di Alice Scudieri
Copertina di Sante Cutecchia
Scrivere, scrivere, vuole disperatamente scrivere.
Scrivere per essere letta, per il brivido di avvertire le voci interiori di sconosciuti scandire in silenzio le parole a cui lei ha dato forma.
Voglia di fama, ne vuole un pezzo anche lei, piccino eh, ma pur sempre una scheggia d’osso da conservare per dire “anche io ci sono stata, ci sono”.
Scrivere, ma di cosa? Tutti sembrano avere qualcosa da dire, tutti che aggiornano i loro stati sui social, tutti che esprimono opinioni, commentano notizie. Da dove tirano fuori tante parole?
Lei rimane seduta, in silenzio, il telefono di marca cinese nella mano sinistra, lo schermo retroilluminato su cui scorrono i tentativi di gloria degli altri. Il pollice destro non si ferma, tocca tocca tocca, immagini e parole che passano, senza che lei riesca a soffermarsi davvero su qualcosa.
Sta al finestrino di un treno immobile e guarda e aspetta.
Di cosa può scrivere? Continua a chiedersi senza che una sola dannata voce le risponda.
Della vita, no? Ma lo dice ridendo, quella stronza che parla sempre nel momento sbagliato.
Tutti viviamo! Lei rimane in silenzio, prova ad afferrare la penna, apre il quaderno, la pagina color crema del taccuino, nuovo da cinque anni, aspetta. Allora? Le domanda con poco garbo, ma i quaderni da scrittori non sono mai delicati, li stampano con la boria e quel maledetto aspetto vintage che vuole farti credere che sarai anche tu come Hemingway, invece sei solo un’inutile ragazza di provincia – no, non di una periferia americana né di un’area rurale del midwest piene di disagio e sentimento, ma di un patetico paesello italiano di diecimila anime, con un nome bizzarro e una storia che arriva solo agli anni ’60, case tutte brutte uguali e anziani che bucano i palloni ai bambini e stanno in piedi davanti ai bar.
Allora? Il taccuino sembra impaziente. Mi spieghi che cazzo hai da fare? Non si dà nemmeno la pena di chiuderlo prima di scagliarlo contro la parete. Sul muro rimane una striscia nera, la copertina di pelle lucida ha fatto il suo sporco lavoro, il vaffanculo invece si dissolve subito, inodore e incolore come le radiazioni e altrettanto tossico.
La ragazza prende il cellulare ed esce. Vai a cercare le storie fuori!
Appoggia una mano alla porta e le salta negli occhi un colore. Siamo in zona rossa, pensa, la mano sempre sulla maniglia ma immobile come gesso.
Ma dove voglio andare, eh? Tutto è fuori, ma io sono dentro, io e il vuoto, la riga sul muro, il cadavere del quaderno a terra in un lago di sangue invisibile, l’odore stantio delle case vecchie.
Apre tutte le finestre, prova a sentire le voci fuori, prova a catturare qualche pesce che si avventuri in quelle acque. Sente un uomo urlare da una casa vicina. Le bestemmie sono le uniche parole comprensibili.
Scrivere, scrivere, la voce nella testa della ragazza è diventata una litania religiosa. Scrivi una storia, dai! Prendi le urla di questo disperato e facci qualcosa!
La finestra è ancora aperta, e lei sente mancarle l’aria. Si lascia cadere sulla poltrona, il telefono è proprio lì accanto. Lo prende e comincia a scorrere le vite degli altri e di nuovo la valanga di parole, commenti, opinioni, storie, le si rovescia addosso.
Apre il suo stato, sta per digitare qualcosa, il pollice sfiora una lettera, ma quando compare sullo schermo, fa paura. Cancella. Posta il bianco, non c’è niente che riesca a scrivere.
Ma sei scema? Parla della pandemia, no? Non è forse questa la Storia, adesso? La stronza sembra avere sempre la soluzione, tutto facile per lei. Scrivi tu allora, visto che sei tanto brava!
Ora la ragazza risponde, è stanca di farsi dire cosa fare, pare che tutti abbiano soluzioni non richieste, tutti son diventati guru della realizzazione personale, tutti esperti di ogni ambito dello scibile, tutti artisti in un mondo di arte populista.
A me non frega un cazzo di scrivere né di essere riconosciuta, ecco la differenza fra me e te, non ho bisogno che gli altri mi sentano per sapere che ci sono.
La ragazza si guarda intorno, la casa sembra annuire, con gli oggetti comprati per rispondere a un imperativo estetico che ora le appare sciocco, i libri posizionati per essere guardati, una stampa di John Lennon che parla della felicità come senso della vita.
E lei infelice, perché non riesce a scrivere.
Afferra il telecomando mentre le onde si fanno sempre più alte, e si sente al sicuro, stanca, terribilmente stanca, ma al sicuro. Passa tre ore della sua giornata a guardare a ruota puntate di una serie Netflix che parla di grandi conquiste di donne.
