Fondo

di Giuseppe Fiore
Copertina: Panzacruel – Marta Di Giovanni

«Ma tu sei fuori di testa, Nino», gli dico, con un tono abbastanza alto. «Cioè davvero, stai fuso», continuo, con un tono che sembra salire ancora. Non voglio un botta e risposta, voglio solo arrabbiarmi per quello che ha detto. Una follia senza precedenti.
«Stai calmo e pensaci, non è così folle». Nino è proprio come me e come tanti in questo fottuto mondo. Ci definiscono grigi, dipendenti da qualcosa, in modo leggero, di confine, sul bordo. E noi popoliamo queste maledette città, noi grigi siamo la folla, la popolazione, i consumatori, le braccia dello stato. Tutto e niente, insomma.
«Calmo, Nì? Ma come faccio a stare calmo se mi proponi robe del genere. Già ho i cazzi miei a cui pensare e tutta questa storia di Wata». Lui mi  guarda, anzi, mi fissa. «Andare dalla Vecchia? Nel rione dei boschi? Dove stanno i bianchi? No, non è nei miei piani e non lo sarà mai. Lì è proprio dove le buone mamme e i bravi papà si raccomandano di non andare. Di non avvicinarsi, non è un posto per bambini, adulti, vecchi, poliziotti, per nessuno.»
«Ma non ha mai sbagliato, Tommà, mai, in ogni storia che si racconta la Vecchia ci ha preso, in ogni singola fottuta operazione.»
«Ne hai parlato con Lisa di questa storia? Noi non possiamo andare lì, Nì. Non è così che funziona. Noi stiamo per i cazzi nostri, nelle nostre zone, sai che chi è andato lì quattro volte su cinque è diventato bianco nel tempo?» rimane in silenzio. Si rolla una sigaretta del cazzo, prendendo, con lenti e snervanti movimenti, i fili del tabacco e creando una piccola piramide sul palmo della sua mano.
«Comunque Lisa è d’accordo, Tommà. Ci stiamo tutti cagando addosso, non solo tu, e questo è il modo migliore per essere sicuri».

I bianchi li riconosci con facilità. Molti vivono nel rione dei Boschi. Altri nella città, ma sono più rari e spesso cercano di nascondere i segni. Non ci sono dettagli specifici, perché le dipendenze sono troppo varie, proprio come le persone. Però si vede se uno è un bianco. Si vede negli occhi, nelle iridi, hanno delle piccole macchie opache. Alcuni dicono che possono addirittura riflettere il sole e renderti cieco, ma si sparano un sacco di cazzate.
La fattoria non è troppo lontana dall’entrata dei Boschi. Hanno macchine sporche di solito, fangose o bagnate. Anche quelle riesci a percepirle. Non so spiegare bene come, ma, ormai, io e Nino abbiamo allenato le orecchie. Sono percezioni sottilissime, roba che potrebbe farti diventare pazzo. Ci passiamo i pomeriggi, a volte. La fattoria ha questo giardino che si affaccia proprio sulla strada, allora ci sediamo lì, un paio di rais, il silenzio e ascoltiamo.
Passa una macchina e facciamo la nostra giocata, poi ci alziamo e guardiamo. Ci prendiamo sempre o quasi. Per non parlare delle camionette della Pula, roba che si riconosce anche con la musica e le cuffiette. Ne girano un sacco e dentro ci portano quei macchinari del cazzo. Uno schizzo del Metrò ci ha detto che fanno le retate. Si fermano in un posto, scendono e attivano ‘ste macchine e sei fottuto, marcio. Sgamano subito il livello della tua dipendenza, il colore della tua anima. E poi ti portano da qualche parte. Luchino dice che suo zio c’è stato e che è tornato diverso. Tranquillo, silenzioso, mezzo morto ha detto lui, anche se cosa cazzo vuol dire mezzo morto? O sei morto oppure sei vivo. Quando passa una di quelle camionette non ci affacciamo, non abbiamo nulla da nascondere, però meglio evitare. Nino dice che non si capisce bene quando si diventa bianchi, non c’è un passaggio netto, uno stacco brutale o un mal di testa da tumore, nulla del genere. Diventi dipendente in modo serio da qualcosa in maniera inconscia e poi va sempre peggio. «Potremmo essere già bianchi, Tommà, ma non saperlo», mi dice certe volte.

