettuto, fare l’amore con un cugino di terzo o quarto grado poteva essere considerato incestuoso, che forse dipendeva dal prete, lei disse ormai è fatta, non ci pensiamo più; nel pomeriggio Giunio le domandò una cartina del Canton Ticino, Adele gliela procurò, Giunio vide che a due ore e mezza di auto da Lugano c’era un posto chiamato Sabbione (era una frazione di Bignasco), disse ad Adele che sarebbe andato lì, lei gli disse che in quel posto non c’era niente, Giunio disse che ci sarebbe stato lui.
Raggiunse Cevio grazie a un amico di Adele, da Cevio camminò fino a Bignasco e lì trovò da dormire presso amici della famiglia dell’amico di Adele.
Il capofamiglia si chiamava Hans e non era ticinese, ma parlava italiano perfettamente; gli chiese cosa lo portasse lì, Giunio si presentò come Lito Barbolini e rispose che lo portava lì il nome della frazione chiamata Sabbione. Hans non gli fece ulteriori domande (non gliene fece mai, anche se sapeva benissimo che non si chiamava Lito Barbolini) e gli disse che poteva restare in cambio di un aiuto nella sua bottega, Giunio disse che non aveva mai lavorato in vita sua, Hans disse sarebbe ora che cominciassi. Rimase un anno a Bignasco, nel frattempo, oltre a lavorare, scriveva e costruiva una piccola casa in frazione Sabbione con l’aiuto degli amici di Hans, che lo avevano preso in simpatia. Il posto non gli piaceva granché, si sentiva soffocare dalle montagne, ogni notte sognava Lito e Tilde, le colline, il volto massacrato dalle badilate dell’ufficiale della Gestapo.
Si trasferì nella sua nuova casa di Sabbione quattro giorni dopo la fucilazione di Mussolini. Hans gli chiese se avesse intenzione di tornare in Monferrato, Giunio disse che i partigiani e i nazisti lo stavano cercando, Hans gli disse che i partigiani e i nazisti non esistevano più, lui disse: questo è quello che credi tu. Hans gli aveva procurato una macchina per scrivere, di giorno lavorava e di sera scriveva, aveva raccolto novecentoventi pagine battute a macchina.
Un mattino di luglio Adele si presentò alla porta di casa sua e gli disse che lo amava.
Giunio le disse che i partigiani e i nazisti gli davano la caccia, Adele lo accarezzò e disse Giunio, i partigiani e i nazisti non esistono più, lui rifiutò la sua carezza e disse: sì, questo è quello che credi tu.
Adele si stabilì con Giunio, ogni sera gli chiedeva cosa stesse scrivendo, Giunio rispondeva che stava scrivendo di suicidi, Adele si preoccupava, diceva come di suicidi, Giunio diceva sì, di suicidi e di un posto desolato, Adele diceva tipo un deserto, Giunio diceva no, tipo un posto desolato, Adele non capiva, gli chiedeva che cosa stesse scrivendo, Giunio rispondeva sto scrivendo di un uomo che non riesce a piangere, Adele chiedeva perché non riusciva a piangere, Giunio diceva perché piangere è difficile, Adele diceva no, piangere è facilissimo, Giunio diceva forse sì, facevano l’amore, passavano ventuno anni, Adele chiedeva a Giunio cosa stesse scrivendo, Giunio rispondeva sto scrivendo di una donna decapitata, di poeti perduti, di cadaveri che fioriscono, di sterilità, Adele diceva ti dispiace non aver avuto figli, Giunio diceva no, non voglio mettere al mondo nessuno, Adele chiedeva perché, Giunio diceva perché no, poi usciva a camminare sull’unica strada di Sabbione e immaginava la sua Sabbione, quella battuta a macchina, si metteva a ridere, Adele gli chiedeva perché avesse riempito tremila fogli con quelle storie se non voleva pubblicarle, Giunio diceva che si vergognava, ma in realtà il motivo non era la vergogna, bensì la sensazione di non aver concluso niente, la sensazione di non aver scritto niente di rilevante. Forse era così.
Nel millenovecentosessantasette aveva tremilaquattrocento pagine battute a macchina. In nessuna di queste comparivano le parole Monferrato, Tilde, Lito. Quelle parole le scriveva a mano, con una penna stilografica che gli aveva regalato Adele, su fogli che poi nascondeva nella rimessa.
