di Lorenzo De Rose
Copertina: Daria Pesce
La condensa delle pietanze calde sul velo di plastica che sigilla il piatto sembrava un parabrezza di un’auto su cui è appena piovuto: goccioline sporadiche e una nebbiolina soffusa. Comunque andava bene, perché Valerio – Valerio Beltrami, per i puristi dell’anagrafe – aveva così la sensazione, reale e non immaginaria, che la roba dentro quei piatti incellofanati a quel modo fosse davvero calda e non solo speriamo-sia-calda, rimanendo di merda una volta che addentato il cordonbleu si rendeva conto che era stato cacciato dal forno da quaranta minuti almeno. La qual cosa capitava spesso, ed ogni volta lui, preparato all’evenienza che il cibo fosse freddo, guardava di sottecchi il compagno di stanza di turno per osservare come reagiva alle temperature inadeguate della cena o del pranzo, e quello reagiva male, chiaro, malissimo, a volte, con stizza o rancore represso, altre volte ancora, meno di frequente con rassegnazione – quello era un range emotivo di reazione ai pasti della clinica che spettava ai veterani, i pochi che, come Valerio, potevano accarezzarsi il petto e trovarci le stellette e le medaglie al merito della particolare gerarchia che si istituisce in una struttura sanitaria quando prendi a frequentarla, per svariati motivi, più e più volte nella vita. Così infatti, a quest’ultimo modo, aveva reagito appena messo in bocca lo stufato di manzo. Due blocchetti marrò che sguazzavano in un’acquerella salmastra, dove l’olio – vergine senza extra, come fece notare a Valerio un agronomo esperto in olii con cui condivise la stanza cinque anni prima – formava piccole pozzanghere giallognole e dove il pane poteva illudersi di guadagnare sapore, pucciato dalle mani disilluse del degente che sceglieva di scarpettare lì dentro, consapevole, nel caso del Beltrami, del risultato, come di chi va a offrire il mojito alla regina del dancefloor il sabato sera, conscio che tornerà con due mojito in mano al bancone chiedendo di voltargli i soldi per almeno uno dei due. “Dovrebbe esserci un nobel per noi falliti intenzionali”, disse Valerio a Matteo Antonelli, diciannovenne suo compagno di stanza. “Come dici?”. “Dico che dovrebbe esserci un qualche riconoscimento, una sorta di festival, un galà con premiazione annessa, per noi che reiteriamo nel fallimento, i recidivi, insomma”, rispose al ragazzetto, annegando la testa del panino al burro nell’acquarognola della carne. “Lo vedi?”, indicò il pane inzuppato e lo mangiò. “Questo intendo. Sono quattro gli interventi che ho fatto in questo posto negli ultimi 12 anni. I periodi di ricovero sono variati sempre ma comunque ci ho consumato parecchi pasti, non abbastanza da persuadermi dell’inutilità e anzi della dannosità di questa scarpetta. Tu se a casa c’hai una veneziana fatta bene, con un bel manzo scelto e della cipolla cotta a dovere e aromi come Dio comanda, allora dici e mo’ chi me la caccia ‘sta scarpetta? E così pigli il pane e ce lo tuffi. Qua invece non c’è niente di tutto questo. So’ due pezzi di cadavere messi in una pentola a pressione con due spicchi di aglio e un milligrammo di sale, se ci è andata bene. Eppure, Matteo caro, mi trovi qui, difronte a te, che mi sto per infilare in bocca questo pane intinto nel sugo di questa carne. E non me ne volere se lo chiamo sugo, lo faccio per tirarmi su anch’io un po’, convincermi che in fondo non farà schifo come l’ultima volta. Capisci che intendo? Anche per te lo faccio, da una parte. Ché t’ho visto che ti sei lasciato il panino alla fine e hai lì bella parata l’acquetta della carne. Forse in effetti avrei dovuto parlarne dopo e farti finire in santa pace.” Matteo Antonelli lo fissò immobile, i tre cocci di carote infilzati in verticale dalla forchetta sollevata di una trentina di centimetri dal piatto, la mano destra a reggere il tovagliolo e la bocca semispalancata a fare da pista da scii di due occhi quasi vacui, specchi di un cervello normodotato che si era ritrovato a dover seguire il filo di un discorso che esisteva soltanto nella testa del tessitore e che il tachidol – paracetamolo e codeina, un trip di torpore meraviglioso, da solo riscattante tutto il soggiorno nella struttura – iniettato 12 ore prima contribuiva a rendere intricato come una foresta tropicale, dove ogni parola di Valerio Beltrami era una liana o una mangrovia o un qualsiasi altro fusto vegetale e lui non faceva in tempo a carpirla, appigliarcisi, che ne arrivava un’altra e doveva pensare a quell’altra per non rimanere