di Mattia Alari
Copertina: Quel pomeriggio di un giorno da cani – Antimonio
Immaginava. E non avrebbe mai pensato di poterlo fare in quello stato.
Si immaginava albero dalla corteccia striata, l’anima bianca. Si vedeva nel vento; e davanti, il mare. Rami rossi di sangue colavano dalla sua testa, poggiata sulle piastrelle rotte del pavimento del bagno sporco. Grumi di qualcosa attorno, probabilmente cervello.
Forse il buco in testa faceva passare la corrente del pensiero e così… immaginava lo stesso.
In tutto quel casino, nessuno si sarebbe accorto di lui che moriva se non al primo montare di una nausea chimica o del bisogno di pisciare la troppa birra che si era scolato.
Che bello, finire così.
Tra lattine ammaccate, scritte sconce e un cesso intasato alle sue spalle.
Aveva imparato a leggere il proprio futuro nei fondi dei water. Quando lo diceva, tutti lo guardavano prima sorpresi e poi schifati, allontanando l’immagine. Lui, non ne comprendeva il motivo. Il fondo della tazza, dopo l’uso, lo affascinava.
Alcuni scrutavano il futuro nei fondi dell’ultimo tè, nelle foglie a terra, nei sassi; altri perfino nell’acqua corrente mentre lavavano i piatti.
Lui pensava fosse abbastanza stupido cercare il proprio destino esternamente: qualunque cosa gli fosse toccata l’aveva già dentro e quindi, non potendosi aprire la pancia come fosse una maglia, si affidava a quel che il corpo buttava fuori.
Ma non alla trasparenza dello sputo o l’innocenza del moccio.
Si fidava di quel sincerissimo scarto senza filtri. Utile, dicevano, perfino alla terra.
E non era la terra stessa merda pietrificata?
«Fai schifo…!» la voce lamentosa di Eugenio, il suo cuginetto. L’aveva scoperto a scrutare il fondo e con la mano sul naso, ma la porta del bagno aperta sul corridoio di casa della nonna, lo guardava inorridito e incuriosito insieme.
«Vattene fuori!»
«Io devo andare in bagno!»
«Non ho ancora finito qui.»
«Chiamo la nonna, chiamo la nonna!» strillava, anche se con la bocca coperta dalle piccole dita dalle unghiette grigie.
«Cazzo, non capisci niente, piccolo scemo!»
«Non dire parolacce!»
«Stai zitto o ti faccio mangiare quello che sto guardando e ti giuro che lo faccio!»
Eugenio aveva smesso di piagnucolare. Con gli occhi socchiusi e il naso arricciato, aveva iniziato a ballare sulla piastrella sulla quale era rimasto inchiodato, per la certa urgenza che tratteneva.
L’espressione schifata di Eugenio l’aveva dimenticata chissà dove. Ora, dopo il buco, la ricordava perfettamente. Non cambiava molto da persona a persona.
Aveva capito prestissimo che sarebbe finita molto male, che la sua vita sarebbe stata sporca e corta. Tanto valeva godersela senza inutili rimorsi.
Era proprio una carogna. Secondo suo padre, sua madre e chiunque avesse avuto a che fare con lui. Lui avrebbe definito se stesso solo come sincero. Aveva preso coscienza, molto presto, di non avere niente a che fare con il bene e poco con il resto. Si era quindi adeguato al suo destino già scritto in una strisciata di sangue nel water.
La lettera F infatti si era un giorno palesata davanti ai suoi occhi. Chiara anche se mal scritta, proprio come la faceva quel mancino corretto del suo compagno di banco. Il presentimento al proposito, pessimo e immediato, era stato quello di non poterci fare niente.
Evitava così di pensarci e di riflettere su tutte le altre cose.
Avrebbe dovuto evitare oggetti, persone e situazioni con la F, come la Bella Addormentata avrebbe dovuto evitare i fusi. Ma più considerava la cosa più sentiva di non poter sfuggire al senso del tutto che era già scritto. La data di scadenza gli uomini l’avevano dentro, decisamente. In quanto pezzi di carne, già si sapeva quando sarebbero andati a male. Il problema era il codice a barre, il bollo del macellaio, nascosti in qualche strato epidermico a caso e impossibile da trovare.
