di Antonella Garofalo
Copertina: Natura mossa – Antimonio
Introduzione
Carlo Martello
Quando è nata Malgrado le mosche, nemmeno si chiamava così, l’idea principale era quella di provare a rendere narrativi dei testi concepiti per non essere dei racconti. L’idea è naufragata, Malgrado le mosche ha preso altre direzioni, ma il desiderio di far circolare dei testi liberi dagli orpelli e dalle abitudini di chi scrive racconti oggi in Italia – con le numerose eccezioni che pure ci sono -, quel desiderio mi è rimasto. Finalmente, grazie al lavoro di Antonella Garofalo, questo desiderio prende forma. Non è volutamente una forma perfetta, come perfette non sono le nostre esperienze, né i nostri ricordi. Non si tratta, evidentemente, di avere dei testi autobiografici; la letteratura è piena di testi autobiografici, in un certo senso è una delle mode letterarie del momento, detto senza alcuno snobismo. Il tentativo, riuscito o meno non possiamo stabilirlo noi, è invece quello di sperimentare una forma diversa, mi spingo a dire diversamente letteraria e allo stesso tempo consapevole del mondo che ci circonda; una forma, in questo specifico caso, più centrata sul discorso e sul rapporto con le lettrici e i lettori e meno invece sulla riflessione meta-testuale. Trovo che questa attenzione rivolta a chi legge sia fondamentale in questo periodo storico e la potenza del testo di Antonella sta anche nella sua utilità, nel suo essere un testo disponibile a essere reso pratica, non solo racconto. L’idea, in altri termini, è provare a stare nello spazio tra la letteratura e la politica, senza rinunciare né all’una, né all’altra. L’esperienza e i ricordi, le riflessioni, financo le note, il lavoro di Antonella come arbitra di softball, dagli inizi di carriera fino alle Olimpiadi, è quindi, oltre che un racconto appassionante da leggere, un regalo politico e in ultima istanza umano che Antonella ha fatto a Malgrado le mosche e a chi vorrà leggere questa avventura. Potevamo farlo meglio? Sicuramente. Ci proveremo le prossime volte.
Parte 1
Tutti gli arbitri hanno un ego enorme da gestire. Tutti e tutte, e io non facevo eccezione, in qualche modo contorto.
I più scarsi pensano che scendere in campo a dirigere una gara sia dunque una faccenda di potere. Non importa quanto certi arbitri siano incapaci: penseranno a sé stessi come a una benedizione per lo sport e per le atlete che avranno a che fare con loro. E non c’è valutazione, rapporto, lista di appartenenza, bocciatura che possa far credere loro il contrario.
I migliori imparano a mettere quell’ego al servizio del gioco. L’esaltazione di sé stessi passa attraverso l’approvazione degli altri. I migliori imparano osservando, sempre, anche quando le partite contano zero, imparano dagli altri colleghi più esperti, imparano da chi gioca, da chi allena, imparano e non smettono mai di imparare. Nella ricerca dell’eccellenza tecnica quel che conta è stare una spanna sopra a tutto e a tutti. Per questo tipo di arbitro l’anonimato di una gara ben diretta che tuttavia non abbia situazioni difficili da sbrogliare o fasi di gioco drammatiche da dominare è una prospettiva poco desiderabile. Ai migliori non basta arbitrare bene. I migliori vogliono un palcoscenico su cui brillare, seppure nel rispetto dei ruoli.
Parte 2
Nel 1997 fui ammessa a partecipare al corso per ricevere la qualifica ESF 1 solo perché un arbitro di Bologna rinunciò. Non era la prima volta che accadeva, che una opportunità mi venisse data solo dopo un rifiuto di qualcun altro.
Arbitravo dal 1982. Nel 1984 avevo passato con un buon punteggio il Corso Passaggio ad Arbitro Effettivo.
Nel 1986 ero ancora un arbitro di softball di Serie B, arbitravo molto a livello regionale e le gare che mi venivano assegnate a livello nazionale non erano neanche particolarmente prestigiose. Fu allora che un collega nettunese rinunciò a partecipare a uno stage in Canada. Dunque trascorsi una settimana a Toronto, con gli istruttori del Softball Ontario che ci trattavano come alieni pieni di buona volontà (quello eravamo, in definitiva).
Non era la prima volta e non sarebbe stata l’ultima, nemmeno durante quel corso del 1997: la mia “carriera” avrebbe preso ancora direzioni inaspettate a causa di una crepa, di un varco, di uno spazio lasciato libero in cui mi sarei infilata cercando di dare il massimo.
A Toronto avevo 20 anni appena compiuti.
Al corso del 1997 arrivai prima davanti ad altri ottimi colleghi. Ero stata “raccomandata” dai colleghi nettunesi, fu detto (ma invece proprio la presenza di già tre arbitri internazionali del mio paese aveva sconsigliato la mia partecipazione in prima battuta). Avevo ricevuto particolari attenzioni dall’istruttore, fu detto anche. E poco importava fossi abbastanza palesemente NON interessata al genere maschile (convivevo già con la mia compagna di allora, anche se non ero per niente affatto out&proud): il mio essere femmina mi aveva dato un vantaggio, si disse.
Ammesso fosse vero (non lo era): io non lo avevo mai chiesto.
Parte 3
Però raccomandata lo sono stata eccome. Nel 1986, quando il mio collega di Nettuno rinunciò al corso in Canada, fu un altro nettunese, parte del Consiglio Direttivo del Comitato Nazionale Arbitri, a imporre il mio nome, battendo i pugni sul tavolo senza voler sentire ragioni: a Toronto dovevo andare io. Poco importava fossi giovane, poco importava fossi ancora un arbitro di Serie B.
Franco, si chiamava quel signore. Rispettato e temuto. Burbero. Ex arbitro di baseball di una famiglia che a Nettuno rappresentava allora e ancora oggi una vera e propria istituzione: suo fratello allenatore della squadra cittadina pluricampione d’Italia e anche della Nazionale, un altro suo fratello decano degli Scorer2 italiani, un altro suo fratello ancora (collega di ufficio e caro amico di mio padre) il mio padrino di battesimo che poco o nulla aveva a che fare col baseball ma insomma la stirpe era la stessa. A quest’ultimo, peraltro, devo il nome, la cui scelta i miei – va’ a capire perché – affidarono a lui.
Franco due anni prima aveva accolto con piacere il mio buon risultato al corso Passaggio Effettivo, Centro Coni di Tirrenia, febbraio 1984. Proprio in quella settimana la mia quinta liceo scientifico organizzò la cena dei cento giorni. Io fui irremovibile: prima l’arbitraggio. E sì che avevo un legame di profonda amicizia e complicità con i miei compagni di scuola, che proprio non capirono la scelta. Non so se me la perdonarono. Ma lo racconto solo per dire che c’è questo dietro ai risultati. Rinunce. Direzioni diverse. Roba invisibile sotto i riflettori.
