Testo: Paolo Marco Durante
Immagine: Luna verde – Julio Armenante
Mi piace la notte, mi è sempre piaciuta. Anche da piccola, quando normalmente si ha paura del buio, a me invece il buio piaceva. Tutt’al più era la luce quella che mi metteva un po’ di agitazione.
Mi piace girare di notte e vi assicuro che per una ragazza giovane non è la cosa più facile, soprattutto nel caso di una proprio carina, come me, all’apparenza molto fragile. Io invece sono una tipa davvero cazzuta, anche se non si vede subito.
Non ho paura di niente e di nessuno, però non sono molto espansiva anzi, tenderei a dire che sono una solitaria, una che ama starsene per i cazzi suoi. Mi piace camminare nella natura, nei prati, nei boschi, salire su un colle come Giacomino, e lì sedermi a pensare. A cosa penso? Non lo so neanch’io. A qualcosa che mi sento dentro, qualcosa come un ricordo lontano, come un odore, come un dolore, un dolore caldo e bello: è una sensazione strana che mi porto appresso da sempre. Non cerco di capirla, quella sensazione, ma mi piacerebbe poterla provare a comando, quando me ne viene la voglia o la nostalgia, cioè spesso. Ci provo ma non ci riesco, e quella invece compare quando vuole lei, all’improvviso, quando meno me lo aspetto. E allora mi sembra di vivere il solito déjà vu, quello che alcuni pensano sia il ricordo di un’altra vita e per la scienza invece è soltanto il cervello che tenta di fare ordine, di mettere a posto un ricordo, un pezzo di memoria che per sbaglio ha saltato la catalogazione e l’archiviazione a causa di un piccolo corto circuito e che, a un certo momento, è ricicciato fuori, in mezzo a tutta quella roba.
Giro spesso di notte. Nei posti più strani, nei parchi pubblici di cui scavalco facilmente le recinzioni e i cancelli (sono molto agile, leggera, volo praticamente), in quartieri periferici, in aperta campagna dove arrivo che è già pomeriggio inoltrato: prendo il trenino e dopo mi fermo nelle piccole squallide stazioni aspettando che annotti. A volte qualcuno cerca di attaccare bottone vedendomi così, sola e bellina, seduta sulla panca della stazione deserta dove anche il baretto è chiuso. Qualcuno pensa che io stia lì per fare marchette ma, se solo ci prova, si becca un sonoro vaffanculo e un’occhiataccia fiammeggiante. Me l’ha detto anche Bubbu che il mio sguardo pareva fiammeggiante quella notte, e che gli aveva fatto paura. Di quale notte parlo? Di un paio di mesi fa, non di più, stavo passeggiando, era buio pesto, per i viali profumati dei giardini del Laghetto, all’Eur, e incontro un ragazzo in bicicletta che mi rivolge la parola dicendomi proprio così, che gli avevo fatto paura, come se fossi apparsa all’improvviso, e che avevo gli occhi che luccicavano nel buio. Chi è questo Bubbu? Bubbu è quello che adesso si crede il mio ragazzo, quello che pensa di aver rimorchiato una bella pischella, di essere stato bravo. Poveretto! Gli uomini pensano sempre di essere stati loro, che sia merito loro, mentre sono le cose invece che devono andare in un certo modo, quello. Non so perché non si sia beccato anche lui il solito sonoro vaffanculo, eppure quella volta mi è girato così. Perché lo chiamo Bubbu? Non so neanche questo, è il primo nome che mi è venuto in testa parlandoci, è il nome – pronunciato alla romana però, con due “b” – dell’amichetto di Yoghi per capirci, quell’orsetto piccolo, indifeso, timido e un po’ saccente. Saggio, senza mattane o grilli per la testa, che però si màcera dentro, di pensieri e di dubbi. Bubbu è così. Sono due mesi che ci incontriamo spesso, di notte. Anche a lui piace la notte, solo che gli fa paura: lo attira e gli fa paura. Non lo dice ma io lo capisco subito quando uno ha paura. Forse ha un po’ paura anche di me, lo sento. Quando lo guardo fisso abbassa gli occhi e se lo tocco d’improvviso su un braccio sussulta e gli viene la pelle d’oca. Però mi ama. Dice di amarmi cento volte al giorno anzi, a notte, quando ci incontriamo ai giardini del Laghetto. Lui viene in