troppo indietro. “Forse ti ho rincoglionito, Matte’, c’hai anche ragione. Ti chiedo scusa. Continua pure a mangiare. La mela te la sciacquo io, va’.” Prese la sua mela e quella dell’annaspante compagno di stanza e andò a lavarle in bagno. Ritornando con i due pomi igienizzati e puliti chiese ancora scusa a Matteo. Il povero malcapitato, che cercava ancora di raccapezzarsi nel monologo scagliatogli addosso e aveva interrotto l’insalata di carote provò ad accennargli una risposta, bofonchiata a mezza mascella e con la pesante cadenza dialettale che cercava di camuffare da quando dopo essersi presentato a Valerio e averci parlato dieci minuti, aveva capito di avere a che fare con un istruito, come li chiamava suo padre con un disprezzo neanche tanto velato, un disprezzo che però nascondeva ammirazione e timore, perché la maggior parte delle volte c’hanno i soldi, quelli, diceva il padre, e se ti ci immischi per il verso sbagliato sono guai, quindi è meglio se te li tieni buoni. “Secondo me pensi troppo… Hai appena fatto un intervento, stattene tranquillo, poi ci pensi a ‘ste cose.”, disse Antonelli, in un tentativo di emulazione delle sentenze pseudognomiche del padre, che ogni tanto se ne usciva con la sua saggezza metalmeccanica, con l’esperienza nelle cose umane che decenni di reparto motore di una grossa fabbrica di autovetture ti modellano addosso. “Troppi pensieri. Ti stanchi pure. Dovresti startene tranquillo, davvero.” Chiuse così il discorso risposta, tornando piuttosto soddisfatto alle carote e al resto della cena. Valerio annuì, d’altronde era la verità: la fistolectomia a cui si era sottoposto quella mattina avrebbe dovuto afferrargli la mente e premerla tutta sull’unico pensiero e preoccupazione dello stato di salute e del recupero delle forze, prenderla come un bambino prende l’Action Man e lo contorce a suo piacimento a seconda di ciò che voglia fargli fare. “Il punto è che non è facile, amico mio, non è facile. Ma mangia tranquillo, io provo a muovere ‘sti macigni di gambe un po’.” Alzandosi di lato, col braccio come unica leva motrice, Valerio assunse la posizione eretta sotto gli occhi di un sempre più incupito Matteo Antonelli, anch’esso appena operato nei bassifondi del suo corpo per una fistola sacro coccigea, che era stato trascinato di peso nelle paturnie di quel trentenne lunatico e biliare e che i continui vocativi caro mio e vecchio mio, usati da Beltrami in modo sistematico con qualsiasi individuo si trovi a passare più di un’ora con lui, fidelizzavano ancora di più alla causa, facendogli credere di rivestire un ruolo quasi essenziale nella risoluzione di quegli enigmi, che capiva essere sentimentali solo perché aveva visto Valerio sfogliare sul cellulare delle foto di una vacanza all’estero con una ragazza, la sua ragazza, a giudicare dall’intimità, ma di cui quello non aveva mai fatto cenno ancora, né aveva fatto o ricevuto telefonate da alcuna persona che potesse essere scambiata per una compagna. Genitori, sorelle, amici. Nessuna chiamata da parte di nessuna ragazza. Mentre Matteo, il disgraziato Matteo, compitava queste informazioni e ruminava carote, Valerio guadagnò mezzo claudicando l’uscita. Più che claudicare si trovava a trascinarsi come un ectoplasma, un figuro piuttosto bizzarro, goffo, che dall’esterno doveva risultare simpatico, se non fosse per quel grigiume di faccia che si portava appresso. Arrivò alla sala d’attesa, o di ristoro, forse meglio dire, perché nell’angolo destro, perpendicolari alla finestra, c’erano una macchinetta del caffè e una di merendine, snack e bibite. A riempire il resto dello spazio: un cristo ammonitore dipinto ma quasi del tutto slavato su una tavola di legno a dominare una parete, un ritratto della grandezza di un A4 di una signora in fogge rinascimentali, di ¾, anche questo a regnare su tutta una parete e poi, nell’angolo difronte le macchinette, una madonna, una madonna su una colonnina, con due cerini affianco e un salvadanaio di legno per le offerte. Si poggiò alla finestra e guardò il desktop di macchine e alberi che offriva. La luna era minuscola e le nuvole rade. Una vista tutto sommato povera. Meglio, si disse. Posso continuare a rimuginare. Voglio pensare ed elucubrare, lontano dai seccatori. Perché è un seccatore, questo Matteo Antonelli, pensò. Mi viene a dire che devo starmene tranquillo ché ho appena subito un intervento e devo pensare a rimettermi invece di asportarmi intere sezioni del cervello facendomi le pippe metafisiche. Al diavolo! Hai