di Dominique Campete
Copertina di Sante Cutecchia
Marta gli esplose in faccia in tutta la sua terrificante bellezza alle quattro di un pomeriggio di novembre.
Portava i capelli sciolti sulle spalle troppo esili e un cappotto marrone almeno qualche taglia più grande della sua.
«Hai cinque euro?» gli chiese prima ancora di sapere il suo nome.
«Non te li posso dare» le rispose guardandole le dita gonfie per il freddo e quasi senza unghie.
«Lo sapevo» disse lei risentita.
Li aveva presentati un’amica comune che, dopo pochi minuti, era andata via adducendo spiegazioni che lui neanche aveva sentito. Si erano ritrovati davanti a un locale quasi vuoto ed erano entrati in silenzio, come se non gli rimanesse altra scelta.
La sciarpa di Marta aveva strisciato per tutto il locale raccogliendo le gocce di pioggia che tracciavano tremolanti sentieri sul pavimento. Carlo guardava la sciarpa strisciare per terra con addosso una sensazione scomoda, come di pena e rabbia assieme. Ma non fu capace di dire niente: sarebbe stato come voler correggere qualcosa che, invece, doveva andare proprio così.
Quando presero posto a uno dei tanti tavoli vuoti, lei non si tolse il cappotto e neppure la sciarpa che rimase a penderle dal collo con le frange umide di pioggia.
«Paghi tu?» chiese Marta con tono impaziente.
«Cosa ti succede coi soldi?»
«Mi hanno rubato lo zaino stamattina.»
Lui aveva riso in modo troppo forte e spontaneo, obbligandola ad abbassare lo sguardo.
«Ok, ho perso tutto un’altra volta» aveva ammesso Marta sul punto di piangere.
Il suo tono arreso gli aveva scavato il petto così forte da lasciarlo senza fiato.
Guardava le lacrime che si aggrappavano alle ciglia di Marta senza la forza di cadere e sentiva che doveva assolutamente fare qualcosa per metterla in salvo.
«Forse ti posso prestare quei cinque euro» disse, sentendo la sua voce da lontano. Quelle parole erano già una resa, una promessa insensata.
«La conosci da molto Dani?» le chiese solo per trattenerla lì ancora qualche minuto.
Lei scattò in piedi e cominciò a frugare nelle tasche della giacca con un’improvvisa apprensione, mentre i suoi occhi vagavano incerti per il locale, alla ricerca di un punto su cui appoggiarsi. Tirò fuori un orologio da polso fucsia e lo posò sul tavolino.
«Hai fretta?» le chiese Carlo sentendosi già un po’più solo.
«Dani l’ho conosciuta pochi giorni dopo la morte di mia madre» sussurrò Marta tornando a sedere.
E anche se lui non sapeva quando fosse mancata sua madre, le disse:
«Anch’ io la conosco da poco.» Era certo che i suoi occhi avessero guardato in faccia la morte da troppo poco tempo.
E così, da quel giorno, avevano cominciato a vedersi ogni martedì in quel bar che sembrava rimanere aperto solo per loro. Carlo arrivava sempre mezz’ora prima di lei; alle volte si vergognava di stare lì così tanto tempo ad aspettarla, allora usciva, fumava un paio di sigarette sull’angolo opposto della strada e, quando mancavano pochi minuti, rientrava al bar e occupava il solito tavolino. Non ce la faceva ad arrivare dopo di lei, pensava che per Marta fosse importante sapere che ci fosse qualcuno disposto ad aspettarla ogni martedì. Lei arrivava sempre di corsa, ma poi tergiversava qualche secondo di troppo prima di entrare. Le sorrideva dal vetro appannato del locale e lo salutava con la mano ma, una volta dentro, era già più triste. Sembrava che l’allegria non le si appiccicasse addosso per più di quindici passi. Piazzava l’orologio tra loro e gli chiedeva di scegliere un tè, ma non voleva che ordinasse lo stesso per tutti e due.
«La cameriera potrebbe pensare che non abbiamo fantasia» aveva detto in uno dei loro primi incontri. Sembrava che questa ipotesi la preoccupasse davvero.
