di Martina Serusi
Copertina di Sante Cutecchia
Alessandro Gassman stava seduto sul divano, nel suo salotto trasteverino, uno dei quartieri più amati e antichi della città eterna, dove i vicoli si intrecciano riempiendosi di turisti, giovani studenti e le pareti dei palazzi sono impregnate dell’odore acre della cucina romana: carciofi alla giudía, supplì, la cacio e pepe che fa sempre festa.
I sampietrini e la pavimentazione sconnessa raccontano storie diverse, però, non di una borgata riscoperta, riadattata e confezionata per la cittadinanza modaiola, piuttosto quelle di un luogo in passato dimora di balordi, prostitute, ladri e assassini.
Di Trastevere bisognava avere paura. Ogni movimento inconsulto poteva essere male interpretato e il colpo di un coltello inferto al fianco sarebbe stata solo una delle tante cicatrici destinate agli sprovveduti che attraversavano quelle viuzze malfamate.
Nemmeno gli sguardi tenevano al sicuro, meglio fissarsi le scarpe, farsi gli affari propri che – come si sa – si campa cent’anni se…
No, Alessandro era nato in un’altra epoca e le dure prove della vita – oltre al secolo breve in cui era nato, dove lo sviluppo sociale, tecnologico e politico avevano subìto una brusca accelerata – lo avevano reso integerrimo, retto, non più disposto ad accettare qualsivoglia ingiustizia, nemmeno se questa avesse significato una coltellata sul fianco.
Non che ne avesse mai ricevuta una, ma con molta probabilità il suo corpo tonico e asciutto avrebbe sostenuto il colpo senza farlo cedere di un millimetro.
Era ancora un cinquantenne prestante, dopotutto.
Sarebbe stata una cicatrice da esporre con orgoglio, un segno della sua virtù intonsa, del suo essere probo, oltre alla prova del fatto che non fosse un cretino senza talento, un parvenu della recitazione, come avevano osato definirlo spesso critici e detrattori paragonandolo a quel padre il cui ricordo pesava sulle spalle di un ancora giovane e avvenente Alessandro.
Il salotto, dicevamo.
Non era un tipo minimal, non gli piaceva il gusto di Sabrina che insisteva nel volersi disfare di quei cimeli familiari, dei tappeti logori e degli impegnativi tavoli in noce che ammorbavano l’aria di quell’immensa stanza.
Quello che Sabrina non riusciva a capire è che ogni oggetto è legato alla memoria, è depositario di aneddoti, storie, ricordi di persone che ora vivono impresse in quel firmamento celestiale del cinema e della letteratura. Arti nobili in Italia, non c’è che dire, specie in quel secolo breve di cui abbiamo parlato. Tra sperimentazioni, avanguardie e capisaldi della cultura, si affacciava anche un uomo alto, dal timbro imperioso e distinto. Impossibile non riconoscerlo anche ad occhi chiusi. Sì signori, è proprio lui, Vittorio, il padre di Alessandro Gassman.
E quanti scrittori, attori, registi, avevano calpestato quelle fibre di lana del tappeto liso? Quanti avevano mangiato e – con tutta probabilità – generato dei capolavori attorno a quel “parallelepipedo opulento” (come lo chiamava Sabri) in noce?
Sabrina non capiva, non ci sarebbe mai riuscita.
Il divano, dunque. Era forse l’unico pezzo moderno di quell’accozzaglia mescolata di stili, un arredamento che un designer d’interni avrebbe rivisto con gioia.
Il tessuto satinato verde acido era attraversato da fili rossi e oro ricamati con zelo, mentre il disegno damascato prendeva forma, trasformando i ricami in foglie d’acero classiche, eppure sempre meravigliose.
Un libro tra le mani, le gambe accavallate e impazienti di finire il capitolo. Ogni tanto un occhio sui social, ci sta.
Aveva i suoi dipendenti, ragazzi alla mano, frizzanti e pieni di iniziativa, pagati il giusto.
Non troppo poco, ma hanno vent’anni, voglio dire. Che se ne fanno di salari a tre zeri?
