di Valeria Micale
Copertina: Ritratto #7 – Chiara Casetta
Parte #1
L’ufficio di Semel era una stanza senza finestre nell’ala vecchia dell’edificio. Per cambiare l’aria, Semel doveva lasciare la porta aperta sul corridoio dal quale, in inverno, entravano folate gelide; per avere luce sufficiente, era costretto a tenere accesa la lampada al neon anche durante il giorno e spesso arrivava a fine giornata col mal di testa. Quasi ogni sera, prima di tornare a casa, scioglieva una bustina di analgesico in mezzo bicchiere d’acqua, la ingoiava in tre sorsi e andava via. La porta la lasciava aperta per il ricambio d’aria, ma inutilmente, giacché il mattino dopo quelli delle pulizie la chiudevano e lui trovava il pavimento ancora umido e la stanza satura dell’odore acre di disinfettante. Nel tempo del tragitto in metropolitana, l’analgesico faceva il suo effetto. Semel si acciambellava nel caldo del vagone, abbandonandosi ai sobbalzi e alle improvvise frenate che lo sbatacchiavano di qua e di là come un sacco. Se chi gli stava accanto protestava, faceva finta di dormire. Era, questa, l’unica occasione in cui si concedeva il lusso di non chiedere scusa.
Quella sera, alla seconda fermata una ragazza salì e andò a sedersi nel posto di fronte al suo. Semel fu attratto dal suo berretto a forma di cane, con due pompon al posto delle orecchie; ogni volta che la ragazza muoveva la testa, sembrava che la bocca del cane si aprisse per articolare delle parole. Semel si mise in ascolto. Le parole del cane gli arrivavano dritte e chiare nonostante lo sferragliare dei vagoni e il risucchio delle gallerie. «Te l’ha mai detto nessuno che sarebbe ora di cambiare cappotto?». Semel si guardò le maniche, rigirò le braccia e notò il tessuto liso in corrispondenza dei gomiti. «E poi quel cappello. Ma guardati, sembri mio nonno». Semel si portò la mano alla testa. «Comunque non sono qui per darti lezioni di stile», continuò il cane, «volevo solo avvertirti che se continui a ingurgitare antidolorifici prima o poi ti verrà un’emorragia e ci rimani secco». In quel momento la ragazza si sfilò il berretto e il cane le si afflosciò in grembo; con un gesto deciso lo ficcò nella borsa e si alzò per guadagnare l’uscita. Nel momento in cui gli passò accanto, Semel avrebbe potuto giurare di aver sentito una voce provenire dalla borsa, che gli sussurrava: «Senza musica la vita sarebbe un errore». Seguì la ragazza con lo sguardo, fin quando si confuse nella folla che gremiva la banchina.
Arrivato sotto casa, alzò lo sguardo alle finestre illuminate. Tre piani sopra, sua moglie e suo figlio stavano probabilmente litigando. Da quando era entrato nell’adolescenza, Juri aveva incominciato a restituire sotto forma di odio tutto l’amore che gli era stato dato. Con eloquio tagliente, rinfacciava ai genitori le mancanze e gli errori di cui erano colpevoli, li derideva come condannati di cui procrastinare l’esecuzione solo per renderla più crudele. Semel non ebbe voglia di salire e fece un giro di palazzo. I lampioni diffondevano coni di luce lattiginosa che illuminavano il marciapiede. Ripensò alla ragazza della metropolitana e al suo cappello. Cane. Cappotto. Musica. Non avrebbe saputo dire perché, ma quelle parole gli davano conforto. Le ripeté mentalmente come una giaculatoria e infilò la chiave nel portone.
«Non voglio fare mica la fine di due sfigati come voi». La voce rabbiosa del figlio lo accolse appena varcata la soglia di casa.
«Si è chiuso nella sua stanza» gli annunciò sua moglie. Semel non capì se fosse un’accusa o un’ammissione di colpa.
«Lasciagli la cena in caldo» le disse.