Quando guardo gareggiare atlete ed atleti ad alto livello, so per certo che tutte loro hanno lasciato indietro qualcosa, amicizie, domeniche al mare, fidanzate, tutto. Tutto viene dopo, quando c’hai dentro una cosa che manco tu lo sai cos’è. Sacrifici che scompaiono quando poi esci dal campo e sai di avere dato il massimo. È così anche per chi arbitra.
Franco decise che io sarei stata un arbitro di softball. Non di baseball. Di softball. Perché ero una femmina. Ed era fuori discussione che io potessi arbitrare il baseball. Una femmina arbitrerà uno sport di femmine.
La mia amica Eretica molti anni più tardi mi disse “Il paternalismo non è mai gratis”. A me sarebbe servita allora, quella parola, perché non ne avevo idea. Non mi sembrava giusto. Ma non avevo scelta. Tutto sommato ero convinta che si fosse deciso così per il mio bene. Non mi opposi, dunque. E il softball, poi e grazie alla vicinanza di colleghi/amici, fu una gran cosa. Una gran bella cosa della mia vita.
Parte 4
La mia prima designazione europea arriva subito dopo la qualifica ottenuta (cosa non scontata) ed è per un torneo di livello: a Praga andrò ad arbitrare gli Europei Juniores. Si gioca su tre campi in un quartiere senza vocali: Krč.
È l’estate del 1998. Non c’è internet, spendo un piccolo capitale per telefonare in Italia, usando il telefono fisso dell’hotel.
La prima sera nella hall c’è Jacques, il belga della Commissione Tecnica. Mi squadra da capo a piedi e decide seduta stante che l’esemplare di arbitro donna che ha davanti è di suo gradimento. Rivolgendosi al suo collega italiano, Enrico, parla direttamente con lui, di me, come se non fossi là, come se fossi un pezzo dell’arredamento. Dice una cosa tipo “E questa dove l’hai pescata?”. Lo dice ammiccando. Lo dice in inglese, sotto i baffi da tricheco. Enrico è in imbarazzo, così rispondo con un largo sorriso, in inglese, presentandomi, dicendogli che sono di Nettuno, come altri miei colleghi che sicuramente conosce. Rimane interdetto. Forte del suo pregiudizio aveva deciso che non ero in grado di capire e che non sarei stata in grado di replicare. Ma io fui gentile con lui, perché mi sentivo l’ultima arrivata. E lo ero. Era il mio torneo di esordio. L’atteggiamento di questo influente personaggio nei miei confronti cambierà solo dopo avermi vista in campo. Gli uomini sono competenti e mai fuori posto fino a prova contraria. Le rare “arbitresse”, invece, dovevano dimostrare di non essere solo le simpatie particolari di qualcuno in posizione di potere.
Fui designata arbitro capo (plate umpire) sia nella finale femminile che in quella maschile.
Dopo la fine del torneo l’Umpire in Chief stilò un report e accadde una cosa abbastanza fuori dall’ordinario: venni “promossa sul campo”. Mi assegnarono la qualifica ISF3 direttamente dopo il torneo. L’Umpire in Chief, Pavel, era un ceco di poche parole, competente, baffi e occhi chiari. Oltre alla segnalazione alla International Softball Federation, Pavel fece altre due cose importanti, per me, in quel torneo. Mi prese da parte dopo che i due arbitri olandesi, per due giorni filati erano venuti da me dopo le gare a dirmi come avrei dovuto fare questo e non quello, di come sarebbe stato meglio fare quest’altro e quest’altro, eccetera (in inglese c’è un verbo per tutto questo: patronising), mi prese da parte: “They think they can teach the world” mi disse. E disse anche che però c’era nulla che io dovessi imparare da loro, semmai il contrario, e mi chiese di smettere di ascoltarli. L’altra cosa fu chiedermi una sera, davanti alla solita Pilsner Urquell di fine giornata “dove eri stata tutto questo tempo?”. Intendeva dirmi perché ci avevo messo tanto per fare il mio esordio internazionale. Oggi come allora la risposta mi pare complicata.
Praga nel ’98 non era ancora la capitale gentrificata e iper-turistica che sarebbe diventata di lì a poco. Maria, praghese ex giocatrice e anche lei nella commissione tecnica del torneo, mi raccontava di quando era ragazza, di quando anche solo per parlare di letteratura o di musica con amici, davanti a un caffè si bisbigliava, perché non sapevi mai quali orecchie erano in ascolto e quali cose sgradite al regime sarebbero potute essere notate e riferite. Di come tutto questo, per fortuna, fosse passato; sua figlia non avrebbe dovuto sopportare nulla del genere.
Con Enrico visitai il Castello e Piazza San Venceslao, col memoriale di Jan Palach Mi ricordo di avergli detto, nelle nostre lunghe chiacchierate, di credere che solo le rivoluzioni cambiano la storia. In questo non sono cambiata (lo credo ancora), in tutto il resto, probabilmente e per fortuna, sì.
Parte 5
Quando parlavo ai corsi, tra le altre cose a effetto dicevo spesso una cosa tipo “per fare un atleta di livello, se la base è buona, ci possono volere magari tre anni, cinque, ma un arbitro non è mai ancora veramente tale prima di dieci anni”. Perché puoi avere talento, conoscenza tecnica, buona forma fisica (che nel baseball/softball tiene conto di variabili che non sono le stesse di altri sport: le sollecitazioni estreme alle articolazioni, la corsa limitata e a scatti, più torsioni che resistenza, la corazza protettiva sotto la camicia, che con le protezioni a caviglie, stinchi e ginocchia da indossare a casabase aumentano a dismisura la temperatura corporea, tra le altre), ma queste cose bastano appena. C’è la capacità di “leggere” la gara, la capacità di concentrazione, la gestione delle proteste (è uno dei pochi sport in cui i coach possono chiamare tempo, venire da te e chiedere spiegazioni del tuo operato), la gestione del tempo di gioco (non c’è cronometro nel softball/baseball, ma solo un “metronomo umano” e sei proprio tu, l’umpire4), la capacità di elaborare un numero impressionante di informazioni uditive, visive e di visione periferica contemporaneamente (esempio: con il bunt5 in corsa devi tenere sotto controllo lancio, zona strike, piedi del battitore nel box, l’impatto mazza-palla, seguire e valutare esito della battuta; o invece il mancato impatto, stabilire se c’è stato tentativo, assegnare dunque lo strike o no, ecc.), la capacità di capire quando è il caso di consultare il collega e correggere una chiamata (capire se questa cosa ti farà perdere il controllo della gara o te lo farà riguadagnare) e tante, tante altre cose ancora. Tutto questo può arrivarti solo con l’esperienza di un numero adeguato di gare dirette e una buona intelligenza emotiva.