L’anno dopo Hans morì, il figlio (si chiamava Andreas) chiese a Giunio di accompagnarlo in Francia per un affare, Giunio accettò; arrivarono a Parigi mercoledì quattro settembre 1968 e ci restarono per diciassette anni. Giunio telefonò ad Adele, le disse che c’era l’opportunità di rilevare un bistrot e che restava in Francia, Adele disse che lo avrebbe raggiunto in poco tempo, Giunio disse no, e riattaccò, Adele non se ne accorse e continuò a parlare, piangeva e diceva vedi che piangere è facilissimo, piangeva e diceva non puoi farmi questo, piangeva e diceva pronto, Giunio, pronto, si rendeva conto che Giunio aveva riattaccato, riattaccava anche lei.
In Francia rintracciò un falsario, lo pagò perché gli fornisse un passaporto francese a nome Lito Barbolini, nato in Corsica il ventitré luglio 1921, chiamò il bistrot Café de la sable mauvais, gli chiedevano perché, lui rispondeva vago, diceva che detestava la spiaggia, conobbe scrittori e editori, frequentavano il suo bistrot, ordinavano drink, gli raccontavano le trame dei loro libri o gli recitavano una poesia, lui non disse mai che aveva scritto migliaia di pagine, quasi tutti erano strambi ma gentili, lui gli offriva da bere, per gli scrittori offre la casa, diceva, gli editori invece pagano il doppio, gli scrittori dicevano bon, quindi è come se fossero gli editori a offrirci da bere, non la casa, lui diceva voilà, précisément, gli scrittori dicevano oui, enfin, era ora che qualcuno li facesse pagare, e brindavano a un nuovo libro o a una nuova idea.
Al contrario di Giunio, Andreas se ne fregava degli scrittori e non vedeva di buon occhio gli sperperi di Giunio, ebbero alcune discussioni piuttosto animate, nel 1985 Giunio si fece liquidare la sua parte, aveva letto di un’azienda produttrice di batterie per automobili che si chiamava Sabbione, prese il primo volo Parigi–Buenos Aires e tre giorni dopo era a San Miguel de Tucumán, in Argentina.
Durante il volo rifletté sul fatto che nei diciassette anni trascorsi in Francia non c’era stato un giorno nel quale non avesse pensato di tornare in Monferrato, che non c’era stato un giorno nel quale non avesse pensato no, la mia vita è qui, in questo bistrot, e adesso che non aveva più il bistrot, anziché decidere di tornare a casa, stava viaggiando verso un posto dall’altra parte del mondo.
L’azienda era a San Jorge, ottocento chilometri a sud-est di San Miguel e duecento chilometri a nord-ovest di Rosario, tuttavia aveva sentito dire da un tizio che la Provincia di Tucumán era un buon posto per vivere, perciò inizialmente decise di stabilircisi.
La prima volta che entrò alla Sabbione Baterías si presentò parlando in francese, disse di chiamarsi Lito Barbolini e di essere in cerca di occupazione; il tizio a cui disse queste cose non capì niente, non parlava francese, andò a chiamare un altro tizio che arrivò dopo mezz’ora, Giunio ripeté la stessa cosa che aveva detto al primo tizio, il secondo tizio gli chiese che genere di lavoro stesse cercando, Giunio disse qualsiasi lavoro, basta che sia alla Sabbione Baterías, il secondo tizio lo guardò e gli disse che era troppo vecchio per fare l’operaio e troppo poco argentino per fare qualcos’altro.
Dopo un mese di tira e molla, durante il quale lasciò ogni giorno lettere di supplica nella casella postale dell’azienda, scrisse un’ode alle batterie da automobile e un racconto sulla storia di un uomo che per tutta la vita aveva avuto il terrore dei nazisti e che a sessantaquattro anni aveva lasciato Parigi per andare nell’unico luogo sulla faccia della terra dove potevano ancora essercene, riuscì a ottenere l’impiego alla Sabbione Baterías di San Jorge, nella provincia di Santa Fe.