Gassman si era rivolto al commercialista, il quale a sua volta aveva chiamato il consulente del lavoro, ma non sapendo assolutamente nulla di SMM (che significava poi quella sigla?) aveva deciso di rivolgersi a un ufficio INPS che aveva contattato uno dei suoi consulenti più aggiornati.
Quattrocento. Nette!
Esperienza, ragazzi miei, esperienza e curriculum.
Sono pur sempre i social di Alessandro Gassman, mica del ferramenta sotto casa che deve rilanciare l’attività.
Però…
Ogni tanto gli piaceva usarli per conto suo, per passare il tempo, per scorrere quel feed veloce dove i contenuti sono a scadenza, dove nascono e muoiono mode nel giro di poche ore. Instagram poi gli piaceva. Decisamente più di altri.
Chi ha voglia di leggersi testi impegnativi scritti da uno sconosciuto (o quasi) su Facebook? Anche quei caratteri limitati di Twitter gli provocavano una certa irritazione.
Instagram no. Se solo avesse saputo che sotto quelle foto c’era un mondo. Gli sarebbe bastato picchiettare rapidamente col pollice e scoprire, sotto le patinate e artificiose immagini, un significato allegato.
Non aveva voglia di imparare, quello era un lavoro per i suoi ragazzi, a lui bastava qualche cuore (unica reaction possibile) sui profili degli amici, soprattutto attori e registi e… perché no? A qualche modella particolarmente procace un cuoricino non si nega mai.
Ufficialmente non era lui a gestire i social, giusto? Può accadere uno switch dal profilo personale a quello di lavoro. È successo pure al Papa.
Magari un commentino, una fiammella, un cuore.
Nulla di esagerato, era pur sempre un uomo sposato, un attore affermato, padre di famiglia, cittadino rispettabile. Da poco persino impegnato nella raccolta dei rifiuti del suo amato quartiere. Incredibile quanti strafottenti si aggirassero per quelle strade senza alcun rispetto per ciò che rappresentava. Vabbè! Torniamo ai culetti tondi sul feed del nostro.
Non erano lì per irretire la sua mascolinità, ma – dopotutto – perché no?
Non che questo muovesse qualcosa ad altezza inguine, però sono visioni che fanno piacere.
Cuore!
Un mezzo sorriso compiaciuto cominciava a solcare le guance marcate.
“Mai quest’onda, mai mi affonderà! Gli squali non mi avranno mai! Quest’onda mai mi affonderà SHALALALALÀ”
Cosa diavolo interrompeva quella placida serata di letture e rigonfiamento di ego maschile? Cos’è un coro? Un affronto? Il cuore saltò un battito.
“Noi siamo i giovani, l’esercito del surf!”
Era forse una sfacciata dichiarazione di sfida? La presentazione di un gruppo di imbecilli che si sentivano onnipotenti e osavano rompere quel flusso, quel quarto vuoto caldo dove la leggerezza dei pensieri si muoveva come il vento che sfiora le dune di sabbia sconfinate?
La finestra socchiusa, lasciata così per permettere all’aria di rinnovarsi e smorzare quell’odore stantio di legni e tappezzeria aveva tradito la fiducia riposta nel quartiere, la sua casa, la sua dimora sicura.
Risate sguaiate? Canti in coro? Che giorno era? Di che colore era il Lazio? Cosa stava succedendo?
La fronte si stava corrugando troppo, la pelle si increspava definendo ancora di più quelle rughe d’espressione. Affascinanti, per un uomo – per carità – ma preferiva non somigliare ad un panno dopo la centrifuga. Poggiato il telefono corresse quel cipiglio con la mano destra. Una lieve tensione dall’interno verso l’esterno, nulla di impegnativo.
Alzò lo sguardo e di seguito la testa. Non era proprio il caso di fare gli ignavi. Che gli aveva insegnato Trastevere?
Si sollevò lentamente, i passi felpati verso il balcone in ferro battuto (li facevano ancora? Erano solo un vezzo estetico e caratteristico del suo quartiere? Perché non riusciva a smettere di pensare alla bellezza di quel suo angolo di mondo?).