Che succede dunque nel frattempo? In quei dieci anni succede che fai un sacco di cazzate. Succede che leggi male le situazioni, che un giorno non sei al massimo della concentrazione o della forma e arrivi in ritardo sul gioco di toccata, succede che applichi male una regola, che rispondi scompostamente al coach che ti contesta e magari reagisci così perché sai che ha ragione, che quella chiamata l’hai proprio toppata, dannazione, succede che la tua zona di strike fa schifo, che non ti riesce di aggiustarla, che stai sbagliando un numero vergognoso di lanci6, rischiando di condizionare pesantemente la gara.
Sembra che io voglia “raccontare dei successi e dei fischi non parlarne mai” (cit.) come se non avessi mille ferite e sconfitte nella mia storia. Non è così, invece ed evidentemente, sono una sopravvissuta. Tutti gli arbitri lo sono. Non so come o perché ho deciso di continuare ad arbitrare dopo quella volta in cui ho pianto di paura e smarrimento in campo, dopo la mia prima espulsione (la giocatrice era Claudia Fassina, che mi avrebbe volentieri pestata). O dopo che una ragazza del pubblico, ad Ustica, mi seguì fin dentro gli spogliatoi, spalancando con un calcio la porta di metallo, anche lei decisa a darmi una lezione: se ne andò solo perché le urlai contro piangendo che almeno io per il softball stavo facendo qualcosa di più che vomitare insulti da dietro una rete a chi non poteva risponderle. O dopo quelle tante tantissime volte in cui non una folla inferocita, ma una singola persona si metteva giusto seduta alle mie spalle e mi bersagliava con insulti (spesso sessisti, certo) in maniera sistematica, ossessiva, per tutta la durata della gara e tu non ascolti davvero, hai imparato a non farlo, ma quella voce diventa poi fenomeno carsico e riaffiora dopo aver scavato nel profondo, erodendo le tue sicurezze, alla prima occasione. Tipo al mio esordio in Serie A, sul diamante dell’Acqua Acetosa, a Roma, dove la mamma delle mitiche sorelle Ramieri mi gridava in continuazione, tra le altre cose “non sei da Serie A, ringrazia chi te c’ha messo oggi su ‘sto campo e vatte a ripone”.
Ho capito solo tanto tempo dopo che noi arbitri siamo tutti dei sopravvissuti. L’ho capito grazie a cose che col softball hanno poco a che fare, forse. O forse no. Forse il femminismo c’entra molto più di quanto piacerebbe pensare, in tutto questo.
Parte 6
Olanda, Repubblica Ceca, Spagna, Canada, Australia, Grecia, il softball mi ha fatto fare viaggi che probabilmente non avrei mai fatto, o che non mi sarei potuta permettere.
Ma prima, e per me più importante ancora, il softball mi ha portato in posti di un’Italia forse difficile da immaginare: campi di ogni tipo, ricavati da campi di calcio, campi aridi e durissimi o perfetti diamanti in terra rossa; erba secca e cattiva o verde splendente e rasata alla perfezione, campi di grandi città o di paesi piccoli o piccolissimi. Su tutti e ognuno di quei campi la stessa infinita passione.
Catania, Palermo, Ustica, Reggio Calabria, Foggia, Napoli, Caserta, Ascoli Piceno, Francavilla a Mare, Montesilvano, Macerata, Porto Sant’Elpidio, Cupramontana, Perugia, Roma, Acilia, Viterbo, Firenze, Sesto Fiorentino, Pisa, Livorno, Lucca, Massa, Capannori, Cagliari, Iglesias, Nuoro, Rimini, Forlì, Bologna, Casteldebole, Pianoro, Modena, Langhirano, Parma, Genova, Albissola Marina, Legnano, Saronno, Bollate, Caronno Pertusella, Verona, Bussolengo, Trento, Ronchi dei Legionari. E chissà quanti me ne dimentico, con la mia memoria da pesce rosso.
Questo viaggio ideale da nord a sud (e isole spesso protagoniste: ci fu un momento in cui la Sicilia aveva mi pare quattro squadre in Serie A e noi del gruppo nettunese eravamo i più “vicini” da designare laggiù: mi innamorai di Palermo senza ritegno e per sempre, ovviamente) mi serve solo per spiegarvi cosa ha plasmato la mia idea di “sport”.
Quando oggi sento i discorsi di chi vorrebbe escludere le donne trans dalle competizioni femminili penso esattamente a quei viaggi, alle centinaia di persone incontrate, alle esperienze di viaggio tra le più diverse (auto, treni, bus, aerei, taxi, traghetti, aliscafi!), al fatto che su quei campi c’era gente che pagava di tasca propria trasferimenti, soggiorni, attrezzatura, tasse gara, gente che viaggiava di notte e scomodamente per risparmiare sul pernotto, mangiando panini e che però non avrebbe saputo immaginare weekend più belli di quelli. Tante volte ho assistito alla narrazione delle storie di queste trasferte da giocatrici e dirigenti, che raccontavano della fatica e dell’allegria.
Se date ascolto a chi vorrebbe escludere le donne trans dagli sport femminili vi accorgerete che di questo tipo sport non sanno niente. Niente. Pensano ci sia qualcosa da “rubare”, non pensano mai a un mondo da condividere. Alla gioia, alla follia, alla insensata felicità che certo sport minore ti può dare, senza che ci sia nulla di speciale in palio.
Sono stata per lungo tempo una eccezione: quando ho iniziato le arbitre erano rare. Ero in qualche modo d’intralcio in molte cose: spogliatoi coi turni, per dirne una (qualche volta finivo per fare la doccia con la squadra di casa, se dovevamo affrettarci e se mi invitavano a farlo, io in imbarazzo nero), in caso di trasferta lunga lo svantaggio di dover prendere stanze separate in hotel (tranne con gli amici-amici, Pippo e Mauro hanno quasi sempre condiviso la doppia con me). Cose così. Eppure le cose sono cambiate. Le cose cambiano. Quando leggiamo articoli pieni di bugie e falsità sulle atlete trans dovremmo ricordarcene. Ricordarci di immaginare uno sport di base che abbatte le barriere, anche quelle di genere. Perché questo dovrebbe fare lo sport, prima di ogni record, medaglia, contratto milionario, olimpiade scintillante.
Parte 7
La mia designazione alle Olimpiadi di Sidney fu una scelta “politica”: la federazione internazionale mi scelse perché ero una donna.
L’ho sentita ripetere tante di quelle volte questa cosa qua (e altrettante volte la ripetei anch’io) che finì per diventare vera. Una “verità” che finì per cancellare tutto quello che c’era stato prima e che mi fa dire invece oggi, più di venti anni e tante riflessioni dopo: arrivai alle Olimpiadi nonostante fossi una donna.
