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Blumenblut
By Malgrado le Mosche Posted in Senza categoria on 29/01/2021 0 Comments 12 min read
Largo ai giovani Previous Il circolo Arci alla fine dell'universo Next

di Antonio Amodio
Copertina: Chiara Casetta

Quanto segue mi è stato sussurrato e scritto addosso da cinque donne gemelle, di notte, sulla riva di un lago che non esiste. Streghe, senza dubbio. Amanti della Luna.
Oltre a essere un prodigio, però, questa è anche la prima storia che non mi appartiene. Sento di essere io, piuttosto, ad appartenerle, perché tutto ciò che ho fatto, affinché lei non svanisse come spesso fanno i sogni, è stato scriverla. Scriverla così come mi è stata raccontata, senza pormi alcuna domanda.

Con fede.

“Non temete, Regina, da tempo il sangue ha permeato la terra in profondità. E nel punto in cui è stato versato, oggi vanno crescendo vitigni.”

– Mikhail Afanas’evič Bulgàkov –

C’era una volta un paio di fauci. Sì, fauci.
Erano state la bocca di mia nonna , anzi il suo sorriso – abbagliante come un’aurora di perle che albeggia sul ghiaccio – ma ora fatico a ricordare bene quando.
Forse dovrei fare uno sforzo, dite?
Io non mi sono mai fidata del Passato; è una notte troppo buia in cui perdersi. Le sterpaglie proliferano sopra ogni antico selciato, e la sola stella a guidarci nelle tenebre, la Nostalgia, vaga dissennata da un punto cardinale all’altro. Alla Nostalgia piace mentire. Tramuta i fasti della Memoria, anche i più sfarzosi, in mucchi di volgarissima pirite – l’oro degli stolti. La sua luce è veleno.
E altrettanto venefica, per me, si rivelava all’epoca la tenacia di alcuni spettri che dai recessi dell’Oltreveglia, di notte, venivano a rodermi i nervi come un branco di pulci.
Se cospirassero a un fine preciso, oltre ai salassi che già praticavano sui miei sonni esangui, non avrei saputo dire; ma ad occhi aperti – mentre senza respiro mi risvegliavo stringendo il lenzuolo, le tempie fradicie di lacrime, di sudore, e lo sterno gravato dal peso di mille macigni – in me, sempre più a fondo, attecchiva un’oscura verità: loro erano presenze meschine, tanto malvagie quanto la creatura che alle mie spalle, dopo i suoi luridi stravizi, amava spiluccarsi le unghione in cerca di frattaglie da leccar via.
La mia nonnina.

Pregavo non mi sentisse piangere.
Succedeva ogni volta che sognavo mamma e papà. Mi agitavo e lamentavo, gemevo. Non me ne rendevo conto, ma lei sì; di certe visioni, da desta, rimaneva poco se non brandelli e ossicini unticci – i medesimi racimoli che piovevano nel barile della nonna quando s’ingozzava di lepri a colazione – eppure diversi, piccoli particolari resistevano, perdurandomi dentro così a lungo che non potevo trascurarli.
Allora capitava mi distraessi, ed era davvero facile – lo confesso – smarrirsi negli amorevoli sguardi di mia madre; tornavo spesso ai suoi occhi, fioriture di silene notturna, o a quelle dita, minutissimi steli d’avorio fra i miei capelli, prima che poggiassi la nuca sul cuscino. E le sentivo, bruciavano, così come nella mia mente riecheggiava e ardeva il suo desiderio di creare un paradiso degno delle fiabe migliori, tripudio d’alberi e germogli. E poi c’erano le grosse mani di papà che, in vista della partenza, mi avevano insegnato tutto ciò di cui avrei avuto bisogno laggiù.
«Lavati al mattino e alla sera» aveva detto lui «rammenda i vestiti se si strappano, prepara le trappole come ti ho mostrato e cucina» e, in ultima istanza, s’era prodigato a dire «Obbedisci sempre alla nonna. Non dovrà mancarle niente, mentre siamo via.»
«Ormai sei grande» aveva aggiunto mamma, dandomi un bacio «perciò fa’ la brava.»
Avevo nove anni – e le stagioni si erano susseguite, e anche le faccende e le colture nell’orto, ma loro non erano mai tornati. E da lì era andato tutto di male in peggio.
Il bosco per primo.
Nel giro dell’autunno le fronde ferrigne degli alberi si erano spogliate, senza poi rinverdirsi alla comparsa delle rondini, e il mio mondo aveva preso a scolorire.
Soltanto i rami, nel frattempo, erano cresciuti come gramigne e le loro propaggini, allungatesi per miglia e miglia, avevano inghiottito bivi, trespoli e fazzoletti di cielo, ora intrecciandosi, ora arcuandosi, finché le tenebre non ebbero usurpato il sole.
Ad arginare il buio erano rimaste le lucciole e null’altro, così, da quel punto in avanti, per svegliarmi avevo imparato ad ascoltare i grotteschi borborigmi della nonna – la cui mole copriva ormai l’intera parete, avendo fuso a sé tanto il giaciglio che i quintali di feci sulfuree intorno; per me la mattina sorgeva quando i suoi rivi di bava m’inzuppavano lo scendiletto, o quando lei, affamata, si pestava il ventre a pugni.
Arrivati a quel segno – vi dirò – non m’era stato più necessario che sorgesse il sole o che il gallo cantasse, perché non si alzavano aurore e nemmeno chicchiricchì.
Luce erano sillabe morte, estintesi assieme ai galletti, ma l’ingordo appetito della mia nonnina aveva ancora tutta una selva da sterminare, prima che fioccasse il nuovo inverno.
Giorno dopo giorno trappola a trappola e acro ad acro, la sua cupidigia mi aveva obbligato a spopolare la foresta di ogni preda battendo fino all’ultimo antro e ruscello, mentre lei, con le marugole a infestarle il muso, s’imbolsiva.
Sotto la pressione di quell’abominevole cranio, dalle cui orecchie penzolavano grappoli di zecche larghe come giaietti, le capriate cigolavano sempre più spesso e una sera, dopo averle cucinato un cinghiale sano, mi ero accorta che per strigliarle quelle zanne avrei dovuto usare la spazzola del cavallo – un vecchio ronzino, crepato di fatica arando l’orto, che la nonna aveva preteso finisse nello stufato dell’indomani. A pezzetti.
Allora, vagando di fantasia giusto il po’ che bastava a non farmi redarguire, avevo lasciato sfilare lo sguardo sul suo corpo – le braccia due aceri e le mani villose che, solo a volerlo, avrebbero potuto sbriciolare tra i palmi un carro e farne segatura; e più mi attardavo con gli occhi, più nitida appariva l’ultima pagina della mia storia, ma di colpo, accortasi che mi ero distratta, la nonna mi aveva punito scatarrandomi addosso.
Il bolo di sangue e muco puzzava del posto in cui mai sarei voluta morire.
Dentro quei visceri.