bicicletta, io sto già lì. Allora mi chiede come ho fatto ad arrivare, se qualcuno mi ha accompagnata. Io gli dico che sono venuta volando e rido mentre lui mi guarda serio e preoccupato. È geloso, tanto, e ha ragione, sono un bel bocconcino e la fedeltà non è la mia virtù principale. Mi chiede spesso se ho un altro, se gli metto le corna, mi viene da sorridere per quelle domande ingenue. Io gli rispondo che in realtà un altro c’è, c’è da parecchio, è un rapporto strano di cui ho bisogno, che non riesco a interrompere, è uno che lo sa di avere le corna, ma non ne fa una tragedia lui, non se la prende neanche un po’, anzi, è contento, se ne fa un vanto, perché gli piacciono le tipe strane, e io gli piaccio così, un po’ farfalla, un po’ sventata. «Un po’ puttana», mi risponde incazzato il mio Bubbu, ma io chiudo il discorso con un’altra risata, dato che mi sembrava stesse lì lì per piangere. Poi mi ripete che mi ama, mi bacia e vuole fare le cose. A me non va, così lo accontento, inginocchiandomi di fronte all’idolo, glielo spupazzo per bene – sono brava se mi ci dedico – e lui, velocissimo, mi benedice tutta la faccia. Mi dice: «Avevi gli occhi che scintillavano nel buio, non riuscivo a guardarti, a che pensavi?» «Non lo so, a niente», gli rispondo e invece lo so benissimo a cosa pensavo.
È arrivata l’estate, fa molto caldo. Il caldo mi piace. Bubbu mi ha chiesto se mi va di andare in vacanza con lui, quindici giorni in montagna. A Bubbu piace la montagna. A me piacciono molto i boschi. Così gli ho detto “Va bene”, non so perché mi sia venuto di dire subito sì, me lo sono sentito. Allora andiamo in Trentino, in moto, con la tenda, in val di Fiemme.
Siamo arrivati a Cavalese. Saliamo per una stradina ripida e sterrata – la moto di Bubbu è una Kawasaki KLX Enduro e, anche se scomodissima a viaggiarci, si arrampica come un camoscio – abbiamo scoperto un punto stupendo, con una vista bellissima e tanti abeti intorno, si chiama Dos Rizol e ci abbiamo montato la tenda. Poi siamo scesi in paese. Passiamo davanti al Palazzo della Magnifica Comunità: museo, biblioteca, archivi storici, quadreria, sale affrescate, prigioni eccetera. Bubbu vorrebbe visitarlo ma io gli dico di no, un no secco, durissimo, senza altre possibilità. Allora, consultando la sua guida, mi dice se possiamo andare a vedere il Banco della Resòn, giù al Parco della Pieve, ma la mia risposta rabbiosa è: «Non me ne frega un cazzo del banco», e lui mi chiede che cosa ho, perché gli ho risposto così male, con i soliti occhi fiammeggianti. Io non replico a tono e invece gli dico: «Andiamo là!» indicandogli un negozio. Sull’insegna c’è scritto “La bottega di Erika”. Entriamo, lui mi sta dietro come un cagnolino e io mi metto a osservare le cose in vendita: marmellate, conserve, salse, liquori, elisir di erbe varie e curiosi biscotti allo zenzero, al cumino, al farfaraccio, all’alchemilla, alla genziana, poi vasetti di frutti e di bacche sotto spirito, di funghi sott’olio e tanto altro.
Perdo un sacco di tempo là dentro ma alla fine compro solo dieci di quei biscotti. La proprietaria – una vecchia rugosa con gli occhi chiari, bellissimi – mi guarda strano, forse a causa di quella spesa misera, magari si aspettava clienti migliori. Usciamo e dico a Bubbu: «Torniamo, sono stanca». Anche lui è stanco, ha guidato per dieci ore e quella moto sfianca. Arriviamo su a Dos Rizol, alla tenda. Lui si infila dentro a dormire un po’. Io mi metto più in alto, seduta come Giacomino a guardare l’infinito, è un attimo e mi sento di nuovo in preda a quella sensazione, quella che non riesco a comandare e che mi cattura all’improvviso, fortissima, quando meno me lo aspetto. Dopo due ore sto ancora immersa in quel dolore doloroso caldo e bello. Bubbu esce dalla tenda con lo sguardo stralunato e il viso ancora sconvolto di stanchezza. Si è svegliato, non mi ha trovato accanto a sé, si è spaventato ed è venuto a cercarmi.
«Che stai facendo?» mi domanda.
«Penso», rispondo.
«A che cosa?» mi domanda.