Il capo della Sabbione Baterías si chiamava Emeterio, si fece tradurre il suo racconto dalla moglie (era scritto in francese), lo convocò nel suo ufficio e gli chiese se era lui l’uomo del racconto, Giunio disse sì, sono io, Emeterio disse che conosceva almeno tre nazisti, ma non stavano in quella provincia, a Santa Fe di quegli schifosi non ce n’era neppure uno, poi gli disse che l’azienda aveva appena siglato un accordo con la Peugeot, sua moglie Angélica era l’unica che conosceva il francese in tutta l’azienda, era incinta, e che quindi poteva offrirgli un lavoro a tempo, per interloquire con quelli della Peugeot. Naturalmente Giunio accettò, dimostrò di poter vendere batterie per automobili e di poter consigliare Emeterio nelle scelte aziendali, il lavoro a tempo durò quattordici anni, Emeterio aveva perso entrambi i genitori durante il regime di Videla e vedeva in Giunio una figura paterna, Giunio vedeva in Emeterio il suo capo e basta, ciononostante si affezionò ad Angélica e alla piccola Irupe, la vide crescere, le fece da nonno, la portava al parco e le raccontava della guerra, Irupe chiedeva cos’era la guerra, Giunio diceva il punto nel quale cambia tutto, Irupe chiedeva che cos’era il punto nel quale cambia tutto, Giunio diceva che c’era una linea che percorreva il tempo, la linea era disseminata di punti, e dopo ogni punto poteva continuare diritta o svoltare in un’altra direzione, per esempio quando sei nata tu si è formato un punto sulla linea, diceva a Irupe tenendole le mani, e la linea prima era una bella linea, ma dopo è stata bellissima, Irupe non capiva ma rideva, le piaceva chiamarlo nonno, a lui piaceva che lo chiamasse nonno; un pomeriggio di primavera del 1999 Giunio si sentì male mentre assisteva a un concerto, lo portarono all’ospedale, infarto, dissero; due mesi dopo erano in azienda, Giunio annunciò che aveva deciso di andare a morire in Italia, Angélica e Irupe scoppiarono a piangere, lui gli cantò una poesia di Alfonsina Storni, vi ho detto due parole comuni, cantò, due parole stanche di essere dette, oh, qué bella, la vida. Quattro giorni dopo era a Reggio Emilia, aveva settantotto anni e a Reggio Emilia faceva freddo, nell’aria c’era l’inverno e lui era un vecchio che chiedeva al tassista di condurlo alla frazione Sabbione. Due anni prima tramite un’agenzia aveva comperato una casa abbandonata in via del Diavolo, la via migliore che potesse esistere sulla faccia della terra, il tassista gli domandò se era italiano (aveva preso un accento strano, mezzo francese e mezzo argentino, aveva mantenuto l’italiano soltanto leggendo e scrivendo), lui rispose di sì.
Quando il taxi parcheggiò in via del Diavolo, Giunio guardò la sua nuova casa, pensò che faceva schifo, pagò il tassista e rimase sul ciglio della strada a guardarsi intorno, c’era un vigna, un palo del telefono, un cane che attraversava un campo incolto, c’era profumo di campagna e di alberi, di terra arata e di inverno, alzò lo sguardo e inspirò il cielo dell’ultima Sabbione della sua vita.
Entrò in casa, tirò fuori dallo scatolone rosso un quaderno a quadretti, scrisse la solita lettera a Tilde, che Tilde non avrebbe mai letto.
Cara Tilde,
oggi l’amore squarcia le radici agli alberi, scoperchia le tombe e fa traballare i morti, gli scheletri tremolano sospesi a mezz’aria prima di sbriciolarsi come il grano tra i cilindri d’un mulino, scaraventa i coppi dai tetti con la furia di un vento solare, demolisce le casematte sulle alpi e genera onde capaci di alzare il Tanaro nove metri e sommergere Alba, Asti e Alessandria, si abbatte insieme alla grandine che maciulla le vigne, ma non scompone neanche un capello a te, che dovresti essere l’unica travolta; in un pomeriggio estivo che invecchia il mondo e brucia la pelle, a est delle montagne, affino la mia arte ombrosa, dipingo le rovine della città, ti vedo camminare come se niente fosse con un vestito a fiori al centro di un’apocalisse che spazza via anche i fantasmi delle cose, e non hai neppure un ombrello.
Sei bravissimo, mio caro Gian Marco, le parole ti si snodano di mano in file così colorate che sembrano colombe e merli e cardellini e usignoli che fanno tutto un volo speciale sulla nostra faccia che stiamo lì colla bocca aperta, e ciau!