A tavola, lei gli raccontò del litigio ma lui perse il filo del discorso; fissava la sua bocca aprirsi e chiudersi come un grosso mollusco e gli sembrava non emettesse alcun suono. Quando afferrò il piatto e lo scagliò sul pavimento, il rumore gli esplose nelle orecchie; sobbalzò sulla sedia e la forchetta che aveva in mano gli cadde per terra. Mentre la moglie abbandonava la stanza, Semel uscì in balcone a prendere la scopa. Raccolse i cocci, li avvolse in fogli di giornale e li buttò nella spazzatura. Infilò in frigorifero gli avanzi della cena e andò a lavarsi i denti.
Si svegliò con la sensazione che qualcuno gli sussurrasse all’orecchio. Cane. Cappotto. Musica. Le tre parole gli risuonavano nella testa, si rincorrevano infilandosi tra le sinapsi, sbucavano nella coclea, saltellavano sul timpano. Si grattò l’orecchio. Aveva quarantacinque minuti di tempo per lavarsi, vestirsi, farsi la barba e raggiungere la fermata della metro: il treno passava alle sette e ventitré. Prima di entrare in ufficio si fermò al bar per prendere un caffellatte e un cornetto. Gli piaceva l’atmosfera, l’affaccendarsi dei baristi dietro il bancone, le chiacchiere degli impiegati e degli studenti, le battute, le risate, il tintinnio delle tazze che si mischiava alle suonerie dei cellulari.
Verso mezzogiorno il Ragioniere Capo si affacciò alla sua porta. «Semel, salga al quinto piano. È desiderato dal Presidente». «Io?» chiese Semel, sollevando lo sguardo dalla pratica a cui stava lavorando, ma il Ragioniere Capo era già sparito. Entrò in uno stato di agitazione. Doveva essere certamente per un motivo molto grave se il Presidente voleva parlare con lui. Ripercorse mentalmente le pratiche a cui aveva lavorato nelle ultime settimane e non trovò nulla che potesse giustificare la convocazione. Pensò a un taglio del personale, a un possibile licenziamento, ma in quel caso – si disse – sarebbe stato il capo dell’Ufficio Risorse Umane a comunicarglielo. Lasciò la pratica sulla scrivania e uscì dalla stanza. L’ufficio del Presidente si trovava al quinto piano dell’ala nuova; dovette percorrere un labirinto di corridoi e salire due piani per raggiungerlo. Man mano che procedeva, il paesaggio si trasformava sotto i suoi occhi: il tetro corridoio ingombro di fotocopiatrici in disuso e scaffalature sbilenche sotto il peso di vecchi faldoni lasciava il posto, superati tre gradini e una porta a vetri, a un ambiente luminoso dove le porte recavano targhette con i nomi degli impiegati; sbirciando all’interno delle stanze, Semel intravide arredi di legno chiaro e piantine grasse sui davanzali. Il sottile brusio che si percepiva gli diede la sensazione di una rilassata efficienza. Incrociò due colleghi – un uomo e una donna – che avanzavano lungo il corridoio reggendo in mano grandi bicchieri di carta da cui si sprigionava odore di caffè. Entrò in ascensore e premette il pulsante del quinto piano. Le porte si schiusero su un atrio di marmo, disseminato di colonne che reggevano busti di grandi scienziati; un enorme lampadario di bronzo pendeva al centro della sala, dalla quale si diramavano tre ampi corridoi. Seguendo le indicazioni, Semel imboccò il primo a destra. Una spessa passatoia rossa lo percorreva per tutta la lunghezza; alte porte di legno scuro, dalle quali non trapelava alcun rumore, si susseguivano alternate a rigogliose piante dal fogliame lucidissimo. La temperatura era andata aumentando parimenti all’opulenza degli ambienti, così che dal gelo del suo corridoio, attraverso il tepore confortevole degli uffici dell’ala nuova, si trovava ora a sudare per il riscaldamento eccessivo. Arrivato davanti alla Presidenza, la porta si schiuse automaticamente. Cane cappotto musica cane cappotto musica. Si fece coraggio ed entrò.
Parte #2
«Si accomodi, Semel».
Il Presidente gli fece cenno di sedersi. Semel non l’aveva mai visto se non in fotografia. Aveva una fisionomia simile a quella di un procione, con grosse sopracciglia bianche e un piccolo muso aguzzo dal quale sembrava dovessero uscire squittii, piuttosto che parole.