«E tu sei d’accordo, Lisa? Con questa storia della Vecchia?» La guardo mentre tira fuori una birra. Pesca nel suo zaino. Che diavolo nasconde lì dentro? Sembra avere sempre tutto, peggio di una strega o robe del genere. Ha un paio di birre, l’apribottiglie, pacchi vari di filtri e cartine, quaderni. Lisa, ma che ci fai con tutta questa roba?
«Sì, Tommà, tutti abbiamo paura per questa storia,  fidiamoci di qualcuno no?»
«Ti vuoi fidare dei bianchi Lisa? Di una tizia che dicono preveda il futuro?»
«Oh, alla fine non ci costa nulla, Tommà.»
«Dobbiamo entrare nei Boschi.»
«Dai, è proprio all’inizio del rione, ci mettiamo cinque minuti da qui. Ti fai troppi film in testa, Tommà.»
Cade il silenzio e fa anche un rumore incredibile. Nino si alza, so che è tutta una sua idea, ha questo fascino perverso verso i bianchi e tutto quello che li riguarda, le loro maledette tradizioni medievali. Apre un comodino pieno di cassetti. Prende la busta d’erba e inizia a fabbricare. Il silenzio continua, beviamo sorsi di birra facendo rumore. Aspettano il mio consenso, sono io quello che dovrà spaccare questo vetro e mandarlo in frantumi producendo un rumore incredibile. Come quando nei colorati compleanni che frequentavo da bambino qualcuno faceva scoppiare un palloncino e tutti saltavano in aria dalla paura. Cazzo ne so, una bomba a un compleanno con dieci bambini non è una grande idea, anzi è una bomba sprecata. Ma io questo vetro non lo voglio rompere. Già siamo al limite, se iniziamo a frequentare i bianchi passerà poco che ci ritroveremo nel baratro, siamo deboli ragazzi. Siamo tutto maledetti e deboli.

Guardo Lisa, il cappuccio viola sulla sua testa crea delle strane sfumature sulla sua pelle. Sembra una specie di personaggio della Marvel e poi, mi chiedo, a cosa diavolo serve avere i capelli lunghi se li nasconde sempre nella felpa e sotto il cappuccio? Ma chi ci capisce? Anche io nascondo tutto, ho quasi una specie di mania, le sigarette, le rais, il telefono, tutto nelle mie tasche, invisibile. Certe volte ho paura di finire in uno zaino e rimanere lì per il resto del mio tempo.
Mi metto una mano tra i capelli e con un dito seguo la loro forma, li muovo, mi aiuta pensare in questo modo e gli altri sanno che medito quando faccio così.
Questa storia della paura, mista a una leggera ossessione, mi perseguita. Ogni volta che non mi sento a mio agio torna con prepotenza, con la stessa forza con cui uno scarico rilascia l’acqua dopo una pisciata, una violenza primitiva. Non è una paura costante, non la ritrovo in ogni situazione. Staziona in qualche posto non ben delineato del mio fisico, aspetta, fuma mille sigarette, si sballa negli ambienti chiusi e stretti del mio corpo, per poi attaccare in una frazione di secondo. Allora butta una mezza sigaretta ancora a metà, che inizia a bruciare a contatto con la parte interna della mia pelle, e mi assale, corre verso il mio cervello, butta giù le piccole resistenze che il mio corpo prova a costruire come difese e arriva al cervello. Lì si espande, elimina tutto quello che è in superficie e assume il totale controllo. Allora io mi guardo intorno, provo a respirare, a far prendere colore alla mia mente, ormai grigia come la fotografia di Mordor. Ma non sono mai in grado di controllare davvero quello che è dentro di me, quello che non riesco a toccare, a modellare con le mie mani.

