di Elisa Franco
Copertina: Cristiano Baricelli
È facile infilarsi alle spalle di un signore benvestito fingendo di esserne la figlia. Lui, per risultare credibile, deve apparire vecchio e giovane quanto basta, come recitano spesso le ricette di sua madre al momento di sapere qualcosa della farina e del burro necessari. Lei ha il biglietto, ma avvicinandosi alla maschera, per il controllo, improvvisa un gesto che renderà perfetta la sua piccola scena filiale: finge di appoggiarsi al braccio del padre sconosciuto, badando a mantenere quel centimetro di distanza che lo lascerà inconsapevole. La maschera vede entrare nel teatro una bambina in compagnia del babbo e non ha niente da eccepire. Ci sarebbe da ridere perché la piccola – la chiameremo Maria anche se non è il suo nome – non ha mai conosciuto suo padre. Nemmeno la mamma lʼha conosciuto, se si deve giudicare dal fatto che lui lʼha mollata lo stesso giorno che è tornata dallʼospedale dopo il parto. “Forse voleva un maschio” ha commentato una volta con lʼacidità sarcastica che le riempiva gli occhi, però Maria non è mai stata sicura che quella non fosse la verità. O almeno un pezzo di verità, che capita di frequente sia più grande dellʼintero (basta parlare della verità, è passata di moda dopo Pilato). Il padre in fuga diede in elemosina, sulla via di Damasco, qualche banconota in una busta infilata nella cassetta della posta. E saluti e baci.
Maria ha imparato a memoria il numero del suo posto, per evitare errori: si guarda attorno e sono tutte poltrone di velluto rosso che si aprono lungo la curva di una bocca allegra. “Una sorpresa per il compleanno di mia madre” ha spiegato sorridendo alla cassiera una vita fa, poi ha piantato gli occhi sul lungo tagliando colorato e sul denaro del resto, trattenendo un sospiro per la velocità con cui sono scomparsi i proventi dei compiti di matematica passati ai compagni di classe negli ultimi mesi. Le è costato sangue quel biglietto.
Ora è lei a starsene seduta nel posto di lusso, indifferente ai capelli gialli come un maglione infeltrito che le spiovono ogni tanto sugli occhi. Si trova incastrata tra una signora grassa vestita di verde e un uomo con gli occhiali, che tiene lo sguardo sintonizzato sul cellulare e la voce deviata, invece, verso la moglie al suo fianco. Di fronte a una simile acrobazia Maria sa che la mamma tirerebbe fuori uno dei suoi modi di dire preferiti: “Con un occhio frigge il pesce e con lʼaltro guarda il gatto”. Distoglie il pensiero e si accorge che in sala ci sono pochissimi bambini. Eppure la promessa sui cartelloni sparsi per le strade era roba da far saltellare chiunque sulle punte dei piedi, caricandosi i figli in spalla perché vedessero meglio. ʽLa più grande Maga del secolo è in città. Preparate i vostri desideri perché siano pronti a essere esauditiʼ. Forse i genitori temono i desideri dei figli e allora li hanno lasciati a casa, figli e desideri in un groviglio nel letto con la luce spenta.
Maria ha riletto otto volte la parola ʽMagaʼ e ogni volta il sapore era così speziato che voleva assaggiarlo di nuovo. Solo dopo ha fissato la foto della Maga e sembrava che uscisse dai manifesti coi lunghi capelli di fuoco sparsi intorno a un viso bianchissimo. Fragola e fiordilatte. La bocca serrata, stretta stretta per non anticipare neppure un piccolo incantesimo, uno di quelli talmente banali che potrebbero benissimo sfilartisi dalla tasca insieme al fazzoletto di carta con cui ti sei soffiato il naso. In compenso lʼincantesimo glielo hanno lanciato addosso gli occhi verdi. Lʼhanno guardata, è stato evidente. Se anche altri stavano passando davanti al cartellone quegli occhi se ne infischiavano e continuavano a osservare soltanto la piccola Maria. Per fortuna, una voce vicina a lei ha esclamato “Sarebbe così bello poterci andare, ma chissà quanto costa. E poi ho il turno serale alle casse”: allora la bambina si è riscossa, ha abbandonato gli occhi verdi sul manifesto – che ridevano di turni che si possono sempre cambiare – e ha ripreso la sua strada stringendo con amore doloroso la mano della voce. Ma il giorno dopo si è precipitata a tirar fuori gli euro nascosti nel vecchio orsetto che per tanti anni si è infilato nel suo letto, li ha spesi senza nessun rimpianto. Insomma, con qualche rimpianto che è stata in grado di gestire.