«Ho sentito parlare molto bene di lei, sa?» esordì il Presidente. «Lei è un impiegato scrupoloso, efficiente e senza grilli per la testa. Una persona affidabile, insomma».
Semel abbassò lo sguardo abbozzando un sorriso e un lieve rossore gli coprì le gote.
«Non se ne trovano tanti come lei, mi creda. Quelli che non vengono qui solo a scaldare la sedia, sono divorati dall’ambizione e non esitano a commettere qualunque slealtà pur di far carriera. Ma la lealtà, la le-al-tà» ripeté, scandendo le sillabe, «è il valore fondante della nostra comunità, più dell’intelligenza, più dell’efficienza, più della competenza». Si appoggiò allo schienale della poltrona. «Sono circondato da persone disposte a tutto pur di prendere il mio posto. Persone», socchiuse gli occhi, quasi a voler allontanare una visione ripugnante, «che pur di raggiungere i loro scellerati obiettivi, mettono a repentaglio il buon nome e la sopravvivenza stessa del nostro Ente».
La sopravvivenza dell’Ente? Semel era esterrefatto. A cosa si riferiva il Presidente e perché ne parlava a lui?
«Ho fondati motivi per ritenere che forze occulte stiano mettendo in atto una turpe manovra mirata a demolire l’Ente attraverso la mia esautorazione», continuò il Presidente. «Fonti affidabili mi hanno informato che è stata sporta denuncia nei miei confronti e che nelle prossime ore la Guardia di Finanza perquisirà la nostra sede».
«…».
«Ed ecco perché l’ho fatta chiamare, Semel: ho un incarico per lei. Ho intenzione di affidarle una cosa, insomma, un oggetto. Non posso rivelarle di cosa si tratta, ma le garantisco che non comporterà alcun rischio per la sicurezza sua e della sua famiglia. Dovrà custodirlo in un posto sicuro fin quando la situazione non sarà tornata alla normalità; quando ciò avverrà, mi auguro al più presto, lei verrà avvertito e allora, e solo allora, potrà riportarmelo».
«…».
«Si tratta di un oggetto di piccole dimensioni, non tema, che non le comporterà alcun problema. Potrà tenerlo a casa sua o portarlo con sé, come preferisce, l’importante è che rimanga sempre sotto la sua vigilanza. Non dovrà aprirlo per nessun motivo e non dovrà farne parola con nessuno.Conto sulla sua discrezione, Semel, lei mi è stato segnalato come persona di assoluta affidabilità».
«Certo, signor Presidente».
«La sua posizione, diciamo così, non di vertice, la rende il soggetto ideale per questo incarico. Nei prossimi giorni io e i miei più stretti collaboratori saremo sottoposti a interrogatorio e lo stesso accadrà, probabilmente, a dirigenti e funzionari. Un terremoto» concluse, scuotendo la testa, «un terremoto!».
Semel uscì dalla Presidenza rinfrancato. Nessuno dei suoi peggiori auspici si era avverato, anzi, la sensazione di essere l’ultima ruota del carro aveva lasciato il posto a una trepida fierezza che gli rendeva il passo più veloce. Gli sembrò che il percorso di ritorno durasse la metà di quello dell’andata. Tra le mani teneva un pacchetto di forma allungata di cui ignorava il contenuto. Consumò il pranzo in mensa come sempre, ma stavolta si lasciò tentare dal polpettone con piselli, al posto del solito petto di pollo. Timbrò il cartellino alle diciassette e dodici. Durante il tragitto in metropolitana rifletté su quale fosse il posto migliore per custodire la cosa. Passò in rassegna mentalmente i luoghi meno frequentati della casa. Nello scaffale più alto del ripostiglio, nascosta dietro gli scatoloni degli addobbi natalizi, non l’avrebbe vista nessuno. Ma poi ricordò che mancavano poche settimane a dicembre e che sua moglie faceva l’albero ai primi del mese. Forse, rifletté, un posto sotto gli occhi di tutti sarebbe stato il nascondiglio migliore. Una collocazione in mezzo agli attrezzi da lavoro, per esempio, oppure nell’armadio del bagno. Il fatto è che non aveva ancora deciso se dire a sua moglie e a suo figlio dell’incarico. Una parte di lui avrebbe voluto farlo, per dimostrare che non era l’uomo inetto che credevano e che c’era qualcuno in alto, eh sì, molto in alto! che lo aveva prescelto per affidargli un compito di grande responsabilità. D’altro canto, il Presidente gli aveva ordinato di non farne parola con nessuno e del resto, se loro gli avessero fatto domande, lui non avrebbe saputo cosa rispondere. Rientrando a casa, si fermò all’edicola per acquistare una rivista che desiderava da tempo e comprò dal fioraio una rosa rossa per sua moglie.