Forse anche per tale curiosità (magari saltavano fuori all’improvviso) aveva preso a bucarsi la pelle.
Anelli, chiodi. Poi era passato a marchiature con il fuoco e tatuaggi. Quello sul suo polso era una F e sotto scritto end. In cinese, naturalmente. Giusto per nasconderlo, dimenticarsene o semplicemente chiedersi se il tatuatore non avesse scritto altro. Se lo aveva fatto, sperava almeno fosse un insulto colorito e non qualcosa di comico.
Aveva i capelli ossigenati, corti e dritti, come avesse delle punte in testa. Li aveva tagliati in modo da somigliare, secondo lui, alla Statua della Libertà, ma quando gli avevano detto che ricordava Billy Idol era stato anche meglio.
Gli sarebbe proprio piaciuto essere capace di cantare e suonare. Invece cantava poco, con voce troppo acuta e non era capace di fare niente con la musica. Non ricordava neanche le parole delle canzoni.
Però ricordava come gli era piaciuto scoparsi quella ragazzina all’ospedale.
Stranezze della vita.
Aveva incontrato quel rottame umano, calvo, magrissimo, nel bagno al piano. Lui era al seguito dei parenti per andare a trovare uno sconosciuto zio che stava morendo e si era allontanato un po’ da quella stanza, in cui tutti si lagnavano.
La ragazzina aveva almeno sedici anni ed era capitata una cosa strana, quando si erano incrociati. Lo aveva guardato con la bava alla bocca. Proprio quella che lui aveva davanti a un pezzo di carne appetitosa, o quella dei neonati appena staccati dal capezzolo materno. Non c’era stato molto tempo: dieci minuti con la porta bloccata e poi lei a lavarsi del sangue tra le gambe e lui già preso dallo specchio per sistemarsi i capelli. Neanche sapeva perché l’aveva scopata. Non ne aveva voglia e sapeva di medicinale e di qualcosa di fondo che non gli piaceva.
Aveva la pelle brutta, tormentata. Ma nonostante tutto, aveva gradito la cosa.
Lei l’aveva guardato fisso dallo specchio.
«Che c’è?» le aveva chiesto.
«Sto morendo. Volevo provare com’è farlo»
Lui aveva riso ma appena, con la sigaretta spenta già messa in bocca.
«L’hai provato, ora puoi andare in pace» le aveva detto.
Nonostante tutto, lei gli aveva rivolto quello sguardo.
Dolce, scuro. Uno sguardo di riconoscenza e vergogna insieme. Senza rimpianto o amarezza.
Lo aveva dimenticato, gettato via chissà dove nella mente. Ma il buco in testa l’aveva ripreso come corrente dall’aria. Faceva sempre più freddo, ma tutto diventava sempre più limpido. Anche le scritte sul soffitto.
Tirare pugni gli piaceva, quindi aveva pensato di vedere se potesse farne qualcosa di meglio che lividi e rotture per strada. Aveva frequentato una palestra e tirato di boxe per un po’.
Ma era troppo bastardo per sottostare alle regole e ben presto gli allenatori avevano capito che gli piaceva solo fare del male. Era quindi stato allontanato senza neanche troppi rimorsi: come atleta non valeva niente.
E non valeva nulla neanche come studente: stentava a capire le cose perché sembrava che nulla gli interessasse. Non era riuscito a imparare a leggere bene e a scrivere si arrangiava giusto un poco.
Aveva presto cercato un diversivo alla noia per tutto. Qualche piccolo furto, ma niente di serio. Non era un tipo che passava inosservato e quindi, come ladro, non sarebbe durato tanto. Si diede pace perché anche quello era troppo impegnativo. Lui era fatto per altro.
Gli piaceva bere, ballare in discoteca fino all’alba e molto il sesso a caso. Gli piaceva mangiare male e fumare porcherie per dimenticare cosa aveva fatto poco prima.