ragione ma al diavolo! Io ci voglio sguazzare nei miei pensieri, Matteo Antone’. Ci voglio potere annegare e poi riemergerci afferrandomi al salvagente della realtà solo dopo che viene a mancarmi completamente il respiro e l’apnea sta per trafiggermi. Maledizione. Quanto ha ragione, maledizione! Si girò, con grande lentezza e cautela, verso il distributore degli snack e lo picchiò, quasi con affetto, col palmo della mano, colpendolo di lato. Fece qualche passo e il secondo colpo lo tirò, quasi di spalle, contro il centro del distributore. Non fece in tempo a completare il colpo che ritirò disgustato la mano. Si girò e servendosi delle lucette interne della macchinetta si guardò la mano: i polpastrelli erano macchiati di un siero giallastro. Se lo portò alle mani per verificarne l’odore: era olezzoso, pareva un bagnoschiuma all’aloe vera. Probabile che qualcuno abbia spruzzato del sapone sul distributore e si sia dimenticato di lavare quel punto, ipotizzò. Alzando gli occhi verso l’area della superficie in plexiglass che aveva colpito e da cui aveva ricevuto quella materia inattesa Valerio Beltrami dovette rivedere alcune convinzioni sul soprannaturale, che da tempo aveva adottato e a cui non era disposto a rinunciare. Già solo nell’immediato dopo pranzo si era trovato a discutere col ragazzetto dell’esistenza del malocchio, della jella, del piccio, tutte coordinate irrazionali a cui lui si era opposto recisamente, trovando lo scetticismo del ragazzo, che invece le abbracciava tutte e le difendeva come esistenti, nonostante la ritrosia ad ammetterlo, sollevando a mo’ di scudo la premessa Lo so che non è vero ma. A zittire il Valerio Beltrami scientista delle 13.45 intervenne quello delle 19.34, con una midriasi dovuta più al terrore che all’assenza di luce. Dimentico della ferita diede uno strattone con le anche e le gambe per avvicinarsi alla macchinetta e buttò oltre la finestra un urlo di dolore, subito chiuso e abortito prima che potesse richiamare l’attenzione di un OSS o un infermiere. Che quel che vedeva fosse vero l’aveva realizzato subito, con la consistenza del liquido serioso sulla mano, un evento sensoriale quindi esistente quindi collocante lui lì, ora, in quel preciso momento, alle 19.34 di un giovedì di gennaio della quarta decade della sua vita, in una clinica privata della sua città di nascita, al terzo piano, nella sala di ristoro tra le due ali del piano in cui si trovavano le stanze dei degenti, la lavanderia e due camere-ambulatorio per valutare le condizioni dei ricoverati. Tese il collo in avanti e con le pupille enormi si portò a un dito dal plexiglass, con le pupille gigantesche che aveva, nere ed enormi come quelle di un gatto aggirantesi nei vicoli di notte, fissò il vulcanetto di carne e pus che era comparso all’altezza del Kit Kat. Una sorta di grande brufolo, violaceo alla sommità, che secerneva il pus che a questo punto capì essere lo stesso che aveva sulla mano sinistra. Ma Valerio Beltrami, ottuso dal tachidol e dall’amore, si accorse, o meglio: riconobbe, perché forse di un’agnizione più che di una scoperta si tratta, che quell’affare, vivo e pulsante sull’epidermide in plexiglass, era l’ascesso esterno della sua fistola sacro coccigea. “Ma cosa cazzo… non è possibile”, esclamò, esclamò a sé stesso, cercando di calarsi il più possibile nella realtà, di puntare i piedi e attaccarsi con tutta la forza di gravità che ci fosse al pavimento di granito della sala e allontanare, scacciare come una zanzara la piega onirica che stava prendendo tutta quella situazione. Accese la torcia del cellulare e la puntò sull’affare. Pochi dubbi. Era proprio il brufolazzo che per i due mesi precedenti lo aveva fatto penare, impedendogli una seduta comoda e condannando alla lavatrice cento mutande e mille pantaloni, fin quando non s’era convinto a farsi visitare e quindi operare. “Ma Santo Dio, ma caccia ‘sta luce!” SBENG, il telefono era caduto dalla mano di Valerio e aveva cozzato col granito. Non s’era dato premura di recuperarlo da terra. Le mani gli si patinarono di un formicolio come da carica elettrostatica, ma lo shock durò il tempo di guardare in basso verso il telefono cascato e poi rifissare gli occhi sul miniVesuvio di pus parlante. Le pupille gli si strinsero un po’, deglutì, quasi che scoprire che l’ascesso era dotato di parola l’avesse rincuorato, confermandogli al 100% della china onirica che aveva imboccato e del fatto che si sarebbe svegliato in mezzo alla notte con la schiena sudata e le