Ora è seduta tra la donna verde e lʼuomo diviso e vogliamo parlare della Magia e dire che non esiste? Il passagio pedonale vicino al supermercato scompare, si dissolve insieme alle macchie scure per terra e alle ombre che si infilano da tutte le parti.
Le luci si spengono, cʼè un breve rullo di tamburi, il sipario si spalanca. Il palcoscenico è immerso nellʼombra, ma un occhio di bue si accende e rivela la Maga che guarda il pubblico come se volesse valutare fin dove può spingersi, alta e magra nel suo frac nero tempestato di paillettes dʼargento. Continua a tacere e il silenzio inghiotte la sala, gli spettatori credono che il linguaggio debba essere ancora inventato. Infine fa un passo in avanti con lʼocchio di bue addosso che si ingegna per non farsela sfuggire.
«Siete pronti per me? Per una donna mago?»
Non respirano nemmeno.
«Non possiedo cilindri o conigli. Nemmeno colombe. Non eseguo giochi di carte. Se è questo che stavate cercando potete andarvene e il biglietto vi sarà rimborsato.»
Nessuno si muove. Un secondo passo in avanti.
«Io rispondo alle domande. Ritrovo quello che avete perso.»
Il rumore di un unico, enorme respiro trattenuto. Terzo passo in avanti. Adesso gli occhi verdi sono ben visibili e grandi.
«Vi spiego i vostri desideri e vi insegno a raggiungerli.»
Lʼocchio di bue si spegne, la Maga continua a parlare nel buio, così può invadere lʼorecchio di ciascuno spettatore.
«Pensate a ciò che volete. Pensateci bene, perché potreste pentirvene.»
Poi la parte anteriore del palcoscenico si illumina di luci da penombra. Sul retro, nellʼoscurità, si intravvedono lunghe forme squadrate. Un omino coi baffi emerge dalle quinte e invita quelli tra il pubblico che vogliono chiedere qualcosa alla Maga a farsi avanti. Nei primi secondi sembra che siano in pochi ad avere il coraggio di alzarsi, ma presto una piccola fiumana muove verso il palcoscenico, incanalandosi in modo spontaneo nel corridoio centrale della platea. Il primo della fila si ferma sotto la Maga, che a sua volta è arrivata al bordo del proscenio. Di nuovo buio, quindi occhio di bue su di lei e altro faro puntato sullo spettatore che attende il responso ai piedi della divinità.
«Da due anni mia moglie non mi perdona perché ho perso la fede nuziale…»
«Nella tasca destra della giacca».
Lʼuomo scuote il capo.
«Lʼho persa al mare, dʼestate. Che cʼentra questa giacca?»
«Nella tasca destra della giacca. Allʼinterno cʼè una dedica: ʽda Angela a Carlo, per sempre».
Da una poltrona nella sala arriva un breve grido di moglie. Lʼuomo ai piedi del palcoscenico si fruga nella tasca e tutti i presenti percepiscono insieme a lui il contatto col metallo freddo. Lui guarda quello che ha tirato fuori e la sua esultanza si trasmette in tempo reale agli altri spettatori. Una donna prende il suo posto sotto la luce, quasi spingendolo di lato.
«Tra due giorni ho un colloquio di lavoro. Come andrà? Mi assumeranno?»
«Hanno già trovato un altro candidato, domani le telefoneranno per disdire.»
La giovane quasi si piega in due.
«Ma il ventisette di questo mese le sarà offerto un posto pagato meglio, nella società che ha gli uffici sopra il bar dove la mattina prende il caffè.»