Wata è la città più vicina. Noi non abitiamo in una città, è un posto piccolo, senza nessuno pretesa, mentre le città di pretese ne hanno. Fanno a gara per tutto tra loro, storia, metri quadrati, efficienza, sicurezza, erba buona e roba varia. Non che da noi non ci siano posti dove prendere dell’erba di qualità discreta. Ma a Wata c’è la vera qualità, quella che tutti cercano e di cui tutti hanno paura. Per questo ci vogliamo andare, con Nino e Lisa, prendere un carico bello grosso e poi rinchiuderci nella fattoria per giorni interi. Il problema sono i controlli e tutte quelle camionette con i cani e i macchinari. Non è una cosa facile, abbiamo studiato un piano di cui non posso parlare, dico solo che c’è un treno, un bagno sempre occupato e due pali pronti a osservare ogni minimo movimento dai finestrini.

Sapete come funziona questa storia della dipendenza? Dei bianchi e così via? Il dettaglio incredibile è che non ti accorgi di nulla, non ti accorgi di dipendere in modo eccessivo, almeno all’inizio. E si può dipendere da tutto, ma davvero, fidatevi. Droga, tv, luci del telefono, cibo, alcool, ideologie e così via. Ma la vera maledizione è che la sostanza fa solo il suo dovere, non è la causa di tutto. Il vero danno è dentro la testa, è lì che si consuma la battaglia. Scatta un clic, una specie di schiocco di dita in un determinato momento e ci sei dentro, fino al collo. Non lo sai, giri per casa, vai a lavoro e tutto il resto, fai uso della tua roba senza esagerare, non ti senti un bianco, ma hai già perso. Poi il tempo e gli eventi fanno la differenza. Ogni sbalzo d’umore, ogni forte pressione ti porta sempre di più all’esagerazione, alla voglia di cadere in quel perverso e particolare piacere che si prova e così via. Finché non ti accorgi di non poter fare nulla, di non poterne uscire, di essere un bianco del cazzo. E allora sapete cosa si fa? Ci si inizia a nascondere nella propria casa, si sta in silenzio, si esce solo per lavorare, finché qualcuno si accorge che non vai bene, che non produci più. Sentono che sei cambiato e allora chiamano le camionette. In un giorno in cui piove, dopo un week end lungo passato tra le mura di casa, in silenzio, senza dare fastidio a nessuno, vai a lavorare e li trovi davanti l’entrata, con la fottuta macchina. Fila indiana e tutti vengono controllati. Allora dentro di te, anche per un secondo, credi nella possibilità di non essere davvero un bianco. Cerchi di ripensare alla voglia verso la tua sostanza come una linea omogenea, senza grossi sbalzi. Ma sai che non è così, sai che ci stai sotto e ti scopriranno. Ti prendono dalle braccia e ti mettono nella camionetta, senza picchiarti. Ti trattano come un malato del cazzo, come qualcuno che può contagiare, non ti guardano, ti toccano il meno possibile e sei finito. Puoi scappare se non ti trovano nulla addosso, puoi andare a nasconderti in quei maledetti ghetti per bianchi oppure andare in quei luoghi dove cercano di curarti. Questo puoi fare e, a un tratto, la vita sembra una cosa minuscola. Le possibilità esplosive che solo un mese prima si prospettavano uscendo di casa ora non ci sono più. C’è solo questo o quello. Nascosto o curato.