Di solito non parlavano molto, sorseggiavano il loro tè in silenzio e poi Carlo cominciava a leggerle un paio di poesie prese da un libretto che si portava sempre appresso. Era stata Marta a chiedergli di farlo, diceva di avere nostalgia di qualcuno che leggesse per lei e che un giorno avrebbe chiesto alla cameriera di spegnere la luce per ascoltare la voce di Carlo al buio.
A volte, dopo aver terminato di leggere una poesia d’amore o di speranza, Carlo alzava lo sguardo e si imbatteva nella nebbia umida dello sguardo di Marta che era capace di starsene a fissare il nulla per interi minuti. Per lui, guardare Marta che guardava il nulla, rappresentava un momento così intimo e speciale che, quando alla sera ci ripensava, gli veniva quasi da piangere.
Altre volte, nel bel mezzo di una poesia che accennava alla morte o al dolore, Marta scoppiava a ridere e poteva andare avanti anche un intero minuto. Lo spaventava a morte in quei momenti, sentiva che era del tutto fuori controllo e non sapeva come gestirla. Osservava come quella risata eccessiva le trasformasse il viso, stravolgendo i suoi lineamenti, rendendoli più ordinari, più volgari e avrebbe potuto batterla con forza per farla smettere.
Dopo circa un mese dal loro primo incontro Carlo le aveva chiesto se poteva riaccompagnarla a casa o in qualunque altro posto fosse diretta, ma lei aveva rifiutato scrollando con energia il capo. Aveva detto che le metteva l’ansia camminare con qualcuno di fianco perché non sapeva sintonizzare i suoi passi con quelli dell’altro. E poi perché odiava il suo profilo, specie quello sinistro.
Quando era arrivata l’estate, Marta non aveva smesso di presentarsi con la sciarpa di lana dalle frange lunghe, dava l’impressione di essere una che sentisse sempre freddo. Al posto del cappotto metteva su una giacca di pelle che le arrivava quasi alle ginocchia, Carlo era certo che fosse una giacca da uomo, ma il solo pensiero gli faceva così male che non riusciva a trattenerlo per più di qualche secondo.
E poi un giorno di primavera Marta si ruppe. Era seduta di fronte a lui e si tormentava la pellicina delle dita sollevandola con il cucchiaino del tè, mentre Carlo leggeva le ultime due poesie del libretto grigio della biblioteca. Quel giorno non aveva messo l’orologio tra loro e non aveva bevuto neanche un sorso del suo chai. A metà della seconda poesia Carlo sentì un rumore sordo provenire dalla pancia o dal petto di Marta, come di ramo spezzato, di ossa rotte. Marta si era incurvata e aveva intrecciato le mani sul ventre, come a voler contenere quell’esplosione interna. Il suo viso pallido aveva tremolato qualche secondo restituendogli l’immagine di un paesaggio offuscato, di una fotografia fuori fuoco.
Non era stato capace di dirle niente, anche se sapeva che non l’avrebbe più rivista. Forse Marta, fin dall’inizio, si era data una scadenza per i loro incontri: terminato il libro di poesie sarebbe sparita per sempre.
Quando era tornato l’autunno, Carlo aveva ricominciato ad andare a sedersi nello stesso bar, pensando che Marta sarebbe potuta riapparire di colpo, con la sua sciarpa troppo lunga e le dita gonfie dal freddo. Ma lei era davvero sparita nel nulla e niente aveva la forza di provargli che si fosse mai seduta con lui a quel tavolo.
Un giorno aveva incrociato Dani per strada, lei gli aveva fatto cenno di fermarsi, ma lui aveva finto di non capire e si era allontanato di corsa: aveva il terrore che potesse avere notizie di Marta. Qualunque esse fossero, preferiva continuare a pensare che lei non fosse mai esistita, che avesse immaginato tutto. Anche se, quando rimaneva al buio, il rumore di Marta che si rompeva gli picchiava nelle orecchie e nelle tempie facendogli lacrimare gli occhi fino a inzuppare il cuscino.
Struggente e delicato al tempo stesso. Ritrae due ombre che riusciamo a vedere con chiarezza, nei loro miseri dettagli e imperfette esistenze.