«Cervo.»
La sua era stata una parola nella stessa maniera in cui un rutto poteva dirsi musica.
«Sono scomparsi tutti» le avevo confessato «Estinti. La foresta non dà più erba, ma quelli ancora vivi l’ho presi e cucinati» e il calderone ribolliva già «per te!»
«Cinghiale.»
«Anche loro, nonnina cara. Anche loro.» provavo a spiegarle, mentre mi scrutava e sudava «Assieme ai puledri selvaggi, le anatre, i conigli e i fagiani… » ma lei insisteva.
«Pesce.»
«Il lago è vuoto e i torrenti sono in secca. Non-»
«Paese!» aveva ruggito all’improvviso, sfondando il muro con un pugno e ricavandone una finestra da cui ululavano soltanto spifferi di gelido buio.
«A valle c’è una piaga, nonna. Ha infettato i pascoli e avvelenato le bestie. Montoni, agnelli, mucche, vitellini» così narrava la voce di popolo «Persino i maiali sono morti.»
«E che resta? Eh?»
Sulle prime non avevo ribattuto.
Mi ero solo guardata le mani, l’eco dei suoi brulichii a intossicarmi la mente, scoprendo piena di terrore che si erano fatte troppo grandi, troppo, perché ormai potessi fabbricarci tagliole o pastoie nuove; e dunque, di fronte a una tale sciagura, avevo anche dedotto che il giorno in cui sarei piombata nelle sue fauci sarebbe arrivato prestissimo.
Era la fine, quella?
Probabile.
La nonna sarebbe morta di fame senza le mie cure?
Certo, ma lei sragionava e le era impossibile spingersi oltre il puro appetito.
Io, invece, covavo da anni l’orrore di finire nel suo barile, perciò mi ero preparata a qualunque stento pur di sopravvivere – e preparata bene, di nascosto; no, mi dicevo spesso, io non avrei mai subito la magra sorte del ronzino, dei cinghiali o dei leprotti.
E allora «Che cosa resta?» aveva ringhiato la mia nonnina, quasi abbattendo la casa.
«Rapaci e predatori» avevo mugugnato «sparvieri, serpenti, volpi» ed esitavo, mentre mi ripulivo dall’ultima chiazza di moccio «Ma ieri ho visto delle linci, sai… E un lupo.»
«Davvero?» i suoi occhi – quelle cento paia di braci – si erano spalancati «E com’è?»
«Oh, nonna, se tu avessi visto… Se tu l’avessi guardata da vicino quanto me, nonnina cara… » stentavo a parlare, vittima d’un’oscura trepidazione «È una belva gigantesca, la più spaventosa su cui abbia posato lo sguardo» e così dicendo, mi facevo minuscola, tremante, quasi che la creatura fosse proprio là, davanti a me, a un salto dal divorarmi, ma «tutta nera… Dal muso alla coda. E ferocissima, nonna… Oh, se è feroce! L’ho vista mangiare un orso intero, sai?»
«Giuralo
«Te lo giuro» avevo ribadito, abbozzando un inchino «Su mamma e papà.»
«E dove vive?»
«Nell’abbazia. L’antica abbazia nel querceto.»
«Portami qua la bestia.» mi aveva grufolato.
E io, da brava nipotina, avevo obbedito.