Scrivere, scrivere, lo sente ancora risuonare nella testa, ora però è solo un sottofondo, il lieve gracchiare di una stazione radio che non si riesce a sintonizzare.
Guarda fuori dalla finestra: il sole è già dietro i palazzi, il cielo si sta sporcando di blu; sente la chiave girare nella serratura. Il suo compagno entra, il volto segnato da un’altra giornata passata a svuotare scatoloni, riempire scaffali, indicare la corsia del bicarbonato e del lievito di birra.
La saluta con un bacio, come sempre. Come è andata la tua giornata?
Non ha visto la riga sul muro, non si accorge del quaderno ancora abbandonato sul pavimento. Guarda solo lei, e la luce della sera che le fa da cornice. Lui non conosce Hopper, ma lei sembra un quadro, immobile e solida, circondata da un’ombra nerissima, l’espressione congelata e persa, chissà dove.
Avrei voluto scrivere, vorrebbe dirgli, ma non ci sono riuscita. Le ore mi sono scivolate tra le dita e io sono rimasta qui, esattamente come mi hai lasciata, un’immagine fissa.
Ti sei sentita sola? La sua premura è una mano calda mentre uno spiffero gelido entra dalla finestra rimasta socchiusa. Non si è mai sentita così sola però.
Scrivere, scrivere, ma non riesco a farlo e non so più dove sono io.
Lui non capirebbe, l’amore non è fatto per comprendere. Abbraccia e basta.
La ragazza non ha parole per spiegare che ha bisogno di scrivere per sentire di esistere. Lui la stringe, la sente tremare, pensa sia il freddo della solitudine, l’ansia della pandemia, la famiglia lontana che non vede da mesi, la casa che le si è stretta attorno con le sue sbarre di lino ricamate dalla suocera.
Ma lei vuole scrivere, scrivere, per poter dare un senso al tempo che scorre, dargli una misura, un contenitore, da riaprire poi dopo anni magari, e dire “eccomi”.
Tesoro, guardati e sii onesta: che cazzo hai di interessante da raccontare? Tossicodipendenze? Manie ossessive? Viaggi esotici? Incontri esoterici? Omicidi? Storie lesbiche? Ricordi di bullismo? Memorie psichiatriche? Bizzarrie varie ed eventuali?
No. Tua madre impiegata alle poste, tuo padre in banca, sposati felici da trent’anni ormai, fidanzatini delle superiori in un paese della bassa padana, dove sei cresciuta anche tu, tra domeniche all’oratorio e feste patronali con le giostre e le patatine fritte. Le uscite con le amichette, poi il liceo, sogni di gloria che scrivevi nel tuo diario con la copertina lilla e il piccolo lucchetto a forma di cuore. Scrivevi, scrivevi, scrivevi tanto allora, patetici resoconti delle tue fantasie a occhi aperti, melense poesiucole che nessun ragazzo avrebbe voluto leggere, e come ne eri fiera!
Scrivevi, scrivevi, scrivevi e conservavi la memoria di quell’azione meccanica come il segno della tua elezione segreta a suprema sacerdotessa della Musa, solo tu, in mezzo a tutte le tue mediocri compagnie, solo tu, l’Eletta! Guardati ora, gettata sul divano, il telecomando in una mano e nell’altra il telefono, e dimmi cosa vedi.
La voce della stronza esplode nella stanza, ma lui non si accorge di nulla, mentre la tiene ancora stretta, solo un lieve tremore che assomiglia quasi a un respiro.
La stronza ride, la ragazza sente i denti battere e stridere come unghie su una lavagna.
Tiene ancora la penna in mano, mentre se ne sta abbandonata nelle braccia del suo fantasma di normalità, il lieve odore sudaticcio che le ricorda le ore passate a vivere come tutti gli altri, il fastidioso richiamo della consuetudine.
Non c’è niente da scrivere tra queste braccia, dove sono le storie nelle ore passate solo ad esistere?
Il tremito si fa più intenso, lui aumenta la stretta, la sente farsi sottile, le sue sembianze dissolversi come per un’interferenza del segnale; ma che succede? Non posso lasciarla andare!
La penna è una vecchia stilografica, appuntita e lucente, l’unico oggetto solido in tutta la stanza, non vibra, non sbiadisce, nella molle luce casalinga riluce di bagliori gelidi.
Lei pensa alle stelle ormai morte e alla loro immagine falsa nel cielo.
La mano si muove, colpisce al collo.
La stilografica sporca di rosso. Gorgoglii di acqua sporca e terrore.
Lui la guarda, nel pozzo degli occhi spalancati avverte forte lo sciacquio delle parole, ribollono nel buio, sono là che aspettano.
Ma ora lei le sente. Raccoglie il quaderno, la penna non ha mai lasciato la sua mano.
Si siede e scrive, scrive, scrive.