Intendiamoci, la federazione internazionale aveva davvero puntato a un pinkwashing estremo, nel tentativo di preservare il softball, e sbattere in faccia al CIO una palese contraddizione: l’organismo mondiale sottolineava ovunque la sua attenzione (parziale, ipocrita, strumentale) allo sport femminile, dall’altra decideva di eliminare il softball dai Giochi. La ISF dunque decise che era venuto il momento di usare le donne come armi al massimo del loro potenziale: signori! non solo il softball è uno sport giocato da donne, signori, ma è allenato, presieduto, persino arbitrato da donne, signori! La crew olimpica di cui fui parte aveva una vice capo arbitri donna, coach donne nelle otto squadre qualificate, e donne erano la maggioranza degli umpire dai cinque continenti. Sette su dodici. Io tra quelle, dall’Europa insieme alla collega olandese. Poi Canada, Portorico, Cina, USA, Australia.
Arrivò dunque la mia designazione per Sidney e fu un’altra crepa del sistema: arbitrai un torneo di qualificazione olimpica onesto ma non straordinariamente brillante e avevo davanti tutti gli arbitri internazionali italiani, con più esperienza e curriculum di me; poi però una gara che in teoria non doveva contare granché, Belgio vs Gran Bretagna, si rivelò decisiva per stabilire chi avrebbe affrontato l’Italia nel suo cammino verso la finale. Io ero arbitro capo, c’era una gran folla e io non so perché quel pomeriggio ero in stato di grazia, dietro il piatto di casabase. Sbagliai poco, quasi nulla, tenendo sempre il controllo delle situazioni complicate. Riempii quello spiraglio con una prestazione di livello.
Arrivare alle Olimpiadi nonostante donna. Nonostante avessi dovuto affrontare da subito gli sguardi scettici, curiosi, seccati, mai neutri di una buona maggioranza di coach, quando arrivavo sui campi.
Il mio debutto assoluto fu una partita della Categoria Ragazzi Baseball, estate 1982. Ho 16 anni. Campo San Giacomo, quello della parrocchia che non esiste più, tutta polvere e nettunesità. Quando arrivo c’è uno dei piccoletti che letteralmente sgrana gli occhi ed esclama smarrito e deluso “una femmina?!?” e dentro quella domanda di un innocente il fastidio di chi pensa, ma come io sto qua che mi impegno al massimo per una cosa serissima e questi invece ci fanno lo sgarbo di mandarci un arbitro femmina. La voce dell’innocenza, senza filtri, aveva già stabilito i limiti della mia azione in questo nuovo ambiente.
All’inizio, col baseball giovanile e di Serie C sarà quasi sempre così, allo scambio degli ordini di battuta non so quanti sorrisetti e richieste del tipo “ma la devo chiamare arbitressa?” o – quelli con meno freni inibitori – in un ghigno: “delle donne mi fido poco dunque veda un po’ lei”.
Nonostante. Nonostante mi ricordo un giorno, anni dopo, ero in ufficio, mi arriva la telefonata del designatore e mi chiede se per me va bene essere designata con Vincenzo ovvero l’arbitro con cui due settimane prima avevo arbitrato ad Ustica. Questo arbitro aveva chiamato il designatore pregandolo di assegnargli una nuova partita in coppia con me, poi avrebbe affittato un camper e sarebbe passato a prendermi per poi raggiungere insieme la destinazione di gara.
Vincenzo lo avevo incontrato una prima ed unica volta ed eravamo entrambi arrivati a Ustica il sabato, lui da Palermo, io la solita passeggiata: Nettuno, Roma Fiumicino, Palermo Punta Raisi, taxi fino al porto e poi aliscafo. Le gare sarebbero state giocate la mattina successiva su quel campo incredibile che aveva come sfondo, oltre la (presunta) linea di fuoricampo, il mare più azzurro e bello che io abbia mai visto. Ma c’era la festa di San Bartolo e la sera uscimmo a fare due passi. Gente in festa, panini con la meuza, birrette. Ci sedemmo a chiacchierare su un muretto, cordialmente. Andammo a dormire presto. Arbitrammo le due gare. Ripartì, ripartii, ripartimmo.
Andrea, il designatore, trovava divertentissima la situazione e rideva assai nel chiedermi se il camper sarebbe stato di mio gradimento. Io lo so che non rideva di me: rideva del tizio, della sua illusione della mia disponibilità, di quel goffo tentativo di questo uomo, né bello né interessante, sposato e padre da poco, di portarsi a letto (anzi in cuccetta) la meno probabile delle conquiste (perché – ripeto – non ero out&proud ma la mia non-eterosessualità era evidente a tutti come un naso in mezzo alla faccia). Non rideva di me. Era l’ilarità di un gioco tra maschi, io ero solo l’oggetto di una gag divertente tra loro. Non molto di più. Non più un’arbitra, non una collega, non un membro della stessa loro federazione.
Declinai l’offerta, abbastanza confusa, perché in questa e in altre circostanze sono sempre stata la Forrest Gump delle molestie, la Mister Magoo delle offese sessiste, realizzando tardi e malamente la cosa giusta da dire.
Trascorsi il resto della giornata a chiedermi quale delle cose assolutamente neutre passate tra noi su quell’isola, quali delle chiacchiere gentili ma di circostanza scambiate alla festa di San Bartolo, gli avessero fatto pensare a me come una potenziale partner sessuale, quali segnali di disponibilità gli avevo magari involontariamente inviato.
Quanti anni mi ci sono voluti per arrivare a capire che c’era un “nonostante” in un sacco di altre storie che potrei ancora raccontare. Storie che ho imparato anni dopo essere in realtà micro-aggressioni. Minuscole particelle di pulviscolo, si depositavano, per anni (anni!), nei meccanismi dell’autostima, facendo diventare tutto faticoso, opaco, mai lineare. Divenni un’arbitra di buon livello nonostante. Arrivai in qualche modo in cima, nonostante. E oggi, con le consapevolezze di oggi, nessuno potrà più farmi credere il contrario.
Parte 8
Il torneo di Qualificazione Olimpica di Parma si chiude con una bella e sofferta vittoria dell’Italia in uno stadio pieno di gente, arrivata da ogni dove a tifare e a mettere pressione alle olandesi, avversarie di sempre e stavolta, stavolta sì, non come per Atlanta 1996, sconfitte.
Arrivarono poi, per noi arbitri, le valutazioni dell’Umpire in Chief e io rimasi a dir poco spiazzata, piacevolmente sorpresa. Chissà se ce l’ho ancora quella lettera e se sì in quale delle scatole perse in soffitta, nella vecchia casa di mio padre. Stampate su quella carta di qualità, quasi rigida, con il logo della ISF, quello dei due globi, in verde.
C’erano scritte cose, della me arbitra, che nessuno mi aveva mai detto, figuriamoci messo nero su bianco.
Su tutti gli altri commenti, a due decenni di distanza, nella memoria è rimasto chissà perché quello di congratulazioni di Roberto, il marito di mia sorella, che disse “Anto gli americani queste robe qua non le mandano in giro alla leggera, non sono per chiunque, devi aver fatto veramente un lavoro eccellente”.