Il tizio è uno che ha deciso di farsi curare in una “casa della Pula”, come tutti le chiamano. A scuola, durante le assemblee, vengono spesso bianchi in fase di cura a parlare con noi delle loro esperienze. E molti li ascoltano. Ma non fanno paura. Nessuno ha più paura delle dipendenze. Neanche io o Nino ne abbiamo e forse è questo il dettaglio che dovrebbe davvero spaventare tutti.
Nino è già entrato nei Boschi una o due volte, con Luchino, prima che lo zio decidesse di farsi curare. Io cammino un passo indietro, Nino e Lisa sono tranquilli. Come fanno? Stiamo per entrare in casa di una mezza pazza. Abbiamo la nostra venti euro di erba per la Vecchia. Non impazzisce per l’erba ha detto Nino, ma è l’unica cosa che siamo in grado di portarle. E abbiamo anche cinquanta euro fisici, nel caso non bastasse il primo “regalo”. «Questa campa così», mi ha detto Lisa, «ai Boschi un sacco di persone vanno da lei, per ogni fottuto motivo, Tommà, stai tranquillo.»
«Ma quanti anni ha?» ho chiesto a Nino.
Lui ci ha pensato. «Non lo so, immagino più di novanta.»

Casa sua è un buco del cazzo. Non è in un palazzo, è una riproduzione in miniatura delle ville a schiera nelle serie tv. Senza vialetto e garage o piscina dietro. Nino le ha scritto su Telegram e non ho idea di come abbia fatto a recuperare il suo numero. Mi fa paura in questo periodo, è inserito nel tessuto di quella parte di città che considero lontana da noi. Tutta la storia di Wata lo sta facendo impazzire. Questa fottuta voglia della qualità, di buste piene d’erba buona da conservare nella fattoria.
Ci apre un tizio, alto e abbastanza grosso. Non ha nulla di diverso da noi, dagli altri, da tutti. Un corridoio, stretto, in fondo una tenda rossa. Il tipo ci fa segno con un dito di fare silenzio e poi ci indica la tenda. Attraversiamo il corridoio, Nino scosta la tenda ed entra, noi dietro. C’è un forte odore di amuchina, di pulito eccessivo, di mania. Quello stesso odore che sembra fuoriuscire dai programmi sui fissati dalla pulizia che vengono mandati a ripulire case di accumulatori. Non è piacevole, è fastidioso perché eccessivo.
C’è un tavolo, una ragazza seduta con la testa sul tavolo. Avrà la nostra età più o meno. Dietro di lei un divano, di quelli lunghi, dove puoi anche dormire se non ti va di raggiungere il letto in piena notte. Ci guarda per un po’. Forse pochi secondi, ma dentro i suoi occhi tutto sembra girare in modo lento. Ci fa segno di sederci sul divano. Noi eseguiamo e lei gira la sedia verso di noi. Ora siamo di fronte.
Aspettiamo, ma sembra sua intenzione mantenere il silenzio. Allora Nino tira fuori le palle e dice che cerchiamo la Vecchia, che abbiamo preso una specie di appuntamento. Lei lo guarda e fa segno di sì con la testa.
«Sono io la Vecchia», dice. «Iniziate a fabbricare», continua. Nino tira fuori la roba. Io le cartine e i filtri. Non sembra avere nessuna emozione, non sembra avere proprio nulla dentro. Ci guarda mentre rolliamo e si mangia le unghie, come prima di un’interrogazione difficile. Poi accendiamo, tre tiri e iniziamo a farla girare.
C’è un imbarazzo incredibile.

