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L'onda
By Malgrado le Mosche Posted in Senza categoria on 18/02/2021 0 Comments 13 min read
Morte certa Previous Mio padre era nu mago! Next

di Simone Bachechi
Copertina: Bruciarsi gli occhi guardando il sole dietro un albero – Julio Armenante

Genova, 20 luglio 2001

– Ciao ragazzo? sei già su?
– Ohh a quest’ora, ma che ore sono?
– Le 09,00… fatto le ore piccole ieri? La Cri è a casa?
– Macché ore piccole, cioè un po’dai… ma è stato bello, siamo stati al corteo dei migranti, c’era un sacco di gente, poi abbiamo fatto un po’ festa io e la Cri, tutto qua.

Cercò di districarsi fra le lenzuola e Blatter che gli stava accovacciato sulle gambe. Cristina se ne doveva già essere andata a lavoro perché Greta non era nel lettino e questo significava che l’aveva già portata da sua madre per la giornata.

La luce del giorno filtrava debolmente dentro la stanza con la serranda semi abbassata e lui cercò di tirarsi su per non apparire a Miko dall’altra parte del telefono come se avesse un’arancia in gola. Aveva piovuto forte quella notte e il cielo appariva uno straccio bagnato disegnato confusamente con piccoli sprazzi di blu che lasciavano presagire una giornata calda e umida.
Greta aveva lasciato le paperelle in mezzo alla stanza, lui le osservò, rimuginando dentro di sé dei pensieri che non riuscì mai più ad afferrare e prima di chiedere a Miko cosa avesse intenzione di fare. Si tastò il braccio che aveva ciondolato giù dal letto tutta la notte e che evidentemente Blatter aveva scambiato per il suo lecca lecca personale. Tirandosi su cercò di scuoterlo come per scacciare di dosso degli insetti invisibili, dando un buffetto di rimprovero al pastore belga di Cristina.
– La Cri è già andata, io oggi festa, ho fatto tre consegne fino a l’altro ieri, lunedì se ne riparla se riaprono tutti quanti.
– Che facciamo? Andiamo al corteo?
– Aspetta un attimo che mi riprendo e te lo dico
– Come è stato ieri?
– Bello, siamo arrivati fino a piazzale Kennedy, sembrava un caravanserraglio, c’erano iracheni, i curdi con le bandiere di Ocalan, peruviani, francesi, tedeschi, argentini, tutto il mondo sembra che sia venuto a Genova. Non è successo niente ma c’era un gran casino, tutti che ballavano, cantavano, hanno detto che c’era anche Manu Chao ma io non l’ho visto. C’era gente vestita da dentifricio, lattine, scatole, bussolotti, merci di ogni tipo, perché quelle secondo quelli riuniti là in piazza De Ferrari potranno sempre circolare liberamente. C’è stata solo qualche sassaiola dai black bloc e qualche bottigliata vicino alla Questura, poi sono intervenuti alcuni avvocati del social forum e hanno consigliato di lasciar perdere. I poliziotti ci guardavano e basta, erano tutti vestiti strani, c’era un gruppo che si chiamava potere contadino, sembrava scherzassero, i neri invece sembravano incazzati, dovevi esserci Mi.
– Hanno detto che eravamo 50.000, 20.000 per la Questura, i soliti stronzi.
– Non lo so, lo sai, non leggo i giornali. Fra un’ora sei pronto? Ma te che hai fatto?
– Ieri non c’ero, casini, poi ti dico, la Vece mi ha piantato delle pezze, già dalla sera del concerto… allora andiamo?
– Usciamo e vediamo che tempo fa. Ti avevo visto un po’ scazzato la sera del concerto, non farti troppe storie dai Mi!
– Tranquillo, scazzato sì… e poi sembrava non gliene fregasse nulla, il mondo accade qui, nella nostra città e io dovrei occuparmi delle sue paranoie dure?

Genova era stata chiusa, sembrava un’occupazione permanente, da una parte i potenti, dall’altra l’esercito degli straccioni, cavalieri medievali venuti da lontane epoche a sanare dei torti subiti, cavalieri erranti intenti a ripulire certe armi appartenute ai loro bisavoli e che arrugginite e coperte di verderame da lunghi secoli erano dimenticate in un canto. Si armarono solo di gomma piuma, scudi di plexiglass, cellophane, rotoli di scotch e colore, scodelle e scolapasta, giubbotti salvagente, bottiglie di plastica, giacendo per la notte su pagliericci… li scapigliati, i corpi magri, occhi da gufo, braccia ferree e mani nervose, pronti a uscire ma dove non si sa, irridendo l’altrui disprezzo solo con lo spirito e mai con le loro armi, quella strana onda che infine uscì poco dopo il mezzodì per le strade di Genova e che era un’armata immensa vestita di stracci e zoccoli che non volle udire le loro sirene e il   giogo che li richiamava sotto le loro bandiere, nel loro ordine, poco prima di essere mitragliati, per poter dire ai loro nemici: “eccoci… ebbene ne faccio parte anch’io”.