Del torneo mi ricordo episodi, frammenti di storie. La mattina in cui Serge, l’arbitro canadese, cappello da chef in testa, pretese ed ottenne dalle cucine dell’hotel di preparare pancakes per tutto il gruppo.
O il mio primo dopo gara, con l’Umpire in Chief statunitense che mi spiega lentamente, come avrebbe fatto con un bambino, cosa si aspettava che io modificassi nella gara successiva e la sua faccia sbalordita quando mostro di aver compreso e perfino gli rispondo! In inglese, ovvio. Gli arbitri non anglofoni gli avevano sempre dato problemi, in quel senso. Me lo dice senza malignità ma come un fatto, sollevato che io capisca. E poi il giorno libero con la gita a Firenze e qualcuno che istruisce il gruppo sulla presenza di borseggiatori in centro, il caldo, le risate, l’amore totale dei colleghi da tutto il mondo per il cibo italiano.
Il torneo andò bene. Pure troppo.
Io ero l’outsider. Un riempitivo. Così credevo. Non avevo ambizioni né obiettivi. Non mi ero prefissata una meta e pensavo di valere forse un quinto di quel che realmente potevo esprimere.
Probabilmente non ero pronta. La designazione me la ero guadagnata ma la mia esperienza internazionale era stata fino a quel momento decisamente limitata. Ero da circa 13 anni una specie di (talentuosa) mascotte della prestigiosa quanto ufficiosa “scuola nettunese”. Ero la prova provata che gli insegnamenti dei miei eccellenti colleghi (tutti istruttori nazionali) e la loro guida funzionavano. Nulla di più.
Non me l’aspettavo. Non ero pronta, io.
E non lo erano nemmeno i vertici arbitrali italiani. Che per tutto il tempo tra la data della designazione (settembre 1999) alla partenza dei Giochi di Sidney (settembre 2000) mi resero perciò la vita in uniforme veramente difficile.
Avevo valicato un confine che nessuno mi aveva autorizzato a passare. Era la prima volta e nessuno della nostra Federazione poté o seppe mettere becco in quella situazione, sulla decisione presa oltreoceano. Il Comitato Nazionale avrebbe voluto un altro arbitro a Sidney, il più caro dei miei amici/colleghi. Ma le decisioni per l’Olimpiade erano fuori dalla portata del board nazionale.
Sarei stata io il primo arbitro italiano di softball ai Giochi Olimpici.
Perché ero una donna. Tutti dissero così. Che fu una palese “discriminazione al contrario”. Perché mai sarebbe dovuta essere una cosa giusta? Con quali titoli, con quale diritto, quale merito? Ero una donna, ecco perché scelsero me.
Ero giovane, in forma, capace, con buone doti di comunicazione dentro e fuori dal campo, in grado di esprimere una buona performance anche sotto pressione, preparata tecnicamente. Però ero una donna.
C’è chi lo crede ancora oggi. A prescindere.
Parte 9
“Nice bra!” mi fa lui, guardandomi con quegli occhi spiritati e azzurrissimi, mentre entrambi stiamo camminando per raggiungere il campo di gara. Lui è una specie di istituzione nel softball di tutta Europa, un personaggio sempre sopra le righe. Si chiama Prins, l’olandese terrore degli arbitri, coach di mille battaglie. Non usa le parole a caso, non ha detto boobs, tits e nemmeno breasts: dice “bra”. Mi ha appena detto che ho un bel reggipetto. Con quello sguardo là che solo chi lo ha incrociato sui campi sa di che caustica materia fosse fatto.
Io sono in uniforme e certo, come è ovvio che sia (visto che ho una quarta abbondante da quando ho 14 anni), sotto il celeste della camicia si affacciano prepotenti le mie tette. Arbitro in base, non ho la protezione della corazza a schiacciarmele, quelle tette là. Si vedono. Si vedono perché esistono. Ed esistono evidentemente anche per fare in modo che qualcuno, in un contesto in cui dovrebbero essere totalmente irrilevanti, le usi per mettermi a disagio, sotto pressione e in posizione di svantaggio prima ancora che la gara inizi. Quanti arbitri conoscete a cui un coach abbia riservato una frase anche solo lontanamente simile? “Nice bra”.
Mi sto dirigendo verso un campo minore, su quello principale c’è in contemporanea una gara più seguita. Io e Prins, a diversi metri di distanza il mio collega, alcune giocatrici. “Bel reggipetto!” e io che gli balbetto sconcertata, in risposta, che prima di tutto sono un arbitro, non una che indossa un reggipetto! Mi sento ridicola. La Forrest Gump delle molestie. La vita è una scatola di cioccolatini e c’è sempre lo stronzo che vuole mandarteli di traverso. Sono un arbitro, io!
Non mi risponde, ha il suo solito mezzo ghigno stampato sulla faccia. Ha già ottenuto lo scopo: mi ha messa al mio posto senza dirmi nulla di che, senza usare parole che sarebbero potute passare per molestie.
Questo succede in Repubblica Ceca, ma lui qualche anno prima lo avevo incontrato al torneo di Oosterhout, dove allenava la nazionale russa. Io non ero ancora un arbitro internazionale, quello era semplicemente un torneo giovanile per cui avevamo ricevuto un invito: io e la mia amica Letizia attraversammo mezza Europa con l’auto del suo fidanzato di allora, vere Thelma e Louise del softball, per andare ad arbitrare fino in Olanda. Che avventura memorabile! Durante una partita amichevole, fuori classifica, con Letizia arbitro capo, io avevo chiamato un illegal pitch a una giovane e fortissima lanciatrice russa (Darya Shembereva). Furente, Prins si era catapultato in campo dalla panchina e si era esibito in proteste pirotecniche ripetendomi “bullshit” non so quante migliaia di volte. Io ero convinta della decisione (ma anni dopo avrei dovuto ammettere che mi sbagliavo e che la sua interpretazione era quella giusta) e soprattutto non potevo lasciare impunita una sceneggiata simile: lo cacciai fuori con il gesto plateale che avevo visto fare a certi arbitri di baseball (non esistono cartellini rossi, nei nostri sport) e il pubblico applaudì compiaciuto (non era molto amato ad Oosterhout). Lui decisamente non apprezzò il mio coraggio e la decisione e uscì dal campo sibilando rabbioso “you will regret this decision, this is not good for your career!”. Io risi moltissimo di quella minaccia, poi, con Letizia. Carriera? Bullshit. Non avevo una carriera e non avevo intenzione di averla. Io volevo solo divertirmi. Io volevo solo arbitrare bene. Io volevo solo il softball.
Vi racconto questa roba qua perché per i venticinque anni in cui sono stata parte di questo pezzo di sport ho sempre dovuto avere a che fare con qualcosa che mi era estraneo, indifferente, alieno: il potere. La conquista del potere, il mantenimento del potere, le strategie, le tattiche per arrivare al potere, come sottrarre potere ad altri, eccetera.