lenzuola appiccicate sulla pelle da quel sogno così dozzinale. “Ti pareva che non parlavi. Che copione monco sarebbe stato? Fai apparire la fistola sul distributore di merendine e non gliela fai dire ‘na parola che sia una?”, disse Valerio, parlando in direzione della sesta fila di prodotti, dove compariva anche il KitKat, momentaneamente occultato da una parte del suo corpo rimossa il mattino di quel giorno. “Gua’ che sono reale, amico bello. Fessacchiotto tu che ti convinci del contrario, visto che hai constatato solo pochi secondi fa che quello schifo che vomito ogni poco ce l’hai sui polpastrelli e quindi non può essere tutto immaginato.” La fistola controbattè al suo ex proprietario, dal cui voltò sparì l’espressione di sfida e sarcasmo che gli si era avvoltolata addosso, come un fazzoletto. “Sì, è vero, ho constatato questo. Ma magari questo farmaco che m’hanno dato ha un’intensa e quasi fisica attività onirica tra gli effetti collaterali. Che ne sai? In ogni caso, non penso sia questo il punto. Se sei comparsa qui ora vuol dire che, reale o no, sei in una qualche piega della mia mente e c’è qualcosa che questo monolocale del mio cervello sta cercando di comunicarmi. Quindi tagliamo corto ‘sta sceneggiatura alla Charlie Kaufman sotto narcotici e andiamo al dunque. Devi dirmi qualcosa? Se sì, cosa?”. L’ascesso non aveva faccia, era un ascesso dopotutto. Quindi decifrarne le emozioni non si poteva. Né tanto meno si poteva leggerne lo stato d’animo tra le pause che separavano le frasi e intermezzavano la conversazione, dal momento che non ne utilizzava – ogni battuta era espulsa con una latenza di un nanosecondo in risposta a quella di Beltrami, il tono era brillante, di un’allegria quasi pecoreccia, tronfia, da quiz televisivo che si regge tutto sulle spalle e sull’affabilità domestica del conduttore. Se gli avesse dovuto assegnare un volto, Valerio Beltrami a quell’ascesso parlante avrebbe dato quello di un Rosario Fiorello o di un Paolo Bonolis, un’associazione che non lo aiutò a mantenere la giusta lucidità, assimilando ora il plexiglass sporco e opaco della macchinetta al plasma di un televisore, tutte le restanti merendine e bibite al pubblico in studio e gremendo le sedie intorno a lui, nella sala, di familiari e amici di famiglia che si erano radunati nel salone di casa dei suoi per vedere la performance di Valeriuccio, come lo vezzeggiavano papà Antonio e mamma Greta. “Allora, noi due facciamo un patto: tu mi dici le cose che devi dirmi, quello per cui ti sei materializzata su ‘sto distributore stasera e io ti prometto che ci penso e le medito con attenzione. D’accordo?” “Ma io non sono il tuo pedagogo, Valerio mio, non devo darti nessun insegnamento o farti pensare ad alcunché. Io sono soltanto l’ascesso della tua fistola sacro coccigea.” “E perché saresti comparsa solo ora nelle vesti di fistola parlante? Hai avuto due mesi a disposizione.” “Be’, per cominciare ero sul tuo gluteo destro, non la posizione più comoda per avviare un qualsiasi tentativo di dialogo. Poi non ne sentivo il bisogno, a dirti la verità, prima. Ora invece mi va di parlarti. Tutto qui.” L’ascesso scandiva le parole con una dizione impeccabile, di chi ha seguito un corso apposito, pagandolo anche una discreta somma. Valerio cercava di individuare le zone della sua mente da cui quella cosa potesse essere uscita, gli avvallamenti del suo encefalo da cui quel composto organico di pus e psicolabilità potesse essersi originato, come staccandosi da esso e assumendo una propria forma e una propria vita, autonomia e libertà. Un’anamnesi dei tempi recenti che poteva voler dire poche cose, pochissime, forse soltanto una. “Se sei qui per rinfacciarmi gli errori che ho fatto con Teresa, devo deluderti: li conosco a menadito e me li ripeto tra me e me ogni giorno appena sveglio. E dopo ogni pasto. E in ogni momento morto della giornata. Anche in quelli vivi. E prima di dormire, chiaro. Quindi se è per quello che sei qui, sei del tutto inutile.” “Allora, levati un po’ quest’aria da cowboy e quest’atteggiamento guerresco – ché oltretutto ti fa pure male che sei tutto in tensione e ti duole la ferita poi. Non sono venuto a rinfacciarti niente. So che sai. Forse anche troppo, sai. Dovresti sapere meno, per stare meglio. Prendere per buona una conoscenza appena superficiale dei tuoi problemi e iniziare a lavorarci subito, invece di approfondirli, rimestarli nel pentolone, affondarli tu stesso dentro il tuo corpo e la tua mente, come si fa per scherzo con gli