di Vargas
Copertina: Gli ubriachi son tutti giovani e belli – Antimonio
“C’è così poco da fare / in questo schifo di città / Un giorno dovremo farci i conti / Senza ubriacarci / Senza sognare di scappare / Tutti i santi giorni”
Voina – Il Jazz
– Non sono vietati gli spostamenti tra i comuni?
– Sì, ma non ci beccano, tranquillo…
Sghignazzò Giano al volante, mentre cercava a manate il pacchetto di sigarette nel portaoggetti. Ne estrasse una coi denti e la accese, nello sconforto generale. La Panda era piccola e dicembre gelava la campagna insulsa tutt’intorno.
– Posso almeno aprire il finestrino?
Implorò Maura sul sedile posteriore. Giano diede una veloce occhiata all’esterno, come controllasse il percorso:
– Per ora sì, ma dopo va chiuso.
– Quanto manca ancora?
– Una mezz’ora. Tre quarti. Non si sa mai con questo posto.
– Non puoi cercare su Maps come una persona normale? Sono già le nove.
– Maps. Come sei carina.
Nel nostro gruppo era Giano quello noto per i colpi di genio. Di solito idee talmente imbecilli da fare il giro e riconquistare un senso, ma quando vivi in un posto che non ha ancora deciso se vuole essere una città o un cimitero degli elefanti ti accontenti di quello che arriva. Personaggi come Giano erano indispensabili a questo tipo di tessuto urbano; certo, tendevano a colare negli ‘anta senza nulla in mano, se non una laurea di dubbia utilità e vagheggiamenti sull’aprire un pub, ma fino a quel momento rappresentavano l’unica alternativa al vegetare nel solito bar fino a dimenticarsi cosa si dovrebbe pagare o liquefarsi il cervello davanti l’ennesima piattaforma di streaming. Per dirne una, era in possesso di una Panda indistruttibile dall’inconfondibile bianco opaco seconda repubblica che pareva non necessitare benzina, vista la liberalità con cui veniva saturata un giorno sì e uno no di passeggeri verso le mete più disparate.
Poche ore prima, Giano aveva scritto sul gruppo degli amici di aver trovato un posto dove fare serata, nonostante i limiti agli spostamenti e al coprifuoco. Molti di noi avevano preferito rimanere a casa. Maura invece aveva accettato subito. Erano mesi che non vedeva il cielo, se non per una spesa fugace al vicino Eurospin. La prospettiva di bere in un orario familiare le dilatò il cuore di speranza. Le ci vollero altresì venti minuti per estrarmi dalla mia stanza, farmi la barba e rinvenire dall’armadio la vecchia divisa da sera. Ero scivolato con una tale naturalezza nella neghittosità imposta dai decreti ministeriali, che la necessità di andarmi a riprendere quello che era già un surrogato di vita prima del lockdown mi risultò quasi fastidioso.
Giano era passato alle otto, un kebab per sedile, che venne consumato nel buio sotto casa, l’automobile con le quattro frecce sulla strada deserta. Dall’alto, la silhouette immobile della dirimpettaia ci fissava dalla finestra. Le altre, disinteressate, filtravano il fioco lucore cangiante dei laptop.
– Senti, ma dove cazzo sta sto circolo?
– Lontano.
– Eh lo so, stiamo in auto da un’ora, lontano dove?
– Poi ti spiego.
Non era da Giano lesinare sui particolari. Da quando era giunto sotto casa, accogliendoci con bulbi spiritati da cocainomane, aveva accuratamente evitato di parlare della destinazione. Sapevamo che era un circolo ARCI, che si chiamava Douglas e che non chiudeva mai. Doveva essere l’ultimo rimasto in zona. Gli altri si erano convertiti in normalissimi bar dopo martellanti visite della Finanza o erano stati sfrattati dall’amministrazione per comprare i voti di chi aveva il vizio di dormire la notte. Con loro erano spariti concerti ed eventi, in favore di goffi tentativi da parte del comune di far apparire il paese come un posto per “gente di livello”. Il piano era riuscito solo a metà: tutto era chiuso, tranne per un bar dello sport e un paio di pub che tentavano disperatamente di riciclarsi in chiave chic, con timidi risultati. Vittima dell’opera di ingegneria sociale era stata gente come noi, senza troppe pretese se non quella di poter tirar fuori qualcosa di divertente dai nostri stipendi. Lavorare lavoravamo, ma non ci aspettavano promozioni o salti di qualità: avevamo tutti iniziato appena dopo le superiori per fuggire da casa e non avevamo pianificato niente di più. Non sembrava ci spettasse.