***
Tre giorni dopo Semel trova cinque auto della Finanza davanti all’ingresso principale dell’Ente. Due agenti parlottano appoggiati al cofano di una di esse, incuranti degli impiegati che gli sfilano accanto. Semel affretta il passo. Sente il cuore pulsargli alle tempie e un ronzio fortissimo nelle orecchie. Cane cappotto musica cane cappotto musica, ripete dentro di sé fino a coprire il ronzio. Porta con sé la cosa datagli dal Presidente perché teme che in sua assenza la moglie o il figlio la scoprano. Adesso, però, si pente di non averla lasciata a casa. Suda freddo. Sale la scalinata, infila il portone, striscia il badge. Cane cappotto musica cane cappotto musica. Dentro, è tutto un parlottare gravido di euforia mista a timore. La cosa è nella borsa, ben protetta tra la rivista acquistata in edicola tre giorni prima e la perizia della psicologa, di cui Semel conosce a memoria ogni parola: suo figlio soffre di “disturbo oppositivo provocatorio”. La stanza gli sembra più gelida del solito, rimane col cappotto indosso. Adesso si rende conto del rischio corso portando la cosa con sé: se gliel’avessero scippata, in strada o nella metro? Quando la toglie dalla borsa per infilarla nella tasca interna del cappotto gli sembra più pesante di quando ce l’ha messa. Non riesce a concentrarsi, lavora con fatica tutta la mattinata. Per andare a mensa deve togliersi il cappotto, perché al sesto piano fa caldo, così si infila la cosa nella tasca della giacca. A mensa cerca un tavolo libero, ma poco dopo arrivano due colleghi dell’Ufficio Monitoraggio e prendono posto accanto a lui.
«Ci vorranno settimane per acquisire tutta la documentazione», dice uno strappando la bustina della maionese.
«Quella che è rimasta», sogghigna l’altro.
«Dici che hanno fatto sparire pure il cartaceo?»
«L’archivio è nel seminterrato. Ti ricordi l’allagamento del mese scorso?»
«Dicevano che si era rotto un tubo».
«…e i documenti saranno illeggibili».
Semel si concentra sul petto di pollo, a lui non interessano i pettegolezzi d’ufficio. Una ferma eccitazione si impadronisce di lui; ora si sente più che mai saldo nella sua missione, difendere l’Ente da chi vuole distruggerlo. Lui, anonimo impiegato di quarto livello, sarà il salvatore di migliaia di dipendenti che ignorano persino la sua esistenza. Si alza dal tavolo e ripone il vassoio nel carrello d’acciaio.
La sera, a casa, decide di nascondere la cosa in una scatola da scarpe. Non è prudente che la porti addosso, l’Ente non è più un luogo sicuro. Aspetta che suo figlio si sia chiuso in camera e che la moglie chiuda gli occhi sul libro che sta leggendo, accende la luce nell’ingresso, infila la mano nella tasca del cappotto e afferra la cosa. Adesso è diventata pesantissima. Apre la porta dello sgabuzzino e prende la scatola dei doposcì comprati per la vacanza sulla neve di tanti anni prima, infila la cosa in fondo a uno dei due scarponi, rimette la scatola al suo posto, chiude la porta e va a dormire. Si sveglia in piena notte con la sensazione di essere spiato, il pigiama madido di sudore, la bocca asciutta; si alza e va a controllare che la cosa sia al suo posto. Tenta di riprendere sonno, ma nella testa sono entrati i finanzieri che vogliono interrogarlo e gli chiedono perché indossa solo calzini neri e si masturba di nascosto in bagno e mentre lo interrogano i loro nasi si trasformano in proboscidi che gli frugano nelle tasche e lui giura che non si masturberà più e le proboscidi tirano fuori dalla tasca il berretto a forma di cane che apre la bocca e dice: «Senza musica la vita sarebbe un errore».