La tenda rosa antico, o cipria, di viscosa gli avrebbe permesso di vedere fuori anche senza doverla spostare, ma il vento la muoveva appena e quella danza – quasi sensuale – del tendaggio, lo invitava ad aprirla come una vergine vogliosa. Quel rosa, poi… Dio, frena queste fantasie insane!
Scivolosa e soave, la tenda rimase appesa nella salda presa di Gassman.
Un colpo di tacco e via sulle punte.
Spiava, Alessandro Gassman, guardava i vicini dal silenzio del suo attico romano, uno di quelli che nei film sono sempre le abitazioni degli addetti ai lavori.
Questa però era la sua e l’alterigia con cui la difendeva andava di pari passo con la rabbia che montava dopo quella visione.
Stacco. Silenzio di appena pochi secondi.
La musica cambia.
Sembra… reggaeton? Trap? Non conosceva la differenza, avrebbe dovuto chiedere a Leo, ma anche lui era molto lontano dal paradigma dello zoomer. Era riflessivo, ponderato, il suo Leo, quel vincitore della categoria giovani a Sanremo. Stiamo divagando.
Nonostante le mascelle serrate, qualcosa di quella musica e quei movimenti appena percettibili, quelle sagome scure in lontananza, gli riportavano alla mente altri ricordi. La vita prima della pandemia.
Dentro di sé gli mancavano gli amici, le tavolate, quelle chiacchiere goliardiche e disimpegnate. Un qualche accenno alla politica, senza troppe pretese e solo per parlare di chi aveva il piatto ricolmo e magnava più degli altri.
Volti noti, altri meno, altri ancora completamente sconosciuti, ma che lo fissavano sorridenti e riverenti, speranzosi e riguardosi. Ragazze, donne bellissime per cui qualche pacca sul culo discreta non era un torto. A salvarlo dal rimbrotto quel sorriso così ampio, simpatico, sexy. Donna, è Alessandro Gassman, ora ricambia il sorriso e gira i tacchi ammiccando.
In fondo piace anche a te.
No, non stiamo parlando di questo. Qui si gioca con la vita delle persone, sulla loro pelle.
Siamo in piena emergenza pandemica, Cristo. Questo non può essere accettabile!
Improperi e bestemmie sfrecciano nella testa di Alessandro, facendo lavorare le sinapsi sino a fargli fumare le orecchie.
Doveva fare qualcosa, doveva agire, ma quei pensieri rabbiosi gli impedivano lucidità.
Qual era la mossa giusta da fare?
Strattonando involontariamente la tenda color cipria, causandone quasi il crollo del bastone, scattò verso il divano tornando a sedersi. Il cuore cominciava a palpitare, dannata tachicardia e pressione alta.
A chi rivolgersi? Il telefono lo guardava dalla sua posizione supina e un po’in bilico sul confine del divano. I social! Il lampo di genio fermò quel convoglio di pensieri carichi d’odio, rimettendo in ordine i vagoni e fermandosi a pisciare alla prima fermata utile.
Come si chiamava quello dei caratteri brevi, quello che abbiamo detto prima…AH! Twitter. Sì, Twitter era l’unico social che, glielo avevano detto i suoi ragazzi, avrebbe dovuto gestire da solo.
Doveva diventare il suo sfogatoio, il mezzo delle comunicazioni concise, incisive, utili a dirigere l’attenzione del suo pubblico e informare su progetti, anteprime cinematografiche, appuntamenti, ma non solo. Qualche personale commento era ben accetto, anzi, ridimensionava l’attore Gassman e lo riportava a quella forma umana, terrena, vicina ai suoi follower (i paganti al botteghino, per intenderci).
Tirò su col naso, passandosi il dito per asciugarselo. Non avrebbe saputo dire se quello fosse sudore o muco nasale. Sta da solo, Gassman, a chi interessa questo repellente dettaglio?
Sbloccando il telefono aprì il menù, suddiviso – benedetto Leo – per colore, in modo da trovare immediatamente le app associandole al pantone del logo ufficiale (Instagram era quello con le sfumature violette che solleticavano le sue fantasie pruriginose).