È quell’ossessione che poi mi avrebbe alienato amicizie, avvelenato ricordi, lasciato ferite profonde, mostrato lati inediti di gente che credevo di conoscere e anche lati di me stessa, che non capivouncazzo allora e probabilmente ancora oggi rifarei certi stessi errori, non avendo voluto imparare nessuna lezione da quella roba là.
Il potere ha molte forme, quelle dei giochi di dominio di Prins e di tanti altri coach con cui mi incontravo e scontravo sul campo erano le più plateali, ma certo le meno pericolose.
Parte 10
Complici le ferie e una giornata uggiosa, ho fatto una cosa che non avevo mai fatto prima: ho cercato, trovato e guardato immagini di me che arbitro le olimpiadi.
È stato veramente straniante rivedere la me stessa di ventuno anni fa: il fantasma della mia vita precedente, in pratica. Berretto ISF e scarpe Mizuno nuove di pacca (dono dello sponsor), capelli lunghi lunghi tenuti legati in una coda bassa, occhiali leggeri quasi invisibili (mi sarei convertita alle lenti a contatto solo poi e malvolentieri).
La gara: New Zealand – Canada. Io arbitro di terza base.
Era un altro softball: si giocava ancora con la palla bianca e la federazione internazionale aveva imposto alle giocatrici i calzoncini corti. Lo dico per sottolineare che questa roba di decidere come le atlete debbano andare (s)vestite non è per niente nuova; magari vale la pena citare pure le giocatrici USA di quei Giochi, a cui il board nazionale richiedeva nastrini blue/red nei capelli e rossetto in campo. Già allora avevano deciso di non far passare l’idea che il softball fosse il più lesbico di tutti gli sport americani.
Altro softball, altra attrezzatura, non erano ancora arrivate le hockey goalie mask, per dire, le maschere totali che ora sono la norma: i catcher avevano a che fare con la scomodissima combinazione caschetto/maschera che volavano spesso da tutte le parti e al tempo gli arbitri padroneggiavano la misteriosa arte del togliersi la maschera senza che venisse via anche il berretto sotto. Considerando che al tempo avevo davvero una gran massa di capelli, la faccenda era particolarmente complicata. Un sacco di pratica davanti allo specchio. Un sacco di segni sulla fronte, pure.
Un altro softball, dicevo: allora esisteva ad esempio solo il “battitore designato” e le regole sulle sostituzioni erano complesse ma non veri rompicapo come quelle attuali. Su regola 4, la parte del regolamento di gioco che stabilisce i criteri per le sostituzioni, ci sono istruttori che negli anni successivi avrebbero terrorizzato intere classi di allievi, come forse nemmeno certe versioni di Cicerone al liceo erano state in grado di fare.
Insieme ad ufficiali di gara da tanti altri paesi e di differenti sport alloggiavamo negli appartamenti del Campus della McQuairie University, a Nord del villaggio olimpico. La sede delle gare, invece, era Blacktown e quando ci dissero che era molto vicina non mi aspettavo ci sarebbero voluti quaranta minuti di auto: ma le distanze fuori dalla piccola vecchia Europa hanno un significato differente, come avevo già imparato in Canada, 14 anni prima.
Gli arbitri degli altri sport erano spesso simpaticissimi: ricordo un’italiana di nome Raffaella, giudice di linea del tennis, un cronometrista di cui non ricordo né specialità né provenienza che era stato a vedere degli allenamenti di atletica e a cui alla fine era arrivata in dono una scarpa (una!) che Ato Boldon aveva lanciato alla folla a fine seduta. La portava in trionfo incredulo nei corridoi e la mostrava a tutti con gli occhi di un bambino felice.
La vera serata di gloria arrivò con una specie di toga-party nella grande sala mensa, in cui tutti indossavano l’accappatoio bianco dono del comitato organizzatore, musica da una radiolona e sbevazzamenti molto contenuti (almeno nel nostro gruppo, che tornò dai campi già tardi e con in mente le gare della mattina dopo). Erano olimpiadi precedenti al 9/11 dell’anno dopo, ma c’era stata Atlanta ’96 e le misure di sicurezza erano già imponenti. Quando con le auto arrivavamo ai campi, il check point era rigoroso, doppi cancelli, bagagliaio ispezionato con cura, addetto in divisa con lo specchio su un’asta a controllare il fondo dei veicoli.
Nonostante questo esisteva un’area mista che gli australiani chiamavano “Kisses&hugs area” e vi si accedeva “a proprio rischio e pericolo” (ovvero non si aveva copertura assicurativa una volta là) sia dalla parte degli spettatori che da quella degli atleti, degli addetti ai campi, degli ufficiali di gara.
Il pericolo era per lo più costituito dall’esposizione ad alto rischio commozione di scene bellissime come quella del dopo gara di questa nazionale neozelandese, gli abbracci e i richiami dei piccoli verso le madri sudatissime e ancora sporche di terra rossa. Era la nazionale di Gina Weber e Ronda Hira, che avevo arbitrato a Genova, nello Stadio Carlini (nome poi famoso nei giorni del G8). Ma anche di Jay Bailey, Melissa Upu, Char Pouaka, tutti nomi di un softball lontano. Un softball bellissimo.
Mi sono guardata chiamare in anticipo un gioco di toccata. Fu, credo, l’unica chiamata impegnativa di tutta la gara, ero emozionata, carica, probabilmente troppo. E un amico del baseball venuto a guardarmi quel giorno mi disse proprio questo: che dovevo lavorare sul timing. Le “istruzioni” su cosa dovessi o non dovessi fare, i consigli non richiesti elargiti in ogni circostanza, i dopo gara pieni di critiche perché se ero stata designata alle olimpiadi non potevo essere meno che perfetta e ricchi premi e cotillons e lo dico per migliorarti… tutte queste cose erano state una costante durante tutti i 12 mesi precedenti. Uno stillicidio. Anzi no: una valanga silenziosa. Biasimo più o meno invisibile per aver usurpato una posizione non mia. Tutti avevano da dire. Tutti potevano dire. Non conoscevo la parola mansplaining, ma mi avrebbe fatto molto comodo.
Parte 11
La designazione per le olimpiadi arrivò il 2 settembre 1999. Ne seguì un anno complicatissimo. Vero è che le difficoltà si sciolsero nella dolcezza del mio viaggio verso Sidney e nell’esperienza olimpica tutta intera. Ma fin là fu tutto molto difficile e faticoso.
Estenuante.
Jan, l’Umpire In Chief olandese mio primo istruttore internazionale, mi aveva subito detto: “avrai bisogno di tante ferie in più” e “Avrai bisogno di tanta pratica con lanciatrici di livello”. Avevo bisogno di esperienza internazionale, insomma, cui avevo avuto accesso in misura ridottissima, fin là.