Parte #3
«Ti vedo assente», disse la moglie. Era sabato e facevano colazione seduti al tavolo della cucina, apparecchiato con le tovagliette all’americana e le tazze blu. Erano passati cinque giorni dalla perquisizione della Guardia di Finanza, cinque giorni nei quali Semel aveva continuato ad andare in ufficio, prendere le medicine, dare la carica all’orologio della sala, cambiarsi i calzini. Però si era come ritratto in un guscio invisibile, fin quasi a rimpicciolirsi. Parlava di rado, non interveniva più nelle contese tra madre e figlio. Entrava nello sgabuzzino più volte al giorno per controllare che la cosa fosse al suo posto, dentro il doposcì; seguiva i notiziari per essere aggiornato sull’andamento dell’indagine, ma tv e giornali, archiviato lo scoop, avevano smesso di parlarne. All’Ente girava voce che il Presidente fosse scappato all’estero per sfuggire all’arresto, ma la notizia non era confermata.
Rimescolò il caffellatte descrivendo cerchi concentrici, ne contò venti prima di trovare una buona risposta.
«In ufficio si parla di licenziamenti», disse.
«I soldi se li fottono i capi e licenziano i dipendenti?»
«Il Presidente non c’entra. È una congiura».
«Una congiura di chi?»
«Forze occulte che mirano a demolire l’Ente», sibilò come se avesse davanti il nemico da distruggere.
«Ah beh…siamo a posto», commentò la moglie, scuotendo la testa. «Juri!», urlò, rivolta alla porta chiusa dietro la quale il figlio avrebbe dormito fino all’ora di pranzo, «la sai la novità? tuo padre è nelle mani di forze occulte che quanto prima gli daranno il benservito con un bel calcio nel sedere!». Scoppiò in una risata di scherno e si alzò per mettere le tazze in lavastoviglie.
Trascorse il sabato e la domenica in vestaglia, incollato alla tv. Alle cinque del pomeriggio della domenica, lo colse un attacco di singhiozzo nervoso che tentò di calmare bevendo piccoli sorsi d’acqua e trattenendo il respiro per alcuni secondi. Provò anche a ingoiare un cucchiaino di succo di limone, senza risultato. Verso le otto di sera il singhiozzo si fece così potente da scuotere i muri della casa. Juri si tolse gli auricolari e uscì dalla sua stanza. Semel, allo stremo delle forze, tentò di versarsi trenta gocce di ansiolitico in mezzo bicchiere d’acqua, ma dovette chiedere aiuto alla moglie per non rovesciare tutto sul tavolo. Giunsero le telefonate dei vicini preoccupati. Fargli prendere un bello spavento? Recitare l’alfabeto al contrario? Gargarismi con acqua e sale? Qualunque cosa, purché smettessero quelle vibrazioni da far tremare le fondamenta. Moglie e figlio lo aiutarono a distendersi sul letto, i singulti gli rendevano impossibile persino reggersi in piedi. Chiuse gli occhi e cercò di scacciare le visioni che lo terrorizzavano: una folla in tumulto davanti al palazzo dell’Ente, striscioni, bandiere rosse, sindacalisti che sbraitavano nei megafoni, forsennati che scalavano la facciata appesi a lunghe funi calate dal tetto per appendervi un enorme lenzuolo bianco su cui campeggiava una scritta di vernice rossa, il Presidente portato via in manette sotto il fuoco incrociato dei flash e delle telecamere. Semel sobbalzava sul materasso a ogni singhiozzo, le mani contratte a cercare appiglio nel copriletto stropicciato. Verso le undici di sera, il cane-berretto gli apparve sopra l’armadio. «Senza musica la vita sarebbe un errore», disse. Semel tirò un profondo respiro e, finalmente acquetato, si assopì.