Poco dopo il tramonto – col cappuccio che a malapena mi schermiva dalle sferzate del fortunale fuori – mi ero già lasciata due leghe di cammino alle spalle, e da lì, attraversando la brughiera, altrettante ne avevo percorse, finché la tenebra non ebbe tinto le nevi d’inchiostro.
Laggiù, dove infuriava la tempesta e le strigi urlavano folli tra le frasche e gli sterpeti, nulla valeva la misericordia del plenilunio alla mercé d’una tale oscurità; dalla gola del bosco intanto, tetri come sinfonie proibite, schioccavano madrigali di rami spezzati – ma ero andata oltre, a passi grevi, il buio a serrarmi le caviglie, fino a quando il mio sguardo non ebbe scorto i muraglioni diroccati del monastero.
Solo allora, certa d’essergli vicina, l’avevo chiamato a me.
«Pape, Conan» tanto gli bastava a riconoscermi «pape Conan aleppe
E tanto gli era sempre bastato, sin dal nostro primo incontro.
«Vieni, ho bisogno di te.»
Tempo addietro, mentre in lui scalpitava il cucciolo ma stentava il lupo, Conan si era ferito la zampa, colpa d’una mia tagliola, e il branco l’aveva abbandonato senz’alcuna esitazione; vedendolo quasi morire dissanguato mi ero arrischiata a salvarlo e trascorsa una settimana – come benedetti da un presagio – ci eravamo fortunosamente rivisti davanti alla carcassa di un daino.
Da quel pomeriggio non ci saremmo più separati.
Appartenevamo l’uno all’altra; ormai c’eravamo scelti.
Lui aveva deciso di portarmi ogni preda che gli capitasse fra le zanne, affinché non tornassi mai dalla nonna a mani vuote; ed io, per lunghi anni, l’avevo accudito e nutrito di nascosto, a mia volta racimolando tutti gli avanzi che riuscivo a rubare dagli stipetti.
E adesso – mentre lo guardavo svettare al di sopra di quell’algido querceto – sentivo il suo respiro infrangersi sull’empietà della notte, finalmente abbracciandomi col perduto afrore che la foresta ancora possedeva quando i miei genitori l’abitavano.
«Andiamo.» avevo detto, e subito m’aveva preso con sé.
Le sue iridi – due falò di topazi nell’aria gelida – rilucevano sulle fronde morte, e dalla cima della sua groppa il bosco non pareva che una steppa d’erbacce.
Stregata com’ero dalla cerea bellezza della luna e dai suoi carezzevoli lucori, non saprei dirvi a cos’avessi pensato sulla via del ritorno, se non che avevo sofferto d’uno sfiancante dolore al ventre – affilato e assieme terribile – di cui ignoravo la natura.
Le fitte mi prostravano, spezzavano, e in più occasioni ero stata sul punto di cadere dal dorso di Conan; ma quell’agonia, quell’atroce sofferenza, sarebbero impallidite davanti all’ira che il lupo, di lì a poco, avrebbe scatenato contro la casa… E chi la infestava.
E mentre mi aggrappavo stretta al nero vello di Conan, provando a sopportare i miei mali per non finirgli giù di groppa, mi riempivo le orecchie dei tremendi schianti delle sue zampe sui tufi e i legni che, fino a poco prima, avevano tenuto in piedi casa nostra.
Ogni pestone spaccava la terra e intanto – a schizzi, rivoli e fiotti – la mia nonnina a quella terra ci tornava; in quei colpi terribili, però, sembravano anche nascondersi lame e tuoni di sabbia che mi squartavano dentro. Ormai i crampi erano divenuti una vera tortura e così, al sopraggiungere del giorno, ero scivolata via dal mio lupo, rovinando sopra un mucchio di mattoni e ramoscelli.
Mi cedevano le forze, ma una volta in fondo alla china mi ero accorta che il dolore pareva diverso: in quegli attimi era come se lo stomaco mi colasse dal pube; quando poi avevo abbassato lo sguardo, lì sotto scorreva sangue – sangue d’un cremisi greve, caldissimo, e che puzzava di ferro e di squame vecchie – eppure non tremavo, figli miei, no… Perché appena due spanne più in là, proprio dove il rigagnolo mi sporcava i calcagni, stava già nascendo un filo d’erba. Sì, l’erba su cui sedete qui e ora. La vostra.
E sopra di me splendeva l’alba.
La prima dopo il grande buio.

Antonio Amodio Blumenblut Bulgakov Chiara Casetta letteratura Racconti


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