Dove? Come? Io lavoravo in un piccolo quindicinale di annunci locale come grafica, impaginatrice, tuttofare. Un posto a conduzione familiare, in pratica, dove a fine mese mi toccava assediare i padroncini per essere pagata in tempo, talvolta arrivando fin sotto casa loro a citofonare disperata, perché evitavano persino di farsi vedere in ufficio pur di ritardare l’assegno dovuto.
Passarono un paio di mesi. Ero già sotto pressione. Lasciai il lavoro. Fu una decisione avventata. Ma non me ne pentii mai veramente. Soprattutto grazie a chi mi diede supporto in quei tempi difficili.
Il supporto non mi arrivò certo dal Designatore Nazionale, che mi estraniò di fatto dal contesto arbitrale di riferimento, dai miei colleghi nettunesi. Non seppi mai se fu una sua iniziativa (aveva probabilmente una sua peculiare visione di cosa occorresse per salvaguardare l’armonia di quel gruppo) o se invece fossi realmente sgradita ai miei colleghi di più di un decennio di Serie A.
In ogni caso le ricadute sulla mia serenità in campo e fuori furono abbastanza devastanti: quella del 2000 resterà la mia stagione più brutta. Arbitrai con colleghi con cui avevo poco feeling e che ci tenevano a rimarcare quanto poco approvassero la situazione, in maniera più o meno palese. Ero l’arbitra che aveva scippato ad altri quella opportunità solo “in quanto donna”. Dovevo viaggiare per conto mio, la preparazione mentale della gara finiva per essere inesistente. E anche se c’era chi mi accompagnava quasi sempre, dandomi il cambio alla guida, ero stanca, demotivata; mi capitò purtroppo persino di arrivare in ritardo, causa traffico e una pianificazione scorretta della trasferta. Non avevo un soldo e viaggiare dal giorno precedente significava dover anticipare spese per l’hotel. Oggi non mi vergogno a dirlo, ma allora fu parte del problema e non ne parlai con nessuno dell’ambiente. Fu per una gara a Langhirano che arrivai tardi. Paolo iniziò la prima partita senza di me. Fu imbarazzante, a dir poco. Nella seconda gara, io capo, mancai la copertura della terza base (gli arbitri si muovono in campo secondo schemi precisi, dividendosi le responsabilità: è quello che chiamiamo Meccanica arbitrale, con tanto di manuali e studi mirati). A fine partita il mio collega ci tenne a specificare che un errore così grossolano, da una che era stata designata per le olimpiadi, non era esattamente il massimo… Lo disse sorridendo. Che si sa le donne pigliano tutto troppo sul personale e invece basterebbe sorridere un po’ di più. Non dissi nulla a parte scusarmi.
Non dissi nulla neanche dopo una gara a Parma, Campo Stuard. Era agosto pieno e avevamo deciso (io e chi mi accompagnava in auto, perché anche là ero stata designata in ‘solitaria’) di ripartire subito dopo le gare e viaggiare di notte per evitare il traffico delle vacanze. Ma un istruttore nazionale, ex arbitro di baseball e non di softball, mi tenne per mezz’ora almeno ad ascoltare suggerimenti su come correggere il gesto di chiamata e il mio timing; indicazioni che erano agli antipodi rispetto a quello che avevo imparato dagli istruttori ISF e che applicavo nel campionato italiano per fare pratica: si trattava evidentemente di correggere questo mio modo bizzarro di chiamare, perbacco. Lui era un anziano rubizzo signore e io ancora e purtroppo una bambina educata a rispettare anche chi non ha rispetto di te. Avevo fretta di ripartire e di sottrarmi, ma restai ad ascoltare per tutto il tempo, sudata e con le scarpe piene di terra rossa, sognando una doccia, l’aria fresca della notte e un mondo in cui gli uomini non fossero sempre pronti a dare consigli non richiesti.
Una stagione disastrosa. Ma il supporto che non arrivò dal Comitato Nazionale Arbitri arrivò invece inaspettato e graditissimo spesso da altre parti. Fondamentale quello di un signore che nel softball ha fatto la storia, Tonino Micheli, il coach italiano che a Sidney conquisterà il quinto posto: chiese ed ottenne dalla Federazione di aggregare questa giovane arbitra squattrinata e smarrita al torneo di preparazione olimpica che la nazionale avrebbe giocato a Brisbane, a marzo, contro Australia e Giappone. L’allora Presidente Aldo Notari con cui pure non avevo nessuna familiarità, mi ricordo che ebbe solo parole di incoraggiamento per me. Non l’ho dimenticato. Entrambi non ci sono più, ma ho ancora un forte un senso di riconoscenza per loro, per aver fatto quello che nessuno dal Comitato Nazionale Arbitri aveva chiesto loro di fare. E non fu poco. Non fu poco per nulla.
Parte 12
Brisbane fu il primo viaggio lunghissimo della mia vita precedente. Mi ricordo le gambe intorpidite all’arrivo, il sonno mortale a cui cercai di resistere quanto più possibile per regolare presto e bene i conti col jet lag. Risultato: un paio di telefonate una volta arrivata in hotel durante le quali biascicavo come fossi sotto anestesia dentale.
Ma funzionò: ero giovane e in forma, allora, e bastò quel primo sacrificio per bilanciare tutto già dal mattino successivo.
Di questo torneo qua ho voglia di raccontarvi alcuni aneddoti.
Il primo: Susie Bugliarello la fortissima lanciatrice italoamericana che è decisa a migliorare il suo italiano, ma… sceglie male la sua insegnante. Quando coach Enrico le chiede a fine giornata come si sente, Buglia risponde convinta “ok, oggi abbiamo trombato moltissimo e molto bene!”. Enrico la guarda per un secondo appena, stralunato prima, tra il divertito e il rassegnato poi, si gira e chiama “Combeeee!”. Va da sé che alla richiesta di come si traducesse “to train” Comberlato aveva infatti risposto “trombare”, facendole pure delle frasi d’esempio.
Il secondo: la nazionale prima dell’inizio dell’International Fastpitch Challenge si allena su un campetto fuori città. Ci arriviamo con un piccolo bus, io mi aggrego alla squadra. È la prima volta che vedo le barre di metallo sul muso di un veicolo e mi spiegano che l’attraversamento dei canguri è frequente e pericoloso. In caso di collisione quelle barre non salvano il canguro, ma certo il parabrezza e il resto. Io vado in campo solo se giocano la partitella di fine sessione. Così resto fuori a guardare e recupero spesso la palla quando finisce fuori. Una finisce nell’erba alta vicino a un fosso e mentre sto per andare, il custode del campo, un signore stile Crocodile Dundee ma molto meno selvatico, mi dice no “no no no, lasciala là poi la recupero in qualche modo, ci sono troppi serpenti in quel punto”. E a quanto pare i serpenti non sono l’unica espressione di fauna locale: ben oltre la linea del fuoricampo c’è un piccolo boschetto isolato di eucalyptus e ci abita una colonia di koala. I koala (ma anche wombat, wallabies, Tasmanian Devils, un uccello stranissimo che forse si chiama frogmouth ma non sono sicura e altri ancora) li vedremo da vicino però solo quando visiteremo un wildlife park e ci verrà concesso persino di tenerne uno in braccio, come fosse un bambinone dai lunghi artigli. Spoiler: si, i koala sono morbidissimi come sembra. Ma anche in città, lungo la riva del fiume, c’è un giardino pubblico, aperto a chiunque, in cui girano libere piccole iguana e pappagalli di ogni genere e tipo. L’Australia è un posto pazzesco.