amici in mare quando li si affonda sott’acqua premendogli sulla testa.” “Ok, quindi deduco che sei qua per farmi stare meglio con me stesso. Ma non avevi detto di non voler fare il pedagogo un attimo fa?!” “Difatti il pedagogo ammaestra ed educa, non c’entra niente col fare stare meglio. Quello al massimo lo fanno gli psicoterapeuti.” “Già, è vero”, Valerio chinò la testa a sinistra, in basso, verso la porzione di finestra che prevedeva le auto, con ogni probabilità quelle di infermieri e OSS. Aveva incassato il colpo della rettifica semantica, immaginando sul volto di papà Antonio e mamma Greta la delusione per la gaffe di quel figliolo che valeva qualcosa come più di 10.000 euro totali in rette universitarie; su quello di Bonolis/Fiorello lo scherno accennato ma non espresso; e un OOOOOH di stupore del pubblico, il brusio collettivo che precede e pregusta uno scontro o una lite. “Senti. Non ha alcun senso tutto questo. Lo sai anche tu che non ha senso. Devi eliminare le scorie nostalgiche che hai addosso. Basta con la galleria di vecchie foto. Va bene tenerle, ma devi guardarle una volta ogni tot tempo, non ogni maledetto giorno, come fosse un appuntamento fisso per farti salire la malinconia. Sembri un diabetico che si insulina prima dei pasti. Non farlo, prova a diluirlo nel tempo, ‘sto patimento, a segnarti sul calendario un giorno a settimana in cui martirizzarti, poi uno al mese, poi magari –”, il tono dell’ascesso diventò mellifluo con l’incalzare del sermone, prostrando Valerio Beltrami nell’atteggiamento del parrocchiano che accetta di farsi catechizzare dal sacerdote e stando così col capo semichino a farsi impartire la linea politica dei propri sentimenti, della propria emotività malaticcia, da quel mostriciattolo di carne, spogliandosi anche di quella residua tensione muscolare che l’aveva portato a rispondere a tono nelle battute iniziali, deciso a non farsi sopraffare da una tumescenza del suo corpo che fino a qualche ora prima stava affianco al peggiore degli sfinteri. Ora invece era prono, un educando mesto e bisognoso, un cosplay di Scarlett Johansson in Lost in translation, quel ritratto a mezzo busto di insoddisfazione e perenne trasognare l’approdo a più felici lidi. Non sapeva cosa rispondere. Voleva anzi che l’ascesso continuasse la catechesi. Si mise la mano nella tasca destra del pantalone di tuta acetata e carezzò con l’indice e il medio la fusoliera dell’Airbus A318 di Air France. “Vedi”, riprese l’ascesso, “anche questo portarti appresso quell’oggettino in una degenza di due giorni. Che senso ha? È solo un amuleto di tristezza, per permetterti di ripiombare a piacimento nelle turbe, col solo toccarlo. Non lo potevi lasciare a casa? Tanto là sarebbe stato, non l’avrebbe toccato nessuno. Una volta a casa l’avresti guardato appena una mezza volta e poi amen, lo sguardo ti ci sarebbe caduto chissà quando dopo. Ma se ce l’hai sempre in tasca come fai a non toccarlo e pensarci e sentirlo conficcato come una spina dentro la carne? Hai più a portata di mano quello che le chiavi della macchina.” “Sì, ma…”, Valerio non aveva un seguito per quelle due parole, terminò la frase sfilando dalla tasca il modellino e portandolo sotto la luce malarica della macchinetta: il modellino, comprato in un mercatino delle pulci di Rouen e ancora mai consegnato al padre di Teresa, che collezionava piccoli aerei in scala, si maculò di piccoli quadratini, disposti in fila indiana sui due lati del corpo centrale. Erano i finestrini. La scritta Air France blu con una pennellata rossa finale era integra, ben fissata. La plastica reggeva bene. Era un modellino di buona qualità, l’aveva trovato per caso e non vedeva l’ora di regalarlo al Signor Mengoli. Mentre sfregava il pollice sulla scritta della compagnia aerea transalpina, con l’aereino poggiato su indice e medio, si chiese come fosse possibile aver tanto pensiero per il Signor Eugenio Mengoli, padre di Teresa Mengoli, 57 anni, impiegato dell’agenzia delle entrate. Non che fosse una persona sgradevole, al contrario: un uomo gustosissimo, bonario, con cui aveva avviato un gioco che faceva sganasciare Teresa ogni volta. Le cene o i pranzi a casa Mengoli, il Signor Eugenio gli sottoponeva un vino e lui fingeva di capirne. Assaporandolo in modo apparentemente professionale e dandone giudizi mai secchi o amatoriali. Quell’uomo sincero e onesto gli credeva e si fidava dei suoi giudizi, incurante o forse ignaro di Teresa in un angolo che cercava di mascherare con la mano la risata incipiente. “Sì… ma io ci tengo. Mi piace averlo a portata di mano. E magari potrò darlo da un momento all’altro, se si presenta l’occasione. Non si sa mai.” Stava finendo di fornire all’ascesso questa risposta poco convinta poco tonica molto poco in salute che Matteo Antonelli si affacciò, trascinandosi anch’esso come un goffo ectoplasma, nella sala di ristoro. Vedendo che Valerio parlava colla faccia attaccata al distributore si fermò e rispalancò la bocca. Stavolta tutta, non metà come prima dopo aver incassato il destro del monologo non richiesto del compagno di stanza. “Vale’, ma cosa cazzo?!”