di Arianna Cislacchi
Copertina: Castelnovo – Andrea Herman
Sento i conati salire. No, ti prego. Non ora. Non vomitare proprio adesso.
Stringo nella mano destra il mestolo e agito a più non posso montando l’albume da una parte e i tuorli dall’altra, separati. L’odore di uova crude mi fa star male. Se quel coglione venisse a darmi una mano, forse. Forse andrebbe meglio. O forse no? Cosa ne può sapere lui. Lui non sa mai niente.
Ma io ce l’ho la soluzione a tutto. Una lieta notizia con contorno di dolce al cioccolato. Devo solo trovare la barretta, farla sciogliere a bagnomaria insieme al burro, unire tutto insieme, cuocere in forno a 180° per una mezz’ora. Sì. E dopo? Dopo gliela porto di là in salotto e gli mostro il test. Anzi no, glielo nascondo nella torta. Chissà che colpo appena legge le tacche. No, un momento. Che schifo. Non posso mettere quell’arnese nella torta.
Mi sale su un altro conato, sono costretta a mollare la frusta e a girarmi di spalle; porto le mani alla bocca e corro verso lo sportello della cucina dove teniamo i bidoni. Spalanco e ci vomito dentro; sale su una zaffata di umido e la situazione peggiora. Dio, quanto sono impedita. Come farò con un figlio? Mi muovo verso il bagno, sbatto le ginocchia a terra e mi affaccio nel gabinetto tenendo su i capelli.
Perché non c’è lui qui a tenermi la testa? Non è mai buono in niente. Non si accorge nemmeno che sto così da un mese.
“Tutto bene tesoro?”
Eccolo che grida, la porta socchiusa mi fa sentire il volume altissimo della televisione, ma incredibile, miracolo, lui ha sentito che correvo nella stanza vicina. Da quando mi chiama tesoro? Ma certo, è per fare bella figura davanti agli amici.
Non riesco a dire niente, risale un altro getto.
Dopo un quarto d’ora, torno in piedi, mi sciacquo la bocca ed esco esausta. Mi gira la testa, ma devo finire di cucinare.
Per tutto quel tempo, è rimasto seduto sulla poltrona a guardare la partita. No, non quella di calcio. Di tennis. Come fai ad amare il tennis? Lo odio. Lo odio come odio lui e tutta quella combriccola di ubriaconi schifosi che chiama “amici”.
Ma certo. Finché sono come lui, anche le bottiglie di birra possono essere sue amiche.
Sento una forte puzza di bruciato. Corro, mi sono dimenticata il forno acceso senza niente dentro; se ci metto la faccia davanti rischio di prender fuoco come la Torcia umana. Sbatto i piedi a terra insieme al grembiule, spengo tutto e nell’euforia mi cadono le ciotole con le uova. Uova, odore di uova ovunque. L’aria ne è pregna. Mi piego in due. Ci risiamo.
Sono pallida come un morto, mi accascio a terra e provo a respirare chiudendo gli occhi per un momento.
Com’è fresco il pavimento.
Un po’ di riposo con questo caldo asfissiante ci vuole. Accarezzo le piastrelle, sento improvvisamente la pace entrarmi dentro. Mi accuccio su un lato e porto le mani sotto la guancia.
“Si può sapere che diavolo stai facendo? Stai male?”
La sua voce fastidiosa sembra un eco lontano. Lo sento chiudere la porta. Non rispondo e sorrido, restando ferma dove sono. Lui insiste, poi si avvicina e prova a scuotermi piano prendendomi per le spalle.
“Ehi, ma che fai? Sei scema? Svegliati, apri gli occhi ho detto! Ci sono gli altri di là, non fare scherzi”.
Continuo a sorridere con le palpebre chiuse, godo della sua agitazione, comincia a scuotermi più forte.
“Sono incinta”.
Lui molla la presa, riesco a vedere in tempo la sua espressione; riapro lentamente gli occhi e mi ritrovo stesa dov’ero, questa volta supina, lo guardo di traverso.
Ha il volto paonazzo, stringe nella mano sinistra il collo di una Corona che lascia cadere a terra, frantumandosi in mille pezzi. Io continuo a sorridere, mi concentro per non ridere. Mi sale un attacco, sto per scoppiare. Non ridere, non ridere. Non ridere o te la spacca in faccia la bottiglia.
“Che cazzo stai dicendo? Non avevi detto che usavi la pillola?”
Non riesco a trattenermi. Scoppio a ridere. Rido come non avevo mai riso in vita mia; mi fa male lo stomaco. Mi fa male anche quando sento lo schiaffo in pieno volto. Mi fa male il braccio quando me lo stringe per tirarmi su con la forza. Ma non smetto di ridere. Rido e mi giro verso la telecamera infilata all’angolo, comprata di corsa in negozio e nascosta il più distante possibile per non fargliela notare. Rido.
“Cosa ridi puttana? Smettila ho detto. Mi hai rovinato, mi hai rovinato! Lo sai che ho moglie e figli!”
Continua a picchiarmi, vedo gli amici che entrano in cucina dopo aver sentito le urla, arrivano alle sue spalle. Lo fermano, lo tirano indietro, lo agguantano da sotto le ascelle e lo spingono nell’altra stanza mentre lui bestemmia e non smette di insultarmi. Perdo sangue dal labbro, sento gli occhi gonfi come due palloni.
Mi volto verso la telecamera, e mentre lui tenta ancora di rientrare in cucina per darmi il colpo finale, glielo do io, in un sibilo.
“Sorridi alla telecamera, stronzo.”