di Maria Illenupi
Copertina: Concetto gatto comunista spaziale – Antimonio
Alle quattro del pomeriggio del quattro di agosto faceva così caldo che le palle incartate nei boxer si erano incollate all’inguine, il sudore aveva ritorto ciuffi di peli in filo spinato, e le gambe di alluminio della sedia affondavano nell’asfalto molle sotto il suo peso.
Quando Lino il barista gridò da dietro il bancone affinché entrasse nel bar a prendersi lo spritz con ghiaccio che aveva ordinato, Gian Luca detto Giansuca spostò la sedia di lato e notò che nel bitume era rimasta la forma nera di un buco di culo nero, con tanto di rughette perimetrali tipo prolasso, ma tutto sommato un buco carino, come quelli delle pornostar che sembrano respirare. Giansuca si mise a ridere da solo sotto lo sguardo curioso del fratello Michele, seduto al tavolino di fronte con una Coppa Oro fra le mani, che gli chiese per piacere di far ridere anche lui dato che con quel caldo non trovava nulla di divertente lì attorno.
«Un culo» Giansuca indicò in basso con la punta dell’indice, prima di alzarsi.
Michele si piegò di lato sulla sedia. Preferiva i movimenti oscillatori. Anche a casa faceva così: dondolava o scivolava sul divano davanti alla TV, fino a sdraiarsi con la testa appoggiata su una pila di tre cuscini.
«Tu sei malato» rise e col gomito fece leva sul bracciolo della sedia per rimettersi dritto. «Però è vero che sembra il buco di un culo, guarda là. Perché, insomma, non è proprio rotondo. È davvero a forma di buco di culo» si piegò di nuovo per una fuggevole occhiata di conferma. «Sei un maniaco, Gian. Lo sai, vero?»
Giansuca lo ignorò e con le mani giunte tagliò nel mezzo la tenda antimosche, poi ficcò dentro la testa sudata e solo dopo entrò tutto nel buio fresco e perlinato del bar in stile anni Settanta. Abbassò d’istinto la capoccia per avvicinarsi al bancone, perché lui era alto e il ventilatore giallognolo al centro della stanza, che di solito faticava a tenere la prima velocità, adesso girava da far paura con scricchiolii e gemiti.
Lino il barista non si voltò e continuò a tenere gli occhi fissi al televisore appeso sopra il frigo con lo stemma reale dell’Algida; si limitò a borbottare che lo spritz era là: Prenditelo. Con la punta del mignolo staccò da dentro la narice destra qualcosa che rotolò a terra.
«Aperol, o Campari?» domandò Giansuca asciugandosi la fronte col dorso della mano.
«Come ti piace?» Lino si pulì il mignolo sulla tasca posteriore dei jeans.
«Con l’Aperol».
«Infatti, c’è proprio l’Aperol».
«Mi dai una cannuccia?»
«Pure la cannuccia» voleva farla suonare come una domanda, ma venne fuori un miagolio. Allungò il braccio all’indietro e ne prese una dalla mensola di acciaio opaco. «Tiè, ciuccia».
«Grazie. Te lo pago dopo».
«Dopo è morto».
«Insieme al gelato di Michele».
«Con chi ce l’ha tuo fratello, che rideva come uno scemo?» col telecomando lucido di olio indicò i tavolini fuori.
«C’è un culo sul marciapiede».
«Seee. Quello là, quello è un culo» e, sempre senza guardarlo, diresse il telecomando a Shakira in TV che si agitava sulle note di This Time for Africa.
«Cioè, no un culo vero. Un buco».
«Che buco?» e solo a quel punto lo fissò dritto in faccia.
«La sedia ha fatto un cazzo di buco sul marciapiede».
Lino il barista lasciò il telecomando e si pulì di nuovo le mani, stavolta sul grembiule sporco; martellò qualche passo sulla pedana di legno per raggiungerlo, dritto come un attore sul palcoscenico. Quando si cavava via da dietro il bancone perdeva dieci centimetri buoni in altezza.
Quando furono alla luce del sole, Lino si schermò gli occhi e pensò: Madonna mia. Si fermò in piedi tra Giansuca e Michele, ancora seduto al tavolino, e formarono un triangolo di cui lui era il vertice.
«Guarda anche tu» lo invitò Michele dondolando di nuovo sulla sedia, senza staccare il sedere e col braccio steso e la mano aperta a offrire la vista dell’asfalto sciolto. Avevano tutti e tre lo sguardo basso quando furono interrotti dallo scooter spetazzante che dopo un giro di rondò si accostò al marciapiede.