. Valerio si girò verso Matteo e lo fissò per un paio di secondi. “Sto parlando con l’ascesso, Matte’”. “L’a- asces- so?”, balbettò il diciannovenne. “Vieni che ti faccio vedere.” L’ascesso allora sbruffò ed esclamò sostenuto: “Non sono un fenomeno da baraccone. Può venire pure, l’amico tuo, ma io e te dovremmo finire questo discorso.” “Sì che lo finiamo, però per il momento fammi avere un testimone almeno, così se c’è da evitare un TSO lo evitiamo.” Matteo avanzò a passi minuscoli verso l’angolo destro della sala, incerto e terrorizzato, nella stessa disposizione d’animo con cui gli attori degli horror preconfezionati americani scendono le scale buie dello scantinato dove troveranno la morte. Arrivando accanto a Valerio prese a guardarlo con gli occhi che fremevano per avere un sorso di razionalità e normalità. Pregava Valerio di dirgli che quella non era davvero la sua fistola. Arrivò a formulare a voce la richiesta. “Dimmi che non è davvero con la fistola che stai parlando, Valerio, per favore.” Non ebbe il tempo, Beltrami, di rispondergli che purtroppo era così che stavano le cose che il vulcanetto sparapus lo anticipò: “Non è con la fistola che sta parlando, infatti. Puoi stare tranquillo. Io sono soltanto l’ascesso esterno. Quella stava dentro. Quindi tecnicamente no, Valerio non sta parlando con la sua fistola.” Entrambi i neo-operati si girarono verso la tumescenza dotata di linguaggio e non seppero dissimulare l’inquietudine che inziava a serpeggiargli dentro le vene, come somministratagli dalle infermiere tramite il catetere venoso che avevano incollato all’incavo del gomito. Matteo Antonelli, in un’apnea dalla sua vita quotidiana che iniziava a tingergli le orecchie e il naso di rosso e contemporaneamente a impallidirgli il viso, tolse gli occhi dall’ascesso e fissò il modellino nelle mani di Valerio. Dopo di che si portò a poco a poco presso la finestra e alzò la persiana. Entrava un freddo gelido, ma fu una benedizione per tutti e due. L’ascesso ritesse la trama del discorso: “Allora, Matteo, piacere. Ti coinvolgo perché penso tu sia un ragazzo sveglio e assennato. Lo vedo, anzi. Non credi che il nostro Valerio qui si debba un attimo staccare dai feticci del passato e cercare di farsi un futuro, ma anche senza andare troppo lontano, va bene un presente, pure. Non dico di tagliare questo puzzolente cordone ombelicale con le cose vecchie che ha, ma se riesce a metabolizzarle, digerirle, magari defecarle – passatemi l’immagine scatologica, ma credo renda l’idea – allora potrà viverle con più serenità, rigirarsele tra le dita senza che lo pungano, anche riottenerle, chi lo sa?! Perché se si riprende un attimo da questa sbronza di ricordi e riflette in modo concreto su come costruirsene di nuovi, anche con la stessa persona, ne avrà solo da guadagnarne. Questo almeno secondo me, è ciò che stavo cercando di dirgli prima che ci raggiungessi tu. Quindi ora ne approfitto che ci sei per sapere come la vede un terzo, un esterno, diciamo.” Matteo si poggiò con tutte e due le mani al davanzale della finestra. Puntò gli occhi, ormai di una vacuità difficilmente dicibile, su Valerio e biascicò due tre suoni che non riuscirono a percorrere la distanza di due metri tra lui e il compagno di stanza. “Come?”, gli fece Valerio. Matteo inalò un quantitativo di ossigeno sufficiente a fargli emettere una frase di senso compiuto e chiese a Valerio perché avesse in mano quel modellino. Valerio gli rispose. “Quindi questa Teresa è la ragazza delle foto? Scusa, non volevo sbirciare, ma è capitato.” “Sì, sì, è lei.” “E quella vacanza ha un significato particolare? Cioè quelle foto lì.” “Be’ sì, è stato il nostro primo viaggio all’estero. Ma le guardo perché sono belle e mi manca. Tutto qui. Non c’è un granché da dire.” Matteo annuì e guardò l’ascesso. “Io penso tu abbia ragione”, gli fece, “Se non si libera di tutti ‘sti fantasmi finisce che lo