Tutti vedono il palazzo e le finestre, ognuna con accanto la macchina dellʼaria condizionata. È emozionante al pari di qualsiasi proposito di vita nuova.
«Ricordi, però, che se accetta sarà legata a unʼesistenza con pochi colori. Le mancherà il tempo di leggere poesie. Scelga decisa e poi non si guardi mai alle spalle per spiare dove portava lʼaltro sentiero.»
La sala osserva il bivio con un brivido. Maria ricorda le favole che le raccontava la madre quando aveva la febbre: finivano sempre con “stretta la foglia, larga la via, dite la vostra che ho detto la mia”. Lei rideva e sentiva la febbre che scappava.
Tocca a un ragazzo. Sembra un ragazzo, ma a lanciargli una seconda occhiata si capisce che qualcuno gli ha caricato qualche anno sulle spalle senza che lui se ne sia accorto.
«Non riesco a ritrovare la lettera che mi scrisse il mio primo amore. Era in inchiostro verde e in quelle parole mi vedevo molto diverso. Mi piacevo. La lettera lʼavevo messa in una scatola e la scatola è scomparsa in un trasloco.»
Per un istante il passaggio pedonale riappare davanti agli occhi di Maria e le piega il cuore, preso in contropiede. Per fortuna lʼimmagine torna a svanire nella voce diritta della Maga.
«Nel portafogli, tra la patente e il bancomat.»
Lʼuomo obbedisce estraendo il portafogli e insieme a lui gli spettatori colgono righe verdi di scrittura tondeggiante. Una scossa di esultanza li ringiovanisce. Maria non si è alzata: non ha domande, non ha desideri, quello che ha perso non può essere ritrovato. Ma vorrebbe guardare la Maga per giorni e non si stancherebbe mai. Le domande continuano e le risposte le rincorrono. Neppure unʼesitazione. Il pubblico è rapito, vive ogni vicenda sulla propria pelle, si ciba di emozioni che arrivano a tutti, forti e nel medesimo istante. Gli applausi si interrompono solo per quei quesiti spigolosi e per le soluzioni che li arrotondano. Maria vede la gente intorno a sé aspettare felice, attaccata alla riva, che le onde del mare mosso la spruzzino e la schiaffeggino facendole perdere lʼequilibrio e inghiottire un poco di paura, solo una punta per poi ridere forte e sapere di essere salva e invincibile. A lei, di quel turbamento collettivo, arriva solo unʼeco. Sa che sta succedendo, ma non la coinvolge. Maria è la bambina sul bagnasciuga che delle onde vede solo lʼultimo velleitario allungo, il velo sottilissimo di spuma intento ad allargarsi sulla sabbia che invece lo assorbe indifferente. Tante fra le persone in fila chiedono se diventeranno ricche: la spiegazione del modo in cui avverrà, per i pochissimi predestinati, le sconvolge quasi sempre, persino i soldi hanno un prezzo. Forse sono più soddisfatti quelli che si sentono dire che non ce la faranno, perché dalle parole della Maga scoprono che otterranno cose più importanti o più adatte alla loro anima immortale.
Tocca adesso a un tizio alto, con la voce sgradevole del gesso quando traccia ghirigori sulla lavagna.
«Mia moglie ha fatto la valigia e se ne è andata. Come faccio a ritrovarla?»
«Tu non sei sposato, non hai una fidanzata, sei una moneta falsa.» la voce di lei diventa sferzante «Ricorda sempre che una moglie non è un oggetto. Non funziona in questo modo.»