«Ciao ragazzi» salutò Vincenzo. Senza casco, in canottiera, con i calzoncini della divisa di calcio sbiaditi e in vita un marsupio logoro. Spense lo Scarabeo blu, ma non scese, tenendosi in equilibrio con l’infradito contro il bordo di porfido sbrilluccicante. «Che guardate?»
Vincenzo era uno dei tanti cugini da parte di padre di Giansuca e Michele, anche se per una questione d’età si sentiva legato di più al secondo.
«Guarda, Vinz. Guarda qua» lo chiamò Michele, leccando il gelato dalla palettina di plastica.
Vincenzo allungò il collo, ma capì che doveva smontare dallo scooter per riuscire a vedere qualcosa. Mise il cavalletto, scese saltellando e inciampò nella gamba di Michele stesa di lato al tavolino.
«Cazzo. A momenti m’ammazzo».
Tutti risero sguaiati.
Poi il marsupio vibrò sul ritmo dell’inno della Lazio. Vincenzo aprì la cerniera e rispose al telefono.
«Buongiorno, Trasporti Fottitrans».
Lino non riuscì a trattenere una pernacchia scherzosa carica di saliva.
Vincenzo era famoso per il modo tutto suo di rispondere al telefono. Ogni volta ne inventava una, e siccome lo faceva anche con i numeri sconosciuti non erano mancate le figuracce. Una volta aveva risposto «Buongiorno, Macelleria Carne Dura, chi parla?» alla mamma della sua fidanzata; un’altra «Buongiorno, Pasticceria Cannolone alla Crema, chi parla?» al suo capo.
«Ciao, Robi. No, sono al bar con Minky e Giansuca. Hanno trovato» e si bloccò un attimo per interrogarli con lo sguardo.
Giansuca: «Un buco di culo nel marciapiede».
Michele: «L’ha trovato Gian».
«Lascia stare. Qualcosa hanno trovato. Vuoi venire a vederla?» rimase in silenzio ancora qualche secondo; annuì sul cellulare incastrato fra il collo e la spalla mentre si accendeva una MS Slim da gran signora. Poi strisciò un paio di volte l’indice sullo schermo piatto prima di rimetterlo nel marsupio. «Era Robi. Ci raggiunge fra poco. Vediamo questo culo».
«Buco» lo corresse Lino il barista.
Per fortuna la strada era deserta e il bar si trovava in una strada secondaria in direzione del mare, perché Vincenzo passò la sigaretta a Lino il barista, slacciò il marsupio e «Tieni un po’» lo porse a Giansuca che se lo mise a tracolla, mentre lui si abbassava pantaloncini e slip fino alle caviglie. Michele si trovò con gli occhi all’altezza delle sue chiappe crema e cioccolato come due Ringo per l’abbronzatura. Scoppiò a ridere di nuovo quando lo vide menarselo fino a diventare duro, e poi spostare la sedia e sdraiarsi a terra sul buco. Giansuca diede una gomitata a Lino il barista che diede un tiro alla sigaretta. Tutti e tre riuscirono a vedere il pene corto e tozzo di Vincenzo unirsi all’asfalto.
«Cazzo» urlò subito Vincenzo scattando all’in piedi e saltellando qua e là coi piedi legati dall’elastico degli slip. «Ahi, ahi, ahi» iniziò a piangere sul serio, con le mani in mezzo alle cosce.
Mentre gli altri ancora ridevano, dal buco si alzò una nuvoletta di fumo misto a un pulviscolo grigio e marrone, una specie di soffio-scoreggia. Dopo di che il buco iniziò ad allargarsi, il soffio si tramutò in una inalazione profonda della terra così forte da spostare il tavolino e le sedie verso il proprio centro. Quando Vincenzo tolse le mani dal pisello, un fiotto di sangue rosso-sangue spruzzò dappertutto. I ragazzi videro che il pisello di Vincenzo non era più al suo posto, perché il pisello di Vincenzo era la salamella mozzicata apparsa per terra dal nulla, di fianco al buco senza osso nell’asfalto, ma non fecero in tempo a dire nulla perché il buco si allargò ancora, e succhiò più forte: Michele con tutta la sedia, Lino con il grembiule e la sigaretta in bocca, Giansuca con lo spritz col ghiaccio sciolto dentro, e Vincenzo col viso rigato di lacrime – sparirono tutti nel nulla bitumoso. Poco dopo quel quattro di agosto, Robi arrivò e trovò solo un buco stretto e nero incavato nel marciapiede, circondato da macchie bordò di sangue secco davanti al bar aperto e abbandonato con la TV accesa. Si mise a ridere da solo e «Un culo» sussurrò, e si piegò sulla ginocchia per sfiorarlo con la punta dell’indice.