diventa pure lui.” “OOOOOOH ECCO CHE SI RAGIONA!”, urlò il monticciolo di pus più Bonolis/Fiorello che mai. Valerio potè sentire l’applauso delle merendine-pubblico e potè visualizzare il moto basculante del capo in cenno di assenso del papà Antonio. “Lo sapevo che eri un ragazzo con la testa sulle spalle, Matteo carissimo. E vediamo se sta a sentire te, ora, questo cazzone. Perché fin quando sono solo io mi liquida col pretesto che sono solo un parto della sua mente e voglio solo farlo sentire ancora peggio, ma di te tutto può dire tranne che questo, visto che sei nato dalla vagina – sia lodata, a questo punto – della Signora… Signora?” “Carboni in Antonelli.” “Della Signora Carboni in Antonelli, per l’appunto. Molto bene.” Matteo era pallidissimo. Si poggiò per un secondo al braccio di Valerio e disse di voler tornare in stanza a riposare. “Sì, fai bene, tra poco arrivo pure io. Fai finta di non aver visto nulla, Matteo. È tutto una follia, ti chiedo scusa.” “Non ti preoccupare. Buonanotte.” “Buonanotte”. “Buonanotte!”, squillò l’ascesso. “B-buonanotte”, farfugliò in risposta Matteo, che prima di andarsene levò lo sguardo prima verso la madonnina all’angolo, col volto infuocato dai cerini ai lati, e poi al cristo col dito puntato appeso al centro della parete. Sui lineamenti del ragazzo si affacciò una supplica di aiuto per un istante. Due suppliche, a dire il vero. Una alla Vergine, l’altra al Cristo (se c’erano due numi perché andare al risparmio, d’altronde). Una volta uscito il compagno di stanza, Valerio si avvicinò alla finestra e, come l’altro pochi attimi prima, inalò tutta l’aria che potè e si poggiò al davanzale. Posò il modellino dell’aereo nella parte interna del davanzale e lo riprese dopo un minuto o due con l’altra mano, dimentico che si trattava di quella insozzata di pus. “Oh, merda…”, esclamò. In stanza aveva dei fazzoletti, doveva andare a pulirsi. “Ma lascialo com’è, mica uccide.”, lo redarguì l’ascesso. “Tutto sporco?” “Manco puzza.” “Come no?” “E annusa se non mi credi.” “Sì, ora che ci penso l’avevo annusata prima e sapeva di bagnoschiuma. Tipo aloe vera. Ma non è pus allora. “Certo che è pus! Cosa dovrebbe essere altrimenti?” “Non so. Il pus non dovrebbe avere un odore nauseabondo?” “Non ora che ti hanno reciso ed asportato la fistola da cui provengo. Devi immaginare che ora io abiti nel paradiso delle fistole, nel quartiere degli ascessi. Prima di entrare ci fanno scegliere un nuovo odore per la nostra secrezione. Io ho scelto l’aloe. Alcuni si tengono quello di prima, la puzza. Altri scelgono l’odore dei cibi preferiti del proprietario del corpo dove si trovavano, in un impeto di mancanza e nostalgia. Altri scelgono di non avere odori, ma se ne pentono dopo pochissimo tempo.” “Ok, ok, quindi hai scelto l’aloe. Sono contento. C’è altro che devi dirmi? Andrei a letto anche io, se non ti dispiace.” “Sì, ti propongo una sfida, un giochino, più che altro.” “Va’, dimmi.” “Allora. Tu lasci il modellino su questo davanzale. Se domattina prima di andartene lo trovi, lo prendi con te e fai come ti pare: te lo porti appresso come un asmatico l’inalatore. Se non dovessi trovarlo, cerchi di riavviarti, come fossi un PC, prescindendo da ciò che sei stato e da ciò che è stato. Nasci a vita nuova, per usare questa immagine inflazionatissima. Che dici? Ci stai?” Valerio Beltrami osservò le dita dei propri piedi, le unghie tagliate in modo regolare e simmetrico la sera prima dell’intervento. Osservò poi la tuta acetata, le tre fasce bianche Adidas ai lati delle gambe che salivano verso la vita come pilastri verticali di un ponte invisibile. Osservò quindi, alla fine, l’Airbus di Air France che reggeva in mano, la coda macchiata di pus all’aloe. Ectoplasmò fino alla finestra e posò l’affarino sul davanzale. Lo guardò come se volesse edificargli una cassaforte tutt’attorno. La costruzione durò una decina di secondi, poi terminò e prese a camminare verso la porta. “Notte”. “Notte, caro, notte. Dormi bene.”