La sala trattiene il fiato. La Maga alza una mano e i due fari – quello superno della dea e quello infero dellʼincauto postulante – si spengono. Maria pensa allʼinsegnante di catechismo e alla separazione delle tenebre dalla luce durante la creazione. Il buio in sala dura quanto il buio eterno e finisce in una manciata di secondi. Poi si riaccende lʼilluminazione crepuscolare del proscenio, sufficiente a mostrare che la Maga non cʼè più, al suo posto lʼomino baffuto rimanda a sedere coloro che non hanno fatto in tempo a porre la propria domanda. È molto tardi, anche se rimangono torme di desideri che si muovono avanti e indietro tra le poltrone e il palco. La cosa senza dubbio più incredibile – e qui è palese che si tratta di vera Magia – risulta la calma assoluta di quelli che dopo la lunga fila non sono stati ascoltati, degli sfortunati rimasti nel pronao del tempio senza riuscire ad accedere alla dea. Ritornano tutti tranquilli al proprio posto. Nessuno o nessuna si sente defraudato, men che meno prova rimpianto o rabbia. Vivono la pacificante sicurezza di una promessa in bianco che riscuoteranno al momento giusto. Assomiglia parecchio alla consapevolezza di tenere la lampada di Aladino vicino al letto, a portata di mano.
Mentre i presenti cominciano a chiedersi se lo spettacolo sia terminato così, con la sordina invece del cannoneggiamento di fuochi dʼartificio, un colpo di tamburo li assorda. Saltano sui propri sedili color porpora con la disarticolazione delle marionette. E ancora il buio e ancora la luce sulla Maga che li osserva come se li soppesasse sopra la bilancia di Thot.
«La tradizione prevede che lʼultimo numero di Magia sia il più potente, quello indimenticabile.»
Il teatro potrebbe essere vuoto per il silenzio che lo ricopre.
«Sto parlando dellʼincantesimo dellʼuomo segato in due!»
Il silenzio esplode in un estasiato sospiro collettivo. Maria ricorda che la madre le raccontò di un mago che aveva tagliato una donna in due in TV e quella però era rimasta viva, anzi si era alzata di nuovo intera. La mamma era rimasta affascinata ma col tarlo del dubbio, perché “in tivù possono fingere qualunque cosa, fanno vedere quel che vogliono, smontano le scene e le rimontano come gli fa comodo. Tanto non ci sei tu a un metro, che ci metti il naso come san Tommaso”.
Le strisce bianche del passaggio pedonale irrompono mostrando a Maria lo sporco e le tracce rosso ruggine. Ma sopra si accendono i mille fari del palco che, per la prima volta nella serata, è bombardato di luce, ogni particolare esibito in passerella.
«Io possiedo il materiale,» capelli di fuoco e occhi verdi si voltano verso le sagome squadrate sul fondo che si rivelano tre parallelepipedi di legno su cavalletti e hanno una disturbante somiglianza con le bare «ma al momento non ho un assistente. Quindi stasera non vi potrò mostrare lo spettacolo più impressionante del mondo.»
La Maga si gode la delusione degli spettatori, poi riaggancia con la lenza le sue trote riottose.
«A meno che… »
Chiede se ci siano tre uomini di buona volontà e dotati di coraggio. Nel caso li farà entrare nelle casse e li segherà allʼaltezza della vita. Molte mani si alzano. Alla fine i tre prescelti salgono orgogliosi sul palcoscenico, quello di mezzo lancia una breve occhiata nervosa alle casse, che un gruppo di inservienti sta allineando per lungo sul proscenio. La Maga le spalanca con facilità: sono scatole di legno prive delle pareti corte. Le quattro pareti lunghe, una volta aperte grazie alle giunture lubrificate, formano un unico tavolo squadernato sui cavalletti. Il pubblico è invitato a salire e a controllare la totale assenza di trucchi: non ci sono specchi, non ci sono fili né doppifondi. I tre volontari toccano anche loro il legno in cui saranno rinchiusi, chiedono dei cuscini che arrivano subito. La Maga invita gli spettatori incaricati della verifica a rimanere fino alla chiusura delle casse. Maria non perde unʼimmagine, le pare di essere dotata di unʼintera batteria di occhi. Mormorio generale quando le casse si serrano sui tre uomini, dei quali però continuano a vedersi le teste, da un lato, e i piedi e una porzione dei polpacci, dallʼaltro. Maria ride – benché sia molto emozionata e la donna in verde abbia invaso il suo spazio con un gomito – quando si accorge che uno dei tre imprigionati ha i calzini collassati sulle scarpe. Le persone ancora sul palco scambiano qualche parola con le tre teste, che si sforzano di sorridere e persino di esibirsi in qualche boccaccia tesa a negare ogni paura, uno degli imprigionati sovrappone le caviglie per darsi un contegno. I controllori toccano ancora il legno delle casse, si chinano sotto di esse sondando lo spazio vuoto tra i cavalletti. Infine ammettono che tutto appare regolare e scendono in platea tornando ai propri posti. La Maga si china sui tre volontari, uno per uno, assicurandosi che non desiderino ripensarci. Neanche per sogno, replicano le teste. Allora si rivolge al pubblico.