Blu: Immuni, Facebook…BINGO! Twitter. Ecco quell’uccellino appena riconoscibile, quel figlio di puttana che quando era piccolo spifferava le marachelle alla mamma e la maestra.
Crudele ironia, visto quello che avrebbe fatto di lì a poco.
L’immagine seriosa della profile picture mostrava l’attore nella sua posa migliore. Lo sfondo nero ne definiva la figura, mostrando le spalle quadrate e la mandibola seducente.
Duecentottanta caratteri. Cosa avrebbe potuto scrivere in uno spazio così ridotto?
“Sai”.
Sì, perché non rivolgersi in maniera informale ai propri followers? Come se stessi parlando ad ognuno di loro, come ad un amico, privatamente?
“…sai” in medias res. Fa tanto romanzo d’appendice, riprendiamo dopo aver interrotto la settimana scorsa e continuiamo il racconto dove lo avevamo lasciato.
“…sai quelle cose di condominio” cose…dai, calza. Stiamo utilizzando un registro colloquiale, la licenza è assolutamente concessa.
“… sai quelle cose di condominio quando senti in casa del tuo vicino, inequivocabilmente il frastuono di un party con decine di ragazzi?… hai due possibilità: chiamare la polizia e rovinarti i rapporti con il vicino, ignorare e sopportare, scendere e suonare…”
Pubblica.
“Porca miseria! Gli spazi, la punteggiature, ho scritto due possibilità e ne ho messe tre.”
Non avrebbe dovuto scrivere in tutta fretta e preso dalla foga.
Beh, è andata e pazienza. Tanti cari saluti alla sintassi e la grammatica. Chi se ne frega, voglio dire? Non è la fottuta priorità in questo momento. C’è una flagranza di reato, è questo il focus. Vadano a fanculo la forma, la diplomazia, gli errori, tutto!
Che ore si erano fatte? Sembrava passata un’eternità, ma erano appena le 23, solo venti minuti da quando quel trambusto aveva irrotto nella pace del celebre attore.
Nessuna notifica.
La gamba cominciava a tremargli e la suola in gomma dura della pantofola batteva ritmica sul gres porcellanato installato appena un anno e mezzo prima.
Solo un anno e mezzo fa era il 2019, prima che l’incubo della pandemia prendesse il sopravvento nelle nostre vite e routine.
Dio quanto gli mancavano quelle feste!
Non era il momento.
Scacciò via quell’evocazione malefica.
Perché cazzo quelle notifiche continuavano a non trillare? Sbloccò nuovamente lo schermo.
Nero.
Maledizione!
Scarico.
Un’altra volta.
Sempre quando dovrebbe servire.
Del caricabatterie nemmeno l’ombra.
Basta così, il momento di agire è giunto, ed è adesso.
Il collo scattò orizzontalmente sulla sinistra, rivolgendosi ad una delle porte di ingresso del magnifico salotto, la sua comfort zone, la sua campana di vetro che per tutto quel tempo lo aveva tenuto lontano dall’esterno e le sue convulse noie, ostacoli alla quiete di quei momenti di ritiro solitario.
Con un balzo si rimise in piedi, una partenza da squalifica se avesse partecipato ad una competizione. Il nostro Gassman (Jr.) si produsse in un passo lunghissimo degno di un giovane Baryshnikov, mentre a grandi falcate si faceva strada verso l’oscuro corridoio.
Doveva avere un cordless da qualche parte, ma da un primo furioso e rapido sguardo non sembrava essere nella stanza.
No, non c’è tempo!
Due giri di capo e i passi si fecero sempre più veloci verso il telefono fisso di bachelite, lo stesso con cui tante volte il babbo aveva parlato emettendo i suoi toni gravi. Quella voce spessa e imperiosa che parlava sommessa mentre dall’altro capo poteva esserci un Monicelli, un Risi (che tanto aveva amato lo sprezzo che trapelava dalle fessure al posto degli occhi) o, chissà, un’amante in lacrime che lo attendeva sola nel letto di una camera a ore prenotata qualche giorno prima, nell’euforica prospettiva di una notte incandescente con quell’uomo imponente, nerboruto, capace di sottomettere qualsiasi corpo femminile sotto la sua struttura olimpionica e quell’ego ipertrofico.
