Testo: Simone Lisi
Immagine: La perdita dell’innocenza – Julio Armenante
Nel novembre scorso, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, ha smesso di funzionare sia il lettore e-reader che la cassa musicale senza fili.
Gli oggetti rotti hanno di solito una loro bellezza speciale conferita dal tempo posatosi sopra di loro, penso ad esempio alla lavatrice abbandonata in un campo, a primavera, oppure a una seggiola vicino a un cassonetto che riesce a stare in piedi nonostante abbia solo due gambe. Invece gli oggetti tecnologici di ultima generazione, quando si rompono, sono semplicemente brutti: non è possibile trovarci una destinazione estetica ulteriore.
Così l’e-reader e la cassa musicale senza fili sono rimasti per giorni in un angolo della casa, poi sono stati spostati in recessi ancora più marginali finché, in una delle grandi manovre di Diana per restituire il nostro appartamento a un antico (sebbene ipotetico) splendore, i due oggetti mi sono stati messi di fronte con un interrogativo: che fare? Anzi no. La domanda era meno ipotetica e più imperativa: risolvi questo problema che ti riguarda, io ne risolvo già molti altri, troppi, questo problema spetta a te. Così la cassa e l’e-reader sono diventati due totem del mio fallimento, ogni giorno che mi alzavo e vivevo, e affrontavo giornate sempre impegnandomi a fare finta di niente, ma la sera prima di andare a dormire era più difficile ignorare la cosa.
Un giorno, immagino che fosse un lunedì, giorno per antonomasia della resa dei conti, un lunedì mi sono deciso, ho preso i due oggetti e sono uscito. Li ho portati a fare riparare. Ho scelto di andare in un’officina di riparazioni dove non ero mai stato prima, un posto nel quartiere in cui mi sono trasferito già da oltre tre anni. È una piccola officina davanti alla quale sono passato davanti moltissime volte, ma che ho sempre visto chiusa, solo a volte notavo che qualcuno dei negozi vicini, il calzolaio oppure il proprietario italiano del ristorante vietnamita, vi entravano con un telefono cellulare in mano, come fosse con un corpicino. Allora mi sono fatto coraggio e ho detto: posso farlo anche io. In fondo era un modo per sentirmi parte del tessuto sociale, un modo come un altro per esser parte di qualcosa più ampio di me stesso: la geografia. Ho suonato un campanello e ho atteso. Dietro a una porticina tutta dipinta di bianco che impediva di vedere dentro, dopo qualche secondo mi ha aperto un uomo piccolo, con occhi furbi, dai tratti levantini, che mi ha ascoltato spiegare i miei crucci scuotendo la testa come a alludere che non c’era niente da fare, era tutto ormai perduto. Io non ho insistito troppo a lungo, ma ho provato a spiegare all’uomo che non avevo intenzione di spendere molti soldi, che non potevo, tutto lì. Lui ha continuato a annuire, sebbene potessi intuire in lui un retro pensiero che era più o meno: non dipende da quanto tu vuoi o non vuoi spendere, dipende semmai da quanto tu puoi spendere. E io -proseguiva il pensiero dell’uomo- capisco quanto tu puoi spendere da molte cose: da come sei vestito, ma anche da come ti esprimi. E non solo. Lo capisco anche dal fatto che di lunedì mattina tu non sei a lavoro, ma stai portando oggetti tecnologici a fare riparare, cioè qui da me, pertanto questo fa di te una persona che può spendere e spenderà tutto quello che io chiederò. L’uomo delle riparazioni tecnologiche forse non sarebbe stato un mago delle riparazioni, ma era senz’altro un fine psicologo, se riusciva a capire così tante cose di me solo da quel singolo sguardo. E in effetti era proprio così.
Dopo qualche giorno mi ha scritto una mail in cui mi preannunciava la cifra che ci voleva per riparare i due oggetti, una cifra esosa, il massimo possibile che avrei tollerato di dargli, una cifra vergognosa, e io, come l’uomo delle riparazioni aveva predetto, ho accettato di pagare.