«A questo punto non mi resta che tagliarli in due parti. Spero che dopo le due metà riescano a riunirsi.»
Sorride alla platea e tende un braccio: puntuale dalle quinte accorre un addetto che le mette in mano una motosega. La Maga la guarda fingendo una certa sorpresa, passa i polpastrelli sui denti acuminati, solleva lʼaggeggio con entrambe le mani e lo presenta agli spettatori. Poi rapidissima afferra le maniglie, accende la sega e con quella che ruggisce gira dietro le casse in modo che chiunque abbia la visuale libera. Avvicina la catena dentata alla prima cassa, si ferma tre secondi per creare atmosfera, quindi affonda i denti nel legno, a mezza strada tra testa e piedi. La motosega va che è un piacere e in breve tempo il parallelepipedo è diviso a metà. La tensione in teatro è alle stelle. La Maga spegne il motore e chiede alla prima vittima se tutto va bene. La testa annuisce, anzi si volta audace verso la platea esclamando “Mai stato meglio!”. La manovra si ripete col secondo volontario, mentre la prima testa cerca di sporgersi per assistere. Suono assordante della motosega, cassa tranciata esattamente in due. Lʼuomo tagliato a metà sorride e disaccavalla le caviglie. Il pubblico comincia a lanciare risolini e ricaccia la paura nello spazio angusto riservato ai brutti sogni. E riecco il rombo, il lavoro impassibile della Maga, il terzo taglio portato a termine. “È quello dei calzini che hanno perso lʼelastico” pensa Maria. E lui sembra che la senta: agita i piedi per aria. “Ho bisogno di sgranchirmi” commenta dalla parte della testa.
Succede subito dopo. Dai tagli di ognuna delle tre casse, nellʼidentico istante, comincia a uscire sangue. Dapprima si tratta di fili rossi sottili che però si ispessiscono veloci, si allargano in fiotti che sbuffano da quelle fessure troppo strette, colano pesanti sullʼimpiantito di legno. Il sangue invade il palcoscenico e le teste hanno smesso di parlare e di muoversi, i piedi di agitarsi. I volontari sono occhi e bocche spalancati, senza più vista o urlo. La Maga fende la marea porpora continuando a impugnare la motosega, giunge al limitare del proscenio.
«Signore e signori, mi scuso del contrattempo,» per la prima volta nella serata sorride «è un incantesimo che devo ancora perfezionare.»
Si sposta di lato e scende la scaletta che collega il palco alla platea. Riaccende la motosega.
«Credo che se qualcun altro si offrisse, potrei mettere a punto il meccanismo stasera stessa.»
La frase e, soprattutto, lʼavvicinarsi dello strumento rotante genera il panico nel pubbico. Tutti si alzano e spintonano i vicini nella fretta di darsi alla fuga. La gente si accalca, calpesta, grida. Il sangue diventa una cascata che dal palcoscenico si getta sul pavimento della sala. Le persone, terrorizzate, scavalcano le poltrone e i parenti. Soltanto Maria rimane al suo posto, con lʼaria perplessa di chi non capisce il rotolio del mondo intorno a sé. La Maga continua a sorridere ai piedi del palco, fino a che lʼultimo spettatore scompare. A quel punto spegne la motosega e la appoggia su una delle poltrone vuote. Poi guarda Maria e le si avvicina lenta, con il frac che lancia scintille ad ogni movimento. Si lascia cadere di peso nel posto accanto.
«Tu non sei scappata»
Maria alza le spalle. Tanto non era una domanda.