«A niente», rispondo.
«Mangiamo qualcosa?» mi domanda.
«Se vuoi…», rispondo.
Lui si apre una Simmenthal, io mangio qualche biscotto di “Erika”. Ormai è notte. Lui torna in tenda a dormire, è ancora cotto. «Tu vieni?» mi domanda. «Sì», rispondo. Ci infiliamo nei sacchi a pelo, non cerca neanche di fare le cose, sta proprio a pezzi. Si addormenta subito, lo sento ronfare come un orsetto Bubbu. Io invece non riesco a dormire. Sono agitata, ho caldo come avessi la febbre, brucio: esco dalla tenda e mi vado a mettere ancora nella mia postazione, lassù al buio. Mi sento strana – accidenti a quella sensazione! – ma proprio strana, come se…
Poi penso a Bubbu, e mi scopro a pensare di amarlo. Lui a me stasera non lo ha ripetuto cento volte, era troppo stanco. Sì, credo proprio di amarlo, accidenti pure a lui! Ma in fondo l’aveva capito subito – non è mica stupido – che c’era un altro e io, è un fatto davvero curioso, che invece mi sono scoperta fedele, non sapevo di poterlo essere, di doverlo essere, e guarda un po’ – mannaggia! – gli sono fedele a quell’altro, pure se sono un po’ sventata, un po’ puttana: infatti amo anche Bubbu. E chissà se mi fermerò lì.
È mattina adesso, c’è un sole meraviglioso, già caldo: Bubbu esce dalla tenda e mi viene a cercare, io sto ancora lassù, al mio posto. «Ieri sera ero troppo stanco e mi sono scordato di dirti che ti amo. Te lo dico adesso: ti amo, ti amo, ti amo, ti amo ti amo, ti amo…»
Lo interrompo quasi subito: «Io invece non ti amo. No. L’ho capito stanotte. È meglio che ci lasciamo. Tra poco me ne vado». Ha le lacrime agli occhi e uno sguardo disperato, da Bubbu. Chissà perché quando dico una bugia vengo sempre creduta.
«Come fai, vai via? Ti viene a prendere qualcuno?» mi chiede addolorato e ancora geloso.
«No, nessuno, volo via», rispondo. Chissà perché quando dico la verità non vengo mai creduta. E invece volo via davvero, sopra al paese, sopra al Palazzo della Magnifica Comunità dove c’è il museo, i quadri, la sala dei processi, le prigioni, gli archivi dove conservano i documenti di tutto ciò che nei secoli è avvenuto in quella valle, poi mi libro sopra al Banco della Resòn, dove amministravano la giustizia, e sorvolo come un drone il Dos Rizol, che i valligiani chiamano Dos delle Strie.
È passato parecchio tempo. Bubbu non è riuscito ad andarsene, a tornare indietro. Dorme ancora in tenda però ha trovato lavoro in una grande segheria. Per adesso gli fanno tenere puliti i sentieri, raccogliere i rami caduti, segnare gli abeti da tagliare, quelli dalla straordinaria risonanza che Stradivari utilizzava per costruire i suoi magici violini. Io spesso seguo Bubbu nel bosco, lo vedo camminare e a volte piangere. Lui non mi vede, non può vedermi. Provo una strana sensazione, a volte come un ricordo dolce e doloroso, una malinconia lontana, a volte invece come un fuoco che mi divora. Riempio le grandi tasche della mia gonnona di patchwork con vipere e salamandre, rane, code di lucertola e uova di gazza, ovoli malefici , cortinari orellani e amanite falloidi, radici di mandragola e bacche di tasso, di vischio e di agrifoglio, cristalli di quarzo e schegge di ossidiana, intreccio collane e coroncine di colchico, anemone, mughetto e aconito. Gioco a rimpiattino tra gli alberi, mi nascondo dietro gli abeti, dentro gli abeti, e sento quel magico legno vibrare, risuonare d’amore come il cuore sanguinante e disperato del mio povero Bubbu, come il mio incasinato maledetto arrostito cuore di strega.
All’inizio del sedicesimo secolo in val di Fiemme, e in particolare a Cavalese, si svolsero una serie di processi alle streghe che si conclusero con numerose condanne al rogo, eseguite in località Dos Rizol, oggi chiamato Dos delle Strie. I documenti relativi a quei fatti sono ancora conservati negli archivi del Palazzo della Magnifica Comunità di Cavalese e nel manoscritto 617 presso la Biblioteca Comunale di Trento.