Rientrando in camera, nel corridoio che si imboccava piegando a sinistra dalla sala ristoro, trovò Matteo, il disgraziato Matteo, sotto un poster con una raffigurazione particolare del corpo umano. Si avvicinò. Il ragazzo era molto assorto, pareva uno studente della Lezione di anatomia di Rembrandt. Non sapeva se intendesse studiare medicina. Ne avevano parlato la mattina ma non si ricordava. Probabile che gli avesse parlato di giurisprudenza o economia. Gli fu accanto. Vedendo che non riceveva alcuna attenzione da parte sua si mise anche lui a guardare il poster. Era una rappresentazione del sistema linfoide, con l’uomo, la sagoma previtruviana dell’uomo, colorato di bianco e una rete di fili verdi che gli correva tutto dentro il corpo come in una centralina elettrica. Le scritte erano – perché? – in tedesco. DAS LYMPHSYSTEM DES MENSCHEN, riportava il titolo. “Questo è il sistema linfoide?”, gli chiese Matteo. “Sì, credo di sì”. “Com’è complesso il nostro corpo”, disse in un sussurro il ragazzo e si diresse verso la stanza, lasciando lì Valerio Beltrami solo con tutta la straordinaria complessità del corpo umano.
La lettera di dimissioni dalla clinica infilata nel borsone, Valerio incominciò il processo, ormai notissimo, di autoespulsione dalle viscere di quell’edificio. Matteo Antonelli, gli aveva riferito l’infermiera, era andato via qualche minuto prima. Lui dormiva. Prima di arrivare all’ascensore, c’era da passare accanto alla porta della sala di ristoro, il davanzale della finestra in perfetta visibilità da quella angolazione, trovandosi difronte la porta. L’infermiera gli prese il borsone e si avviò verso l’ascensore. Arrivato alla porta, Valerio Beltrami, 30 anni, in ripresa da una fistolectomia, piegò il capo verso destra e si sedette con gli occhi su una poltrona di speranza, di speriamo-che-ci-sia-perfavore, ma un burlone gli scostò la sedia e lui cadde, perché il modellino era scomparso dalla finestra. Come poteva rimanerci, del resto? Certo che se lo sarebbero preso. Ingoiò un boccone di saliva poroso e duro. Nel percorso dell’ascensore al piano terra riflettè su come fare a riavviarsi come un PC, utilizzando l’orribile immagine dell’ascesso la sera prima. Non c’erano molti modi. Un nuovo inizio è per definizione sia nuovo sia un inizio, quindi una volta rimessosi dalla degenza doveva trovare il modo per rifarsi un ABC emotivo, anche caratteriale e intellettuale forse. Però Teresa mi amava così, nonostante i miei difetti macroscopici, pensò. Dovessi cambiare ora e ricontrarla che succederebbe? Se non mi riconosce? O forse mi riconosce, ricostituito e nuovo, e proprio per questo ci troviamo di nuovo uno davanti all’altro. Che cazzo ne so? Forse questo voleva dire quell’essere ieri. Che come vada vada un modo per uscire da questa spirale di passato e felicità in VHS devo trovarlo. Questo pensava Valerio Beltrami, mentre consegnando il borsone ad Antonio Beltrami, che lo aspettava tutto gioioso nel rivedere il figlio davanti l’uscio della clinica, vide a qualche metro di distanza Matteo, in piedi, il trolley in mano, accanto una donna sulla quarantina che brandiva la lettera di dimissioni e intorno una libellula svolazzante di pochi anni, il fratellino, con in mano un aereoplanino in scala che sollevava e poi faceva planare e virare e atterrare e decollare e muovere come un caccia bombardiere, con un set di movimenti decisamente inadeguato per quell’Airbus che era stato progettato solo per trasportare persone da un punto ad un altro nel globo. Matteo lo vide. “Ah, eccolo.” Si avvicinò col fratellino a Valerio. “Ricky, dai il giocattolo al ragazzo, forza. Ciao Valerio, scusa ma lo ha preso stamattina dalla sala con le macchinette, forse lo avevi scordato lì.” Il piccolo Riccardo smise il sorrisetto ludico di qualche secondo prima e tese il braccio verso Valerio. “Fai una cosa”, disse Valerio al bambino cercando di evitare di far la voce che si fa coi bambini, “tienilo tu per un po’, poi una volta che vi vengo a trovare a casa magari se non ci vuoi più giocare me lo riprendo.” Il piccolo Antonelli lo guardò, mezza gratitudine mezzo imbarazzo, e riprendendo le acrobazie col modellino tornò dalla madre, dicendole qualcosa e indicando Valerio. “Gentilissimo, Valerio. Allora appena ci rimettiamo vieni da me. Mio padre sarà contento di conoscerti. Mamma cucina una bellezza.”, Matteo Antonelli sembrava aver rimosso dal proprio vissuto quello che era successo 10 ore prima. Sembrava non aver mai parlato con un ascesso di una fistola attaccato al plexiglass di una macchinetta di snack. Valerio lo ringraziò e lo guardò andare via. Mentre suo padre gli chiese se potevano andare, seguì con lo sguardo la famiglia Antonelli che aveva raggiunto ormai la macchina. Prima di salire, vide la madre cacciar fuori dalla borsa un fazzolettino Tempo e pulire le mani del piccolo Riccardo, che le porse l’aereoplanino, così che la mamma potesse pulire anche quello, tutto sporco, nei pressi della coda, di una viscida ma profumata essenza giallastra.