I due oggetti rotti hanno fatto ritorno a casa con la promessa del tecnico che avrebbero funzionato in futuro se io li avessi ricaricati in modo consono, utilizzando dei carica batteria coerenti, e altre espressioni misteriose tipo: far terminare il ciclo di ricarica e qualcosa che adesso ho dimenticato.
I due oggetti hanno funzionato benissimo finché, nuovamente, non si è scaricata la batteria, e sono tornato al punto di partenza. Diana mi ha detto di riportarli al tecnico, ma io ho capito che non l’avrei fatto. Non servirebbe, ho pensato, l’uomo mi chiederebbe altri soldi e la cosa non si risolverebbe affatto. Incredibilmente sono riuscito a risolvere da solo il problema della cassa musicale senza fili, ho trovato in un budello di cavi di vecchi telefoni anche il suo alimentatore, consono, coerente con la marca della cassa, e in effetti ha funzionato.
Aveva ragione quell’uomo.
Rimane quindi solo l’e-reader, che giace adesso sul comodino accanto al letto.
La questione non mi cruccerebbe neanche molto se non fosse che poco prima che la batteria si scaricasse, stavo giusto finendo di leggere un libro che mi stava appassionando, quindi sono rimasto in sospeso e avrei veramente molta voglia di sapere come finisce. Ho deciso pertanto di portare l’apparecchio dal vecchio tecnico cinese da cui, in questi anni, a prescindere da tutto, da ogni geografia, sono sempre tornato.
Si chiama Telefonia Arno e nasceva come un laboratorio per riparare i telefoni, salvo poi essere molto altro. Vi lavorano una coppia di cinesi, marito e moglie, che negli anni hanno acquisito una fama in tutta la città per la loro indubbia capacità di risolvere qualsiasi tipo di problema tecnico e tecnologico. Nel vecchio quartiere hanno ottenuto un enorme rispetto sociale, e prima o poi tutti quanti si sono rivolti a loro, sempre con soddisfazione e prezzi competitivi.
Lunedì sono tornato anche io da Telefonia Arno con il mio e-reader rotto, malgrado la pioggia e dei presentimenti nefasti, e ho ricevuto dal tecnico cinese la rassicurazione che dopo due ore sarei potuto tornare a ritirare il mio oggetto, e la cifra pattuita era una cifra perfettamente ragionevole.
Così nel pomeriggio sono ripassato ed era tutto a posto, ho comprato un nuovo caricabatterie e sono tornato a casa con l’idea di finire di leggere il libro lasciato a metà. Prima di addormentarmi la sera ho finito il libro, tirando una specie di sospiro di soddisfazione per un’altra cosa portata a compimento nella mia vita, poi ho lasciato l’e-reader in carica accanto al letto e l’oggetto dopo poco emetteva una confortante luce verde e non l’orrenda luce arancione dell’ultimo periodo.
Cosa c’è allora che non va?
Mi sono convinto che il cinese abbia messo dentro l’e-reader un insetto. Un insetto vivo. Non so dire come, ma l’ho capito. Dentro il mio e-reader c’è un insetto vivo, o almeno per ora è vivo, presto morirà non potendo uscire. Sta là vicino a me sul comodino e lo sento che si muove, malgrado non faccia rumore, malgrado la luce verde rassicurante, accecato dalla luce verde, io e lui, siamo solo in attesa che il tempo passi. Rimpiango il tempo in cui i miei problemi erano diversi, di altra natura, in cui nessuno oltre a me ci andava di mezzo, nessuno doveva essere sacrificato.
Ho finito di leggere il libro, era davvero un bellissimo libro, ma il prezzo che ho pagato per leggerlo è stato troppo alto. Le cose non sono andate come volevo, ma come diceva il primo uomo che riparò per finta il mio e-reader, non è tanto un fatto di volontà, di cosa io voglio o non voglio, ma di possibilità.
è davvero curioso, e anche stimolante, cioè mi ha, pian piano, trascinato in una sorta di antico e sottile malumore che ha che fare con una sorta di malessere universale