«Avete solo erba?» chiede dopo un po’. Lisa annuisce. Immaginavo, aggiunge, ma nessuno ha voglia di chiedere il perché.
Dopo qualche giro sparisce dietro la tenda e torna dopo qualche secondo con un computer. «Ditemi le serie migliori che avete visto», ci dice.
«Serie tv?» chiede Lisa. La Vecchia annuisce. Intanto Nino ha già iniziato a chiuderne un’altra, per non fermare questo iniziale flusso di contatto. Lisa inizia a sparare titoli. Twin Peaks, Breaking Bad, Lost. La Vecchia a un certo punto la ferma: «Queste le conosco già, ditemi qualcosa di diverso». E nessuno parla, le rais girano. Cerco di concentrarmi sui titoli che ho visto nell’ultimo periodo. Cerco di ricreare l’interfaccia di Netflix o di Prime nella mia testa. Ma è tutto offuscato, una leggera nebbia avvolge i pensieri che modello.
«Boris», dice Nino mentre strozza la gola con il fumo che scende giù, a purificare tutto quello che ha dentro. La Vecchia lo guarda, scrive compulsivamente sul computer, sembra battere tasti casuali, come avvolta da una follia quasi fisica, percepibile. Ma che diavolo ho visto nell’ultimo periodo? Sono sempre sul divano a guardare roba, ma non riesco a ricordare titoli, volti o nomi. Fotografia scura, pistole, pallottole, roba che impressiona, personaggi mezzi scemi presi da violenza inaspettata.
Tutto è offuscato e sento una sensazione conquistare la zona inferiore del mio corpo, come quando metti le mani nelle neve e le dita sono quasi staccate dal corpo, così, mentre rifletto su cosa diavolo ho visto, sento il mio corpo diviso in due. Sento che le gambe hanno un nuovo padrone, potrebbero mettersi a girare nella stanza da sole, senza impulsi inviati dalla mia testa.

«Che cazzo succede», urlo. Gli altri mi guardano e anche la Vecchia sembra, per la prima volta, interessata a qualcosa: a me.
«Che cazzo hai?» mi chiede Nino, si alza, ma la Vecchia si gira verso di lui e i suoi occhi sembrano diventare più grandi. Ora vedo le macchie bianche. Sono lì, sono delle fottute galassie, dei baratri infiniti, non riesco a staccare gli occhi.
«Siediti», gli fa.
«Nulla, non è successo nulla», dice Lisa, mentre allarga un braccio sulle mie spalle. Che mi succede? La Vecchia si alza, si avvicina a me e sembra scivolare sul pavimento, non piega le gambe, non le muove davvero. Mette la rais che ha in mano davanti alla mia bocca, io tiro, poi tira lei, poi io, poi lei e ancora per altre due volte. La testa mi gira e mi appoggio del tutto sullo schienale. Guardo il soffitto e sento la sua presenza. Sento la sua potenza, la sua diversità. Ritorna l’odore da maniaco della pulizia, chiudo gli occhi, penetra nelle narici, sento che potrei prendere il volo, potrei resuscitare come Gesù.
«Non fate nulla, voi tre, lasciate stare i vostri piani, lasciate stare quello che vi passa per la testa, ora andate», sussurra la Vecchia. Io mi alzo per primo e il mio corpo sembra essersi attivato dal nulla, un clic dei muscoli. Gli altri mi seguono e abbandoniamo la Vecchia lì. La venti euro è finita, un testo incompleto su di noi e le nostre serie sul suo computer, una strana forma di vita assaporata in quella specie di salotto.

Arriviamo alla fattoria in silenzio. Mi accascio su una sedia e il mio corpo sembra essere tornato su quel divano, stanco, addormentato, passivo.
«Sei un coglione, Tommà», mi fa Nino. Io lo guardo, ma non rispondo, non riesco a eseguire quei semplici passaggi scontati. Unire le lettere per formare le parole, poi le parole per una frase, capirne il senso e creare una risposta. Lo guardo. Lui va via. Rimaniamo io e Lisa. Lei è seduta a terra, con le braccia intorno alle gambe, mi guarda. Si rolla una sigaretta.
«Anche a me è successo qualcosa di strano, Tommà, ma non riesco a capire», mi dice. Sono scioccato, non riesco a tornare con prepotenza in questa realtà.
«Tieni, fumati questa», mi fa e mi passa la sigaretta. La prendo, accendo, sento il sapore acre del primo tiro.

Non andremo a Wata. Io no di sicuro. Nino vuole andare, non si fida della Vecchia, proprio lui. Forse abbiamo toccato il fondo, abbiamo raschiato il barile. O forse no, forse, nel nostro mondo, un maledetto fondo, un puzzolente barile, non esiste proprio. Si può solo scendere sempre più giù.

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