Il terzo, brevissimo: credo di essere l’unico arbitro italiano ad aver chiamato uno strike out7 a Bugliarello. Nel senso che era in battuta! Evento che in gare ufficiali, in Italia o con la nazionale, non credo si sia mai verificato. Ma non ho statistiche ufficiali a confermarlo.
Il quarto: la fisio della squadra è Franca Orlandini. L’avevo conosciuta anni prima a Livorno. Era allora il catcher di quella squadra e lo fu forse per un paio di stagioni. Fu anche il catcher che per la prima volta mi aveva fatto capire cosa significava “lavorare con l’umpire”. Di ogni ball dubbio mi chiedeva perché, aggiustava, limava, guidava il suo pitcher e intanto mi metteva a mio agio. Non l’avevo dimenticata e ritrovarla in altro ruolo fu un piacere. A Brisbane passammo del tempo insieme perché avevamo entrambe bisogno di un costume da bagno e andammo a fare compere nello shopping mall accanto all’hotel. Poi, in uno dei suoi rarissimi momenti liberi (ma quanto lavorano quelli che “mettono a posto” le atlete?) andammo su su fino alla jacuzzi del top floor, da dove peraltro si godeva di una vista panoramica pazzesca sulla città. Franca era schietta, diretta come certe toscane di altri tempi e però infinitamente attenta ed empatica con chi le era intorno, come la grande professionista e la persona bellissima che era. Stare in sua compagnia era sempre divertente e piacevole.
Io a Brisbane ero perennemente pesce fuor d’acqua e anche per il torneo, con tutti colleghi e colleghe australiane, sarà più o meno lo stesso.
Imparai una tonnellata di cose, avevamo persino una telecamera piazzata in alto sulla rete dietro casa base, quella che serve a bloccare la palla battuta dalla parte opposta del campo. A fine gara ci studiavamo i lanci, la posizione, il tempo di chiamata. Istruttori esperti e persino quella che sarebbe stata la vice capo arbitri a Sidney, Margo Koskelainen, a seguire la mia formazione. Una volta in Italia avrei avuto un sacco di “compiti a casa” da fare.
Ma ero la rookie, la novellina, ero quella con meno esperienza di quel gruppo. Lontana da casa e dal softball che mi era familiare. E si vedeva. A tenermi ancorata alla realtà e comunque piena di entusiasmo e di voglia di migliorarmi, le atlete di un gruppo magnifico, quelle della nazionale di allora: non le nomino una ad una, ma per me sono state fonte infinita di ispirazione.
Anni prima un commissario di campo mi aveva detto con tono di rimprovero “arbitri come un uomo!”. Voleva dire che la mia espressione corporea e i miei atteggiamenti erano troppo mascolini. “Ho solo uomini come punti di riferimento, come modello” risposi allora. Ma non era vero. Guardavo la grinta di certe giocatrici e mi sentivo meno strana. Mi sentivo bene. Mi sentivo a casa. Almeno un po’.
Note
[1] European Softball Federation. Quando un arbitro ha ottenuto buoni risultati per un periodo consistente di stagioni, viene invitato esclusivamente su segnalazione della Federazione Nazionale a partecipare a corsi di durata variabile, con test in aula e sul campo che se superati gli garantiscono la qualifica internazionale d primo livello.
[2] Scorer o Classificatore è l’ufficiale di gara che trascrive ogni singola azione, battuta, errore, punto, prestazione del lanciatore: tutto ma proprio tutto della gara passa attraverso il lavoro dello scorer. Il baseball e il softball sono sport di statistiche e questo ufficiale di gara, seduto in una apposita postazione con buona visuale del gioco, è una presenza imprescindibile di ogni gara giocata, che si tratti di categorie giovanili o Serie A.
[3] International Softball Federation, all’epoca il Massimo organismo del softball mondiale.
[4] Umpire è il termine usato per gli arbitri di baseball, softball e di altri sport ancora (il cricket, ad esempio). Si pensa che possa avere avuto origine da un-peer, ovvero chi che è altro dai “pari”, i giocatori.
[5] In italiano: smorzata. Una battuta in cui la palla lanciata non viene colpita violentemente sventolando la mazza ma accompagnata verso il campo con un movimento specifico.
[6] Il baseball e il softball non sono sport come tutti gli altri. L’arbitro interviene non solo a fronte di una irregolarità (un fallo, una rimessa laterale, un rigore, un calcio d’angolo – per fare riferimento al calcio). Nel softball l’arbitro deve giudicare ogni lancio, ogni battuta, ogni arrivo in base, tutto. In altri sport (ancora il calcio, ad esempio) potremmo pensare per assurdo ad una partita in cui nessuno commette fallo, nessuno va in fuorigioco, nessuno fa gol, nessuno manda la palla in fallo laterale. L’arbitro assisterebbe senza fischiare mai. Nel softball e nel baseball questo non è letteralmente possibile: l’arbitro è necessario al gioco, ne accompagna lo svolgimento con un numero grandissimo di decisioni, lancio dopo lancio, battuta dopo battuta, azione dopo azione.
[7] Lo strike out è l’eliminazione di un battitore ancora nel suo box di battuta, evento singolare nella storia raccontata perchè in gare ufficiali chi lancia raramente o mai si presenta in battuta, potendo usufruire di una sorta di deroga, con uno speciale sostituto che lo fa al suo posto.
Da vecchio ragazzino giocatore di baseball (edipem Roma, Reale Schlitz), e da frequentatore di Toronto, mi ha coinvolto molto. Mi ha però lasciato con la classica domanda “e poi?”
Ricordo che quando smisi di giocare a baseball conobbi e cominciai a frequentare Sabina Guzzanti e lei durante un viaggio insieme mi raccontò che aveva giocato per un po’ a softball. Era il 1979.
E poi ci sono altre undici puntate 🙂
Ah ecco..ottimo!!
Vabbè, ti amo. Sei stata fonte di alcuni litigi pazzeschi con io che insultavo chi ti sminuiva e insultava. Ma questo lo sai. Continua a scrivere Antonella, perché lo scritto resta mentre le nostre parole volano, scompaiono “come lacrime nella pioggia”. Con stima assoluta, Anghi.
Gran belldiario?, flusso di pensieri, sticazzi?
Forza Indians!