Alla radio, la voce pop di turno si incrinò per un attimo fino ad essere inghiottita dal disturbo statico. Giano ordinò di chiudere i finestrini. Fece partire un mix improbabile da una chiavetta USB. Maura la riconobbe come la vecchia playlist del locale dove ammazzavano le serate a vent’anni: hit remixate dagli anni ’60 agli ’80. Come allora, la voce della Carrà mi guidò fuori dal finestrino in un tentativo di fuga che si risolveva nello sguardo. Il paesaggio mi dava una strana sensazione di incompletezza. I campi arati che circondavano il paese per decine di chilometri erano stati sostituiti dalla mera descrizione di uno sfondo agricolo. Riuscivo a identificare la terra smossa, ma meno definita di quanto mi aspettassi. Il cielo aveva perso ogni profondità, come un cartellone delle scuole elementari su cui qualcuno avesse applicato stellette di carta argentata.
– Giano dove ci stai portando?
– Non hai visto niente. Qui è ancora normale.
Anche Maura cominciò a preoccuparsi dell’esterno.
– Che cazzo ci fa il cartonato di una pecora in mezzo a un campo? Lo hai visto anche tu?
– Ok, allora siamo vicini. Appena vedete il cartellone di uno spaventapasseri avvisatemi, che lo manco sempre.
La campagna dissodata era ormai ridotta a una massa di poligoni informi. I fari della Panda illuminarono fugacemente un filare di lettere piantate nel terreno che formavano la parola granturco.
– Che vuol dire il cartello… Giano, a destra.
Sospirò Maura.
Svoltammo su una strada disegnata appena a matita in un vuoto scuro. All’imbocco dello svincolo la parola palo intersecava perpendicolarmente spaventapasseri, in un comic sans francamente orripilante, ma molto leggibile. Non incrociavamo un altro veicolo da ore.
La strada svanì in un nulla adimensionale color antracite. La Panda sembrò fluttuare nel vuoto per una decina di minuti prima di parcheggiare di fronte a un caseggiato alto ad un piano, appiccicato sulla tabula rasa, soggetto a un proprio sistema di chiaroscuri. Su un piazzale appena intuibile grazie ad una decorazione di strisce bianche che conferivano un senso della profondità, erano parcheggiate una quindicina di altre automobili, in linea di massima usate o utilitarie non troppo costose. Appena fuori l’ingresso, sotto una tettoia, un tizio fissava assente i dintorni, mentre fumava una sigaretta. Il fumo volteggiava appena oltre la veranda, per poi decadere nel concetto del fumo, nella parola fumo e in pochi tratteggi di matita prima di essere uniformata al vuoto.
Maura mi strinse una spalla. Era cerea.
– Giano dove cazzo ci hai portato?
– Lontano. È proprio il nome del posto… letteralmente fuori dal mondo.
– Dimmi che ci hai drogato il kebab.
– No, ma forse dentro qualcuno la droga ce l’ha, il proprietario non è molto fiscale a riguardo.
Ci voltammo a fissarlo. Non sembrava minimamente turbato dal fatto che l’auto fluttuasse in uno sfondo piatto tra una Punto e una Multipla. La sua attenzione era concentrata sull’insegna al neon che scintillava Douglas, con un robottino dall’enorme testa tonda che cambiava il colore delle lettere all’intermittenza di un indice.
– Adesso uscite e camminate veloce fino alla veranda. Trattenete il respiro, mi raccomando. Di lì in poi è tutto tranquillo.
– Sei pazzo?
– Mo’ ve ne siete accorti?
Ci sorrise, poi si alzò la sciarpa sulla bocca come un rivoluzionario e sgusciò fuori, percorrendo lo “spazio” fino alla veranda in una mezza dozzina di falcate. Il fumatore lo salutò con una pacca sulla spalla. La stretta di Maura non mi aveva ancora abbandonato.