Il giorno successivo rimase a casa in malattia. I notiziari mandarono fino a sera le immagini della manifestazione indetta dai sindacati, che chiedevano dimissioni immediate dei vertici e garanzie per tutti i dipendenti. Si era trattato di un fenomeno di preveggenza. Del Presidente, però, nessuna notizia, l’arresto se l’era immaginato. Sfinito e febbricitante, si alzò dal letto un paio di volte per andare a controllare la cosa, ma dovette fare marcia indietro perché lei andava e veniva dalla camera da letto; persino Juri, impressionato dall’attacco della sera prima, ogni tanto usciva dalla sua stanza per accertarsi che stesse bene. Non toccò cibo per tutta la giornata. Disteso sul letto, fissava la sommità dell’armadio nella speranza di vedere riapparire il cane-berretto. Cane cappotto musica cane cappotto musica. Il suo cervello era una prateria bruciata dal sole. Poco dopo le otto, lo richiamò la voce aspra della moglie dalla cucina: «Guardalo, il tuo Presidente». Sullo schermo della tv accesa scorrevano le notizie dell’ultim’ora: “Si costituisce Presidente dell’Ente Nazionale: «Pronto ad ammettere le mie responsabilità»”.
***
Semel vacilla come se avesse preso una frustata in faccia. Si trascina fino allo sgabuzzino, accende la luce, si abbassa per prendere la scatola infilata in fondo, sotto l’ultimo scaffale. Con uno sforzo sovrumano tira fuori la cosa, infila le scale, si precipita in strada e comincia a correre con la cosa stretta al petto. Un gatto gli taglia la strada, lo scansa per un pelo rischiando di cadere.Corre all’impazzata, la vestaglia svolazzante e il naso gocciolante per il gelo, arriva alla stazione della metro e salta sul primo treno; nel balzo perde una ciabatta, che rimane sulla banchina. All’interno del vagone i passeggeri si ritraggono alla vista dell’uomo in vestaglia col piede nudo e lo sguardo da pazzo. Lui si guarda intorno circospetto, le mani strette attorno al piccolo pacchetto avvolto in carta scura. Scende alla penultima fermata, raggiunge il piazzale. Davanti alla scalinata i dimostranti in rivolta hanno acceso dei fuochi, agitano fantocci impalati su lunghe aste e li danno alle fiamme. Semel è ipnotizzato dalle lingue di fuoco che lambiscono le strisce di pezza. In mezzo alla folla scorge il cane-berretto che apre la bocca per dirgli qualcosa, ma non riesce a distinguerne le parole. I manifestanti lanciano secchi di vernice rossa sul travertino della facciata, i più scalmanati si arrampicano sui cornicioni, rompono a sassate i vetri delle finestre, irrompono nel palazzo e spalancano i portoni. La marea invade l’atrio, si fa strada nei corridoi come un organismo vorace. Semel supera la calca per raggiungere il quinto piano – cane cappotto musica cane cappotto musica – imbocca il corridoio a destra, abbatte la porta con una spallata e si introduce nell’ufficio del Presidente. È solo, l’eco della gazzarra risuona in fondo alla tromba delle scale, cinque piani più sotto. Si siede, poggia il pacchetto sulla scrivania di mogano scuro e incomincia a scartarlo. Sotto quattro strati di carta velina scopre una grossa provetta di vetro chiusa da un tappo a vite, che contiene un liquido iridescente; sull’etichetta c’è scritto: “Coscienza del Presidente”. Sente i peli delle braccia drizzarsi come aculei e una rabbia spaventosa invaderlo; afferra la provetta e la scaglia contro il muro, frantumandola in mille pezzi. I facinorosi, intanto, avanzano rumoreggiando nelle scale, hanno quasi raggiunto il quinto piano, Semel scende facendosi largo in mezzo ai loro corpi, raggiunge l’atrio, esce sul piazzale, inspira profondamente.
Quando i facinorosi si riversano nella stanza del Presidente, le fiamme già lambiscono le tende e la bandiera esposta dietro la scrivania. Sulla parete campeggia una scritta a caratteri iridescenti: “Senza musica la vita sarebbe un errore”.