Iniziò a drogarsi per curiosità e poi perché gli era stato detto che dipendere da qualcosa era una merda e allora decisamente faceva al caso suo.
Poco dopo iniziò anche a spacciare.
Soprattutto pasticche e anfetamine. Prima a quelli che aveva a tiro, visto che si muoveva molto e senza pensare a dove andare. Poi aveva capito che puntando un po’ più in alto, la sua vita avrebbe potuto prendere una piega più interessante. Bei vestiti, donne più belle. Decise allora di fare il salto di qualità, ma non ne era in grado. E questo non lo sapeva.
Non avrebbe mai pensato di trovare tanti clienti tra gli sportivi.
Belle case, scommesse, circoli esclusivi e ragazze stupende che mendicavano attenzione. Non importava quanto fossero noti: erano davvero moltissimi quelli che lo rintracciavano a tutte le ore del giorno e della notte per avere qualcosa da buttare giù. Niente siringhe; soprattutto pastiglie e tantissima polvere.
Quella sera, i due ragazzi che si stavano pestando sul ring erano gonfi di robaccia sintetica. Così gli avevano detto. E tutti quelli che aveva visto attorno avevano gli occhi più rossi e sporgenti dei suoi, ormai cronicamente senza sonno. Sembravano pesci morti, senza acqua da un pezzo.
In una pausa dell’incontro avrebbe smaltito ciò che si era portato in tasca. Continuava a diffidare della polvere bianca.
Non la usava, ma era quella che gli chiedevano tutti. Sembrava essere qualcosa di raffinato ed esclusivo, anche se proveniva dalle fogne.
L’ultima l’aveva presa da un tizio a prezzo di favore e parecchio tagliata. Neanche sapeva che voleva dire. Forse che faceva sanguinare di più il naso? Tagliava in quel senso?
Dal suo punto di vista sarebbe stato meglio usare una lama, se si voleva il sangue. Più bello, perfino.
Ma quella era gente altolocata e non si bruciava la pelle con i ferri per i cavalli come aveva fatto lui. Preferiva la neve.
E quella non era durata molto.
L’aveva rapidamente smaltita a caro prezzo e poi era sparito per qualche giorno nel suo buco personale. Un po’ di acido, un po’ di acqua e limone e una qualunque cosa nella quale infilarsi per qualche momento e stare comodo. Dormire. Dormire e basta.
Ma qualcosa era andato storto. Lo aveva capito solo dopo il colpo in testa.
Era lì, a quell’incontro, perché lo avevano chiamato. Le tasche piene di polvere e pastiglie come alcuni circolavano con gelati e bottiglie di birra o coca. Nella pausa, era stato reperibile al solito posto.
E lì, dal nulla e con furia, un colpo in testa da dietro. Aveva fatto quasi un giro completo attorno a se stesso e poi era crollato. Aveva sentito qualche parola sul fatto che qualcuno l’aveva pagata cara, per la sua neve, e ora sbavava in carrozzella.
Ma non era sicuro fosse vero, perché forse aveva immaginato la cosa. Non lo sapeva.
Fatto sta che si ritrovava con un enorme buco in testa e cadendo era finito contro la porta di un bagno e quindi praticamente addosso a un gabinetto. Chi l’aveva colpito si era poi chinato su di lui, preso quello che aveva in tasca e buttato tutto dentro il water, senza tirare l’acqua. Non aveva visto bene la sua faccia perché era stato come se fosse d’ombra. Stranamente, però, ora ci vedeva benissimo. E sentiva acutissimi gli odori di piscio e disinfettante attorno, ma non il sangue.
Con aria stupita lesse quelle parole scritte sul pannello di cartongesso che copriva il soffitto, proprio sopra la sua testa, sopra ogni cosa:
«Fuori, fiorirai fumo;
nel fuoco finirai, buca neve».
Le F erano ovunque, sembravano persino diverse dalle altre lettere, che scolorivano.
«Sono fottuto» pensò.
E avrebbe riso, potendo, perché aveva avuto ragione dall’inizio. Non aveva sbagliato a essere solo un maledetto figlio di puttana. Un maledetto f…
Fu. Tutto nero.