– Ci ha messo di nuovo i funghi magici nel kebab. Come quella volta dodici anni fa.
– Ti hanno mai dato un trip così i funghi?
La mano si allentò.
– Senti, abbiamo fatto due ore di automobile per arrivare, due e mezza se conti il tempo per convincermi. Ormai è andata. Tanto vale farsi una birra.
Osservai con imprevista intraprendenza. Non volevo essere lì, né da nessuna altra parte, ma già il fatto di essere presente, ovunque fossi, mi pareva un buon motivo per assecondare Giano. Una sorta di risposta pavloviana costruita in anni di serate controvoglia. Altrove era sempre meglio che a casa, a fare i conti con le proprie vite. Il vuoto era meglio che a casa e comunque anche lì di vuoto ce n’era a volontà.
– Siamo letteralmente nel nulla.
Mi rispose Maura.
Aveva ragione. Eppure.
Nel frattempo Giano era entrato. Mi fiondai all’esterno e riservai appena un’occhiata all’automobile, dove Maura tentava goffamente di uscire con un lembo della giacca sulla faccia.
All’interno, il Douglas era uno scatolone dalle pareti nere che si dipanava a L senza riscontro nella struttura esterna. Il braccio corto del locale ospitava un lungo bancone alle cui spalle faceva bella mostra un murales a tema Guida Galattica per Autostoppisti che occupava tutta la parete. Di fianco al bancone si accedeva ad una piccola sala concerti approssimativamente quadrata, in cui una band di sette persone si esibiva di fronte al pubblico convettivo di individui dondolanti, in scambio omeostatico col bar.
Maura irruppe come se si fosse lanciata attraverso la porta, atterrandomi ai piedi.
– Tutto ok?
– Perché sei così tranquillo?
Mi strinsi nelle spalle. Il fatto era che non ero arrivato al Douglas di mia volontà. Giano aveva proposto, Maura mi aveva scollato dal pigiama. Fosse stato per me sarei rimasto a finire Twin Peaks, che a ben pensarci doveva avermi forzato a vedere qualcun altro. Ero nato per reggere il gioco. La aiutai a rialzarsi e ci avvicinammo al bancone. Giano chiacchierava con un tizio che non avevamo mai visto, come se lo conoscesse da una vita.
– Chi c’era?
Chiese il barista.
Era un ometto dalle proporzioni bizzarre. Certo, tutto era al suo posto, ma più lo si fissava più si otteneva la sensazione che lo avessero montato male appena fuori dall’imballo. Il tizio che parlava con Giano ci indicò.
– Avete la tessera?
Scuotemmo la testa.
– Allora sono altri tre euro.
Rispose laconico, come se gli succedesse più spesso di quanto desiderasse. Ci fece compilare i moduli. La scheda in laminato plastico recitava ARCI, senza specificare l’anno. I nostri nomi erano già incisi sopra come da una dymo. Rabbrividimmo, ma non troppo.
– Mohito.
– Io…
Balbettò Maura:
– … io un angelo azzurro, credo.
– Non lo prendevi da…
– Quindici anni.
Concluse il barista, mescolando i cocktail. Lo fissammo attoniti.
– Nessuno beve questa roba dal duemila.
Chiarì. Mescolò le soluzioni direttamente nel bicchiere di plastica con un’attitudine ben lontana alle pose mixologiche a cui ci aveva abituato l’ultimo decennio di cocktail bar.
– Mohito Fidel e angelo azzurro con la ciliegia al maraschino per la signorina. Sono quattro l’uno.
Tornammo a irrigidirci. Le variazioni che ci erano state proposte erano esattamente quelle che bevevamo intorno ai diciott’anni.
– Come faceva a…
– Bevete e non rompete il cazzo!
Tagliò corto il barista, per poi sparire in una porticina posta sulla traiettoria della balena in caduta del murales.
– Io non mi sento un cazzo sicura, te lo ripeto.
– Sa anche di quello che prendevamo al Terminal.
Maura strattonò Giano fino a distrarlo dalla conversazione. Il tizio a fianco a lui la squadrò con interesse.