Come mai lui non aveva ereditato quel timbro? Così virile, teatrale, da opera antica.
Neanche per questo era il momento.
Sollevando la cornetta consunta e graffiata – avrebbe dovuto restaurarla appena fosse stato possibile – il suono interrotto della linea libera sembrava otturato da anni di usura e disfacimento.
Inutile soffermarsi su questi dettagli, il tempo stringeva. Doveva digitare quel numero.
Sì, ma qual era quello delle emergenze uniche?
113? 115? Dannazione! Quella memoria fallace cominciava a scricchiolare nuovamente.
Calma…una goccia di sudore gli imperlava la fronte scivolando sull’occhio, facendolo vacillare per pochi interminabili secondi. I contorni del corridoio divennero offuscati, le foto del muro davano l’impressione di sciogliersi rendendo il suo ridente parentado mostruosa figura tormentata dagli orrori delle crisi familiari, economiche, politiche.
“Minima immoralia
Minima immoralia
Minima immoralia
Minima immoralia
The eeeend
My only friend
This is the eeeend
Sul ponte sventola bandiera bianca…”
Battiato? Perché adesso? Quel vibrafono continuava a ripetersi nella sua testa.
Solo un attimo, il corridoio riprese forma, le foto sorridevano nuovamente rassicuranti.
Quella con suo padre che lo teneva in braccio gli infondeva sempre una sensazione di benessere, di protezione. Non lo ricordava affettuoso. Certo, le crisi maniacali e la megalomania di un uomo icona e pilastro della cultura italiana non potevano confondersi con la sua natura umana appena rivelata.
Il ruolo di padre non si addice a chi, con quell’aura divina, vuole levitare sopra il palco, mantenendo a debita distanza e diversi gradini sotto, la plebaglia esultante.
La respirazione ricominciava a farsi pesante, i polmoni incameravano sempre più aria, mentre il pavimento girava vorticosamente.
Mio dio, quel numero. Quel cazzo di numero.
“Ricorda…”
“Papà!”
Si voltò. Il buio e il silenzio ancora una volta padroni di quel segmento rettangolare attraversato dall’ennesimo tappeto antico.
112. Ecco il maledetto numero!
“Tuuuuu
Tuuuuuuuu
Tuuuuuuuuuu”
Tre squilli interminabili, dall’altro capo la voce bonaria e confortante di un uomo dalla forte inflessione campana.
“Pronto? Qui carabinieri. Come possiamo aiutarvi?
La gola secca non lasciava proferire verbo.
Un piccolo sforzo. Ce la poteva fare.
“Mi, mi sc-sc-scusi”
Ancora quell’agitazione, la corsa verso il telefono era stata estenuante, così la rievocazione di quel dolore e quel parallelismo sempiterno tra l’imponente genitore e la sua carriera consacrata grazie al demiurgo del dramma italiano, l’anatolico Özpetek, che con quel bagno turco aveva mostrato non solo l’apollo Alessandro Gassman, ma una promessa del grande schermo, lontana da quella impostata e teatrale del padre Vittorio.
Una piccola soddisfazione, durata poco certamente, la china da salire era ancora impervia.
E a proposito di questo, il cuore sembrava dovesse esplodere da un momento all’altro proprio come in un film.
E lui di film d’azione non ne aveva fatti poi tanti, ma visti…beh…quella è un’altra storia.
“Mi scusi, perdonate il disturbo, ossequi. Sono…” una lieve incertezza nella voce “Alessandro Gassman”.
Ma cosa stava facendo?
“Ossequi? Metti la schiena dritta, figliolo!”
Ancora la voce del babbo. Quel babbo venerato seppur severo e perentorio.
Vittorio e la sua maschera teatrale, quella della tragedia col sorriso arcaico rivolto verso il basso.
Ad Alessandro non era rimasto poi tanto, doveva accontentarsi dell’ultima lasciata a giacere nelle quinte: quella della farsa.
Il sorriso piacione si allungò da guancia a guancia.