– Hanno detto che stanno chiudendo le frontiere, a Ventimiglia dicono che abbiano hanno bloccato i francesi di Attac, sequestrato interi pulmini, hanno messo canali piombati alle loro catene.
– Mi, usciamo dopo, io mi rimetto sotto, resto sotto, vado sotto, ma se vogliamo andare al mare tiriamo alla larga, non so neanche se ci faranno passare. Ci sentiamo verso le undici e vediamo come va?
– Va bene, a dopo.

Nessuno è mai preparato a partire, nemmeno se abiti in una città di mare e vivi quell’ aria di provincia e di salsedine. L’aria secca che scolpisce le facce anziane dei pescatori come fa il vento negli aridi canyon, come palloni di cuoio, nemmeno se vivi in quei paesi dove chiami tutti per nome e te ne stai con le infradito, il costume e l’asciugamano sotto braccio un giorno che non vai al lavoro o che la tua morosa è fuori con la sua famiglia.
“Qui delle divertite passioni, per miracolo tace la guerra, qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza ed è l’odore dei limoni”.
Genova non è provincia, anzi in quei giorni era il centro del mondo, perché i suoi comandanti erano lì riuniti e i limoni, ma di plastica, erano stati messi appositamente nelle aiuole per un senso scenico di civico decoro.

– Mi, sono a Brignole, ti aspetto mangiamo qualcosa in giro e andiamo a vedere che succede? Qui ci sono dei blindati, sembra la guerra.
– Fra dieci minuti sono lì, arrivo con lo scooter, salti su e andiamo a Boccadasse?

Era passata da poco l’una e Miko tardava ad arrivare. Si era messo a guardare la televisione, c’erano delle edizioni speciali che parlavano della loro città che sembrava in stato d’assedio. Dicevano che c’era un corteo autorizzato che si stava muovendo dallo stadio Carlini lungo quello che era il tratto cittadino dell’Aurelia e che sarebbe dovuto arrivare fino al limite della zona rossa percorrendo via Tolemaide. L’Aurelia, che avrebbe dovuto collegare gli estremi poli dell’impero scavalcando confini, sarebbe da lì a poco stata solcata da un’onda umana colorata che di imperi e di frontiere non voleva saperne.
In piazza Verdi udì scoppi in lontananza e si spostò verso Corso Torino, da dove sembravano arrivare; osservava, cercava di capire, pensava o cercava di capire se fosse meglio ardere in un’unica fiamma piuttosto che spegnersi lentamente, pensava che dire un altro mondo è possibile non è solo una visione del mondo o uno slogan a buon mercato, ma una parte infinitesimale di uno sguardo limitato che è anti-profetico, non essenziale, al confine fra il giusto e lo sbagliato, il vero e il disonesto, l’amore scevro dai ricatti affettivi, un microcosmo familiare e sociale dove i bambini un giorno saranno di tutti, dove l’AIDS sarà sconfitto, dove dandosi spalla ci sarà il rifiuto del produrre e del collaborare, dove non si lavorerà e non si uccideranno animali, dove la letteratura si tramanderà per tradizione orale, un mondo nel quale ci si dedicherà all’arte, al canto, alla conversazione e alla mimica, girando a piedi a dorso di un asino, di comunità in comunità, dediti all’amicizia e all’amore, un mondo nel quale gli adulti non saranno dei feticci, ma l’espressione incarnata delle lotte e delle sconfitte, un sogno di amore come un  alito di vento, e i figli frecce che i genitori hanno scagliato nel vasto mondo. Eventi che sono le cose fatte, le cose dette, le omissioni, le prese decisioni, il tempo che non riesci a inscatolare, fatti a cui cerchi di dare un nome, in un azzardo chiamandolo destino, uno spazio infinitesimale che avresti pensato diverso, l’amara consapevolezza che un padre e una madre non dovrebbero sopravvivere ai loro figli e anche questo non lo riesci a mandar giù perché lo ha deciso qualcun altro.