– Giano dove cazzo ci hai portato.
– In un bar. Vi avviso, prima delle quattro di notte da qui non mi muovo.
– Ma sei coglione? È normale questo posto secondo te?
– No.
Si intromise il tizio. Lunghi rasta, un cappotto di pelle, più o meno la nostra stessa età. Un pizzetto di peli ritorti gli allungava il volto in sembianze caprine.
– Finalmente vi ha portato. Cominciavamo a pensare che Giano si fosse inventato tutti i suoi amici. Zizzi.
– Che?
– Zizzi. Sono io.
Maura cercò conferma nei miei occhi per assicurarsi di aver capito, poi gli si avvicinò con fare cospiratorio.
– Senti, fuori non c’è niente. È tutto grigio. Il barista conosce i miei gusti di quindici anni fa. Giano ci ha messo i funghi nel kebab, vero? Si è messo d’accordo col barista. A me puoi dirlo.
– Giano, hai messo i funghi nel kebab della ragazza?
– Una volta, dieci anni fa.
Rise.
– Nah. Il Douglas è Lontano. Con la maiuscola. È un posto. Fuori dal mondo.
– Aprire più vicino alla città sarebbe stato un casino.
Aggiunse il barista, appena tornato dalla cucina.
Altre tre anime emersero dalla sala concerti per fare le proprie ordinazioni, tutte salutando Giano come un vecchio amico. La musica era familiare ed estranea allo stesso tempo, la variazione sul tema di una culla calda.
– Suonano gli Sbattamorph stasera. Gruppo locale.
– Locale di dove?
Chiesi.
Il Barista si strinse nelle spalle. Tutto risultava bizzarro, surreale eppure di casa. Avevamo vissuto le peggiori assurdità da ubriachi dopo la mezzanotte ed ancorarsi ad un criterio di realismo mi pareva assurdo, lì nel Douglas, dove ogni momento sembrava l’una e mezza di notte in una serata infinita dove gli avventori avevano appena iniziato ad andarsene.
Bevemmo ancora.
Al terzo cocktail Maura smise di preoccuparsi di ciò che le accadeva attorno, come in indeterminate notti dieci anni prima smetteva di preoccuparsi di chi ci vendeva il fumo. Dal Douglas non eravamo mai usciti, per notti e notti intere. Al quinto gin lemon, più due amari offerti a caso dagli avventori ero talmente a pezzi che mi misi a fare a gara a chi pisciava più lontano di fuori. I getti d’urina concettualizzavano a mezz’aria fino ad amalgamarsi col grigio. Il tizio che fumava quando eravamo arrivati era ancora lì, con la sigaretta in bocca, forse la stessa. Ci offrì del fumo, a patto che mi lavassi le mani.
Giano era nel suo elemento e noi appena fuori, a ballare sulle note degli Sbattamorph che non avevano mai smesso di suonare, benché nessuno di noi riuscisse a capire cosa dicessero nelle canzoni, o anche solo che genere fosse quello che si rovesciava dai subwoofer.
Eravamo in un mondo lontano, quello che ci eravamo lasciati alle spalle a vent’anni. Le promesse di divertimento e benessere. La semplicità. Ordinammo almeno altri sei drink di merda in tre, che non bevevamo almeno da un decennio. Maura si appartò con uno per tirare della coca e scopare. Al ritorno mi avrebbero offerto entrambi da bere.
In due giorni saremmo tornati a lavoro.
Sentivo che mi sarei dimenticato cosa avevo preso in pochi minuti e andai a pagare. Il barista recitò:
– Sedici mohito, otto angelo azzurro, tre gin lemon, quattro birre piccole, otto fernet e cola. Facciamo cinquanta euro che è tardi e non mi va di fare i conti.
– Ma perché, che ora è?
– Boh, ma è sempre tardi.
Pagai. Il mondo mi girava attorno cheto. Maura era ancora con la patta aperta a chiacchierare col tizio del bagno. Giano limonava assorto con Zizzi dietro il riparo di una colonna.
– Non si scopa stasera?
Chiese il barista con la confidenza di millenni.