Si schiarì la gola con un lieve colpo di tosse.
“Buonasera, sono Massimo D’Alema”
“Che battuta di bassa lega! Stai ricalcando uno sketch televisivo ormai triviale. Non fare il pagliaccio, non umiliare la mia memoria. Ricordati, chi sei”.
Cominciava a odiare quel timbro ancora vivido del defunto genitore. Anche la sua coscienza non faceva che mortificarlo.
“Buonasera, sono Alessandro Gassman” non attese risposta “Sì, nun me chieda gnente per favore”. Il silenzio dall’altro capo, solo qualche squillo di telefono in sottofondo, passi e voci indistinguibili.
Si passò la mano tra i capelli ancora umidi.
“Mi perdoni, vorrei denunciare un fatto. Credo sia urgente, è una questione grave, decisamente di vita o di morte”.
Chissà cosa doveva aver pensato l’ufficiale dall’altro lato del telefono, forse ad uno scherzo.
Un soffio, come buttasse fuori l’aria per non scoppiare a ridere, si insinuò nell’orecchio teso di Alessandro.
“Ditemi signor…Gassman?” Non sembrava convinto della sua identità, ma se ci fosse stata davvero un’emergenza avrebbe dovuto risponderne personalmente, meglio stare al gioco.
“Senta” la voce cominciava a rompersi. Sudore, o forse una lacrima, scivolava salata sopra il labbro superiore, svoltando leggermente seguendo la spigolosa forma dell’arcata superiore.
“Io mi sono affacciato dal mio balcone poco fa. Temo di dover fare un esposto, una denuncia…non so, mi dica lei”.
L’appuntato dall’altro capo cominciava a spazientirsi.
“Potete dirmi cosa sta succedendo o no? Signore, qui le linee sono tutte occupate, abbiamo emergenze in tutta la città, voi così non mi aiutate, eh, scusatemi”.
Come osava quell’ignobile macchietta ridicolizzare in quel modo la sua ansia?
Gassman faceva solo il suo dovere, stava fornendo loro l’esempio più calzante di cittadinanza, un’educazione civica come nelle scuole non si vedevano da svariati decenni. Avrebbero dovuto ringraziarlo per quel servizio.
“Non…non sono riuscito a vedere granché, non ho distinto i partecipanti”
Però…
“La memoria Gassman!”
Di nuovo lui.
Il tono mutò, divenendo finalmente risoluto.
“Sono praticamente certo ci siano dalle dieci alle cinquanta persone che si sono riunite nell’appartamento proprio di fronte al mio”.
Silenzio
“Non sono pratico di queste cose, vede…”
Le mani agitate cominciarono a sudargli copiosamente, mentre una specie di punteruolo sembrava attraversargli il cranio.
Perché le cose non potevano essere semplici, come quelle di una volta?
Quando il vicino lo chiamavi dal balcone, sì, ma non per denunciarlo. Piuttosto ci si prendeva insieme il caffè dopo pranzo. Bastava un cenno con la mano, il polso che roteava come girasse il cucchiaino dentro la tazza, mentre il gomito – nella giusta angolazione – si sollevava verso la bocca, bevendo in un unico fiato quel caffè invisibile e invitante.
Quel caffè che poi avrebbe portato tua moglie, allontanandosi subito dopo, per lasciare gli uomini a chiacchierare e confrontarsi su argomenti che non le competevano.
Quel caffè che continuava a fare sempre nel modo sbagliato e mai come le dicevi tu o come lo faceva tua madre. Carico, nero come l’abisso.
Dov’erano finiti quei rapporti così conviviali? Dove si erano perse le relazioni col vicinato?
È stato dopo il ‘92?
È stato il processo Mani Pulite? Sono state le stragi di mafia? O forse prima, durante l’epidemia dell’eroina?
Difficile stabilire una cesura, ma qualcosa era irrimediabilmente cambiato.
Quel momento esatto in cui il mondo ha cessato di essere il luogo deputato al potere degli uomini ed è diventato quello di giovani debosciati senza obiettivi, futuro, famiglia.