«Non hai visto il sangue, vero?»
«Che sangue?»
La Maga sospira e si sfila le scarpe di vernice nera.
«A volte le illusioni non funzionano. Non completamente» la Maga prende una mano della piccola con gentilezza «quando cuore e cervello sono incamminati su altre strade.»
Se uno qualunque del pubblico avesse il coraggio di tornare indietro e affacciarsi alla sala non vedrebbe nemmeno una traccia di sangue e si accorgerebbe che le tre casse sono vuote e integre. Maria ha una vaga impressione di calzini vecchi ma non sa da dove le arrivi. La scansa e chiede.
«Resti a dormire in città?»
«Riparto stanotte»
«Mi porti con te? Io e mia zia non ci siamo simpatiche. Hai detto che non hai più lʼassistente»
La Maga adesso la osserva con gli occhi verdi che le entrano nella testa.
«Quando è morta tua madre?»
«Due giorni fa» Maria ha imparato da anni a non piangere «Lʼha investita una macchina su un passaggio pedonale, mentre tornava dal lavoro. Era tardi e buio.»
«Doveva venire lei stasera al mio spettacolo, vero?»
Stavolta la bambina si limita ad annuire. Certe parole non possono essere pronunciate se si vuole sopravvivere. Regalo di compleanno. Scambio di turno con una collega. Un regalo di compleanno può uccidere anche se è riempito dʼamore? Guarda i lustrini del frac perché pure quel momento finisca e vada avanti, lasciando il posto a un altro.
«Dammi il biglietto dello spettacolo»
La Maga tende le dita e Maria le consegna il tagliando colorato. La Maga lo strappa in tanti minuscoli pezzetti. Coriandoli.
Maria – la chiameremo Maria anche se non è il suo nome – si lascia cadere sulle ginocchia della madre. Lʼha aspettata alla finestra stringendo i regali tra le mani, impaziente di farglieli aprire, di vederla sorridere. È sempre così seria quando rientra dal lavoro: le appaiono due righe scure sulla pelle vicino alle labbra, come se la sua bocca fosse chiusa in una parentesi.
Ora siedono vicine intorno alla tavola che esaurisce buona parte dello spazio del cucinotto, gli involucri ormai vuoti messi da una parte.
«Mamma, davvero ti sono piaciuti lo sciampo e il bagnoschiuma? Piaciuti piaciuti?»
«Cucciolina, te lʼho detto, sono regali super. Quando li userò i vicini non mi riconosceranno. “Guarda che bella ragazza! Non assomiglia a qualcuna che abbiamo già visto?”»
Maria ride e abbraccia la madre.
«Però mi dispiace un sacco per lo spettacolo della Maga. Ricordo che eravamo davanti al manifesto e tu hai detto che sarebbe stato bello andarci»
«Costava una pazzia, tesoro. E poi proprio quella sera mi toccava il turno alle casse»
«I soldi li avevo messi da parte. E tu potevi scambiarti con Rosa, così eri libera per il teatro» Maria sospira «Ma i biglietti erano già finiti. Chissà come è brava quella Maga, se hanno comprato tutti i biglietti»
«E a noi che ci importa? Io so fare di meglio, vedrai. Adesso lasciami piazzare nella vasca con questo fenomenale bagnoschiuma. Poi la tua mamma profumatissima fa la pizza con le melanzane e il parmigiano»
Maria sente già lʼodore dellʼimpasto che cuoce, le sembra di sfrigolare nel forno insieme al pomodoro e al formaggio.
«Cʼè anche la torta di compleanno, vero?»
La madre esita, presa alla sprovvista. Maria spalanca la bocca e viene subito rincuorata da una risata e dallʼapertura del frigorifero: un bel dolce ricoperto di panna occupa il ripiano più alto.
«E un cartone animato?»
«Può darsi, cucciolina. Perché no?»
Maria sta per battere le mani, quando gli occhi le fanno uno strano scherzo. Al posto delle mattonelle beige del pavimento le mostrano – per un istante solo un istante – le strisce scolorite di un passaggio pedonale.
Brava Elisa