– Un po’ tutte le sere, a dir la verità. Come fa ad esistere questo posto? Cioè, mi sono divertito, ma fuori c’è il vuoto. Stiamo facendo serata da ventotto ore, non ho nemmeno fame…
– Se vuoi facciamo i panini.
– No, grazie.
-Che ti devo dire, avevamo un locale poco fuori il centro storico, poi ci hanno fatto spostare una, due, tre volte. Alla fine mi sono rotto il cazzo e ho chiuso. È passato Zizzi una sera che mi ha detto che c’era sto posto e allora l’ho seguito perché da noi chiudeva tutto, tra la scusa della droga e altre stronzate. Tanto valeva farsi due ore d’auto per una serata decente. Tutto pur di non cedere ai rave.
– I rave? Ci sono rave da queste parti?
-Boh, c’erano. Comunque alla fine il proprietario mi ha proposto di gestire il Douglas perché lui non ce la faceva più ed eccomi qui. Viene gente di ogni tipo. È un lavoro interessante. C’è quella cosa che sta seduta in un angolo da un anno.
Puntò a un pallone verdognolo trapuntato di picchetti, appoggiato su uno degli sgabelli d’angolo del locale. Aveva di fronte un boccale di birra da cui a intervalli regolari svanivano un paio di dita di liquido.
– Pensavo fosse una decorazione.
– Ma che. Beve come un bastardo. Comunque io non mi farei troppe domande. C’è un ARCI alla fine dell’Universo. Almeno costa poco.
L’interesse di Maura per lo sconosciuto terminò. Si avvicinò a me appena in tempo perché arrivasse anche Giano, che si scambiò un gesto d’intesa col barista. Gli Sbattamorph suonavano una ballad triste.
Ci incamminammo di fuori, prendendoci un attimo per assaporare l’aria assolutamente neutra di quel paesaggio inerte. Un’auto dal design futuristico parcheggiò per lasciar uscire un grappolo di ventenni che parevano scappati da un romanzo di fantascienza. Il tizio sulla veranda fumava ancora, immoto.
– Al tre alla macchina, allora?
Giano non rispose. Fissava il pavimento di ciottoli. Maura si accese la sesta sigaretta della sua vita. Le altre cinque erano state consumate nel Douglas. Giano mi consegnò le chiavi della Panda, logore, col portachiavi in silicone di un teschio coperto di fiamme.
– Io resto qui.
Disse.
– Come, resti?
– Il proprietario mi ha detto che pensava di cedere il locale e un lavoro mi servirebbe. Cioè, tu e Maura ce l’avete. Io no.
– E noi come torniamo?
– Ti lascio Linda. Trattala bene.
Maura buttò nel grigio la cicca, che svanì prima di toccar terra, ovunque fosse. Mi batté su una spalla.
– Beh andiamo?
– Ma scusa, me lo fai tu sto discorso? Giano rimane qui! Siamo nel mezzo del nulla, ‘sto posto non esiste, gné gné gné e mo’ te ne vuoi andare?
– Sì vabbè, ma ero sobria. Lascialo stare dove vuole.
Giano, nel frattempo era già altrove, preso nella fitta contrattazione con la sentinella all’entrata per il prezzo di due canne. Il barista uscì lasciandogli il grembiule, poi attraversò il grigio per infilarsi in una Duna antidiluviana e prendere la via dell’orizzonte.
Aprii il portafogli per controllarne il contenuto. Una falena e buone intenzioni. Corremmo verso la Panda e ingranammo verso il ritorno senza imboccare una destinazione precisa nel nulla immoto che nella distanza acquisiva gradualmente la definizione di un paesaggio. Arrivammo a casa per le undici e mezza del giorno in cui eravamo partiti. La vecchia era ancora affacciata alla finestra. Trascorsi il resto della nottata a vomitare alcuni litri di alcolici, abbracciato a Maura di fronte al dio di porcellana bianca.
Il tempo passò. Le misure restrittive per la pandemia si volatilizzarono nel nulla eppure il paesaggio rimaneva irrimediabilmente desolato, come se la vita avesse fatto un passo indietro rispetto ai cortili notturni male illuminati che ci avevano cresciuti.
Nonostante altre odissee nella campagna profonda, non avremmo mai ritrovato il Douglas.