Quei giovani che proprio in quell’istante attentavano alla salute pubblica radunandosi, numerosi, dentro un appartamento di appena 200 metri quadri nel quartiere Trastevere.
Il suo amato quartiere.
“Venite immediatamente. Un branco di giovani, ma sarebbe meglio definirli bestie senza cervello, ha organizzato una festa. Non ricordo alcun DPCM che abbia permesso uno scempio simile. Le do l’indirizzo. Non mi ringrazi, faccio solo il mio dovere”.
Dopo aver fornito le coordinate all’agente, sentitamente commosso per quel gesto eroico, Alessandro Gassman chiuse quella telefonata.
Voltandosi scrutò nuovamente il buio del corridoio.
L’evanescente profilo di Vittorio, a malapena illuminato dalla luce del salotto, gli sorrise e ridacchiò orgoglioso con quella sua voce caratteristica, per l’ultima volta, prima di scomparire definitivamente, lasciando Alessandro con un vuoto e una malinconia insopportabili.
Rifletté un attimo.
Era stato tutto un sogno? Suo padre era davvero intervenuto per renderlo, se possibile, ancora più uomo? Cosa significava quella visione così vivida?
Il dolore lasciò spazio al sollievo mentre il sudore si asciugava con la brezza primaverile, ancora rigida, che entrava dalla finestra lasciata aperta.
Il tempo in salotto si era fermato. Guardò l’orologio sulla parete: le 23 e dieci minuti.
Com’era possibile tutto questo? E se fosse stata realmente un’esperienza soprannaturale o mistica? L’alzatina in formica, quella con la superficie rivestita in finto marmo nero appartenuta a Tognazzi, richiamò la sua attenzione. Un portaoggetti scelto da Sabrina, che cozzava terribilmente col resto, nascondeva un cavo bianco.
Il caricabatterie.
Ancora stremato attaccò il cellulare alla presa di corrente.
Inserito il pin non attese un attimo: scroll, menù colorato, sezione blu, Twitter.
Le notifiche erano centinaia.
La composizione, beh…varia, com’era prevedibile. Sostenitori lodavano il coraggio di Alessandro, mentre altri (chi volete che siano? I soliti noti) avevano inondato, da bravi haters, il suo profilo con risposte rancorose. Più che rancorose erano impulsive e sconsiderate.
I negazionisti, gli insurrezionalisti, i fascisti dell’anti-mascherina.
“Non ti curar di loro” pensò un’ultima volta Gassman, prima di lasciarsi andare pesantemente sul divano che quasi cedette sotto il peso di quell’adone meraviglioso.
Nessuna risposta, non la meritavano.
Solo un altro tweet.
“Fatto il mio dovere. Fiero”.
Si sentì improvvisamente leggero, Gassman.
Fiero lo era davvero.
Lo sguardo tornò sul libro, adesso il telefono era ora di metterlo via, anche se una certa stanchezza fisica e mentale cominciava a serpeggiare.
Un ultimo sguardo, il nostro, dal pavimento illuminato dalle calde luci del lampadario regalato al mattatore dalla sua Diletta in occasione dei suoi sessant’anni. Sul muro, un’altra foto del babbo, anzi no, dell’attore Vittorio Gassman.
Impertinente e audace, la faccia da schiaffi che aveva conquistato i registi, creato rivalità con altri grandi dell’epoca d’oro, fatto capitolare le più belle donne, rimaneva impressa sulla carta seppia ingiallita dagli anni, riuscendo nell’impresa di contenere quella magnificenza senza tempo in un quadretto di 20×15.
“E mi ricordo infatti di un pomeriggio triste, io, col mio amico ‘Culo di gomma’, famoso meccanico, sul ciglio di una strada a contemplare l’America, diminuzione dei cavalli, aumento dell’ottimismo. Mi presentarono i miei cinquant’anni e un contratto col circo “Pacebbeene” a girare l’Europa. E firmai, col mio nome e firmai, e il mio nome era Bufalo Bill.”
Le sirene in sottofondo si avvicinavano al quartiere Trastevere, mentre il buio calava sulla sala, almeno per quella sera.
Fantastico, veramente divertente