Lo stadio cloaca quella mattina apparve imbiancato sotto la pioggia di un dio minore, un dio apprensivo che aveva lasciato che l’acqua defluisse nei rivoli e nei tombati di Genova, lasciando ai nostri ragazzi, qualcuno dall’altra parte nei giorni precedenti li aveva chiamati così, i nostri ragazzi manifestanti e i nostri fratelli poliziotti, lasciandoli andare, fluire anche loro lungo la via Aurelia, lungo Corso Europa, lungo Via Tolemaide, prima della zona proibita, prima del blocco. In quei giorni avevano parlato di allarmi bomba a Firenze, Milano, Napoli, Torino. A Genova due giorni prima, a piazza Cavour un falso allarme per una bomba in un tombino, il sangue infetto dalle sacche dei manifestanti sieropositivi, altri che avevano messo bombe, buste incendiarie, pentole scoppiettanti, pentole a pressione, li chiamavano gli anarchici insurrezionalisti.
Il corteo stava già scendendo lungo Corso Europa. Cartelli, tazebao, striscioni che dicevano che “l’unica lotta che si perde è quella che si abbandona” che “mai con le loro armi”, mani bianche, Che Guevara, mani alzate da molte ore.
All’appuntamento con il tempo arrivò che era già lo sbando. Camionette e blindati giravano a zig zag a filo d’acqua con l’onda che si alzava e si abbassava a Corso Torino dove si udivano come in fase di accerchiamento scoppi e passi marziali.
Si trovò nell’onda e fu come vedersi nello spazio di un diaframma offuscato dal buio e dal fumo nel tunnel della ferrovia di Corso Torino, un ragazzo con una canottiera bianca davanti a sé che stava parlottando con un suo amico. Stavano sparando lacrimogeni dissero fra di loro. L’agro dei fumi arrivava fin sui balconi, sulle serrande abbassate rimbalzando, e in quella nebbia vide Miko che lo chiamò da lontano con la mano dal suo scooter ancora in moto.
Nel sottopasso ci fu un tonfo sordo, sembrava qualcuno che avesse sparato qualcosa a altezza d’uomo. I contorni del buio artificiale ferroviario si confuse con il lattescente cielo di Genova e le sue nubi stanche che stagnavano e offuscavano tutta la dorsale fino alla Madonna della Guardia. Avrebbe fatto bello, limpide vampe nel cielo d’estate apparvero dalle scie in progressivo disfacimento come amebe nella penombra e nel fumo.
Fu come trovarsi con un’ultima operazione che era balletto, cerimonia e manovra militare sullo scooter con Miko, verso il mare, la spiaggia dove andava con Cristina, la sua regina di cuori, il suo sentiero nel mare a Boccadasse. Le nuvole sul mare presero il colore dall’orlo del cielo, l’acqua era un tenue luccichio azzurrognolo e non negò un leggero offuscamento interiore che era il piegare la luce ai propri fini attenuando la differenza fra quello che finisce e quello che comincia. I festeggiamenti erano per la sera. Forse non ci voleva andare da solo a quel mare, nonostante Miko fosse lì, forse voleva avere sua sorella accanto a sé. Ma era sveglio, tranquillo, rispettoso degli adulti, ma non per questo senza carattere e senza coraggio, anche in una spiaggia affollata con mamme e bambini, nonni e nipoti che non se la erano sentita di abbandonare del tutto la loro città. Era già pronto al lancio, mezzo sbiancato, rilasciato e morbido, intenerito. Da sotto lo guardavano incuriositi sul suo strapunto bambini magri, uomini dal pelo irsuto, ragazzi fuori asse, tutti collo, gambe e giunture bitorzolute, il petto incavato, vagamente uccellesco, come lui. Ed ecco dei vecchi che si muovono esitanti nell’acqua bassa su gambe come arbusti, sfiorano l’acqua con le mani, fuori da qualsiasi elemento. Lascia perdere l’asciugamano… Miko lo raccoglierà, non può fermarsi a prenderlo, perché fermarsi significa parlare e parlare significa pensare. È arrivato alla conclusione che la paura è provocata principalmente dal fatto di pensare. Tutti se ne stanno per conto suo e anche lui sembra avere l’aria annoiata, con le braccia conserte, come se avesse qualcosa che si era lasciato indietro, gelato sullo scoglio da un tardo vento secco e sottile che attraverso l’ombra fa freddo sulla pelle già bagnata. Sua madre sulla sedia a sdraio, suo padre sulla grossa pancia distesa, ambedue altrove. La donna a lui vicino lo osserva e lui pensa che non dovrebbe portare un costume così attillato, avrà l’età di sua madre.
Il tempo recuperava e tornava a assumere senso perché si metteva a disposizione di un desiderio e lui riflette se sia il caso di mettersi a pensare, anzi sarebbe doveroso. Ma non è né stupido, né vile, si regge forte, il suolo lo reclama, è una macchina che va solo avanti. Sembra sbagliato sottomettersi senza nemmeno pensare. In fondo, sul pizzo dove ricadrà sul suo peso per farsi espellere ci sono due zone di oscurità, due ombre piatte in piena luce, due vaghi ovali neri nel mare di Genova. Fuori da lì non passa il tempo e tutto questo è sbalorditivo. Potrebbe davvero restare lì per sempre, calore animale, niente schizzi, urla, radio, vento, da lassù più reale che mai, più immobile e tranquillo. Lo sapeva che da sotto non sarebbe mai sembrato così in alto lassù. Non si può uccidere il tempo col cuore e non c’è più tempo per pensare: Piazza Alimonda ore 17,27. Ora che c’è tempo non ha tempo, non ha la retromarcia, lo hanno preso in contropiede. Ci ha pensato bene? Sì e no il ragazzo. Durezza o morbidezza, silenzio o tempo? Quale è la grande bugia? Il freddo che è una forma di durezza? Una forma di cecità? Ma il problema non è l’altezza, non le due macchie nere. E allora quale è la bugia? La bugia è che è una cosa o l’altra. Da lassù la dolcezza fa impazzire. Annuirà, neri occhi di pelle in un cielo maculato di nuvole, prima del tuffo una luce perforata che si svuota dietro la pietra aguzza che è per sempre. Mette un piede nella pelle e scompare.

Carlo Giuliani G8 Genova 2001 Julio Armenante L'onda letteratura Piazza Alimonda Racconti Simone Bachechi


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