di Alessandro Pestarino
Copertina: Cristiano Baricelli
“A son tutte bale!”
(il generale Cadorna a proposito dell’imminente offensiva a Caporetto)
Dietro un muraccio annerito sta un picchetto di Carabinieri. Sento l’ufficiale sbraitare ordini, il carrello dei moschetti scattare. Facendomi avanti vedo due disgraziati che manco si reggono in piedi. Soldati come me. Il tenente sta allestendo un plotone alla buona. Tiene in mano il corpo del reato: una mezza toma di Asiago e un paio di calze da donna.
Uno dei due condannati, il viso livido e gli occhi schizzati, piange e si dimena. Due Carabinieri lo tengono fermo, e un terzo lo colpisce allo stomaco col calcio del fucile. Io assisto alla scena da una ventina di metri.
Il tenente gorgoglia rapidamente la sentenza, e i due vengono sbattuti contro il muro. L’altro soldato ride e ondeggia indiavolato. Cercano di tenerlo dritto, ma inutilmente. È ubriaco perso.
Quando il plotone spara secca all’istante il compagno, ma lui viene preso solo di striscio al fianco sinistro. Scocciato, l’ufficiale gli va vicino e gli fa esplodere la testa con una revolverata.
Riprendo la marcia invidiando quel poveretto che se n’è andato senza accorgersi di nulla. Eccoci qui, in fuga da più di due giorni, Caporetto ormai oltre l’orizzonte, e tedeschi e austroungarici che ci tallonano a suon di cannonate. La lingua dei soldati è quella dello stomaco. Ed è proprio un istinto viscerale che ci spinge in colonne disordinate verso una salvezza incerta. Abbiamo lasciato tutto: cannoni, mitragliere, munizioni, carri, cavalli, provviste, zaini, feriti…
Non siamo più un esercito. E con noi sta fuggendo la popolazione. Tutti vogliono passare il Tagliamento prima che lo Stato Maggiore dia l’ordine di far saltare i ponti. Cammino per forza d’inerzia. Anche io ho rubato da mangiare in una casa, ma non sono stato beccato. Non ho idea di che fine abbiano fatto i miei compagni e il comandante. Di certo, molti sono morti.
La gente attorno a me urla e corre. Le madri gridano il nome dei figli e i vecchi piantonano gli usci delle case decisi a morire piuttosto che arretrare di un metro. Lungo lo stradone fangoso ingombro di porcherie mi imbatto in una lettiga. Dentro c’è un alpino col petto squarciato. Pezzi di carne e ossa si mischiano alla giubba. La vita gli sta spurgando via dalla pelle. Mi avvicino e gli bagno le labbra con le ultime gocce d’acqua della borraccia. Brucia di febbre. Gli occhi sono rivoltati e una schiuma rossastra gli cola dalla bocca.
Provo a tirargli un poco su il capo e mi volto cercando qualcuno che mi aiuti. Siamo invisibili. Tutta quella massa scomposta striscia vai rapidamente. Urlo più volte, ma nessuno mi sente.
Alle mie spalle, un paio di soldati sta frustando un mulo che non vuole schiodarsi. Lo prendono anche a calci, ma la bestia non ne vuole sapere. Così, uno dei due, estrae la baionetta e gli taglia la gola. Si caricano quello che possono in spalla e fuggono via.
Torno a voltarmi verso il ferito, e mi accorgo che è morto. Uno strano terrore mi assale. Mi butto all’indietro affogando la faccia nella terra fangosa. Quella terra che conosce tutti i soldati e può assorbire il nostro dolore. Un numero incalcolabile di scarponi sfondati sfila in fretta a pochi centimetri dal mio viso.
Mi rimetto in piedi credendo che sia passato un tempo interminabile. Anche questo mi ha fatto la guerra: ingannarmi che i minuti fossero ore, una gavetta un pasto da re, un austroungarico morto lo scopo della mia vita.
Il cielo ricomincia a tremare di tuoni. I cannoni gli fanno eco. Mi tocco la spalla: il fucile non c’è più. Lo cerco attorno a me, e lo trovo spezzato in due accanto al corpo del morto nella lettiga. Probabilmente, la ruota di un carro ci è passata sopra.
Giungo alla fine dell’abitato e trovo un ingorgo spaventoso. Tutti fuggono tagliando per campi e boschi; persino quelli come me che non hanno la minima idea di dove sarebbero finiti. Mentre studio un modo per togliermi di mezzo alla svelta, vengo catturato dal vocione grasso d’un sergente. Cerco di ignorarlo, ma quello parla proprio a me. Mi prende per le spalle e mi dice: «Cuinnutu[1], seguimi!»
Senza aggiungere altro mi fa strada fino a un grande recinto con un precario tetto di legno. Dentro ci saranno una quarantina e più di buoi. Altri due soldati aspettano. Tre taniche di benzina accanto a loro. Ci guardiamo tutti per una manciata di secondi, poi il sergente ordina: «Bruciate tutto.»
Esitiamo. Ma lui prende una tanica, me la sbatte contro lo stomaco urlando: «Minchioni, bruciate tutto ho detto! Un cazzo dobbiamo lasciare a quei cuinnuti di mangiacrauti!!»
Cospargiamo il perimetro di benzina. Ci innaffiamo pure alcune bestie. Il sergente accende un cerino sfregandolo contro il lucchetto del recinto. Indietreggia di qualche passo e lo getta. Le fiamme divampano in un attimo facendomi strizzare gli occhi. Il fuoco corre rapido tutt’intorno intrappolando le bestie. Gli animali impazziscono andandosi addosso l’uno con l’altro. Quelli più vicini al recinto iniziano a bruciare. In un attimo il fuoco si mangia il tetto che fa piovere sui buoi tizzoni ardenti.
Noi stiamo lì a guardare, affascinati e atterriti da quello spettacolo. Abbiamo schiuso le porte dell’inferno. Quella massa mugolante si agita atrocemente bruciando. D’un tratto rompono il recinto e, fiammeggianti, si precipitano a morire nel rio sottostante.
Il sergente dà uno schiaffetto al soldato alla mia destra e ordina: «Tornate in formazione.»
Ce ne andiamo. Su un paracarro prima di un ponticello qualcuno ha scritto col carbone ‘FANCULO SAVOIA
Il tanfo della carne bruciata ci raggiunge e sale su per il naso esplodendoci in testa. Un bersagliere inizia a fischiettare un motivetto. Mi aggiungo anche io. Senza motivo mi sento allegro. Dalla vallata ci giunge il suono di una campana a martello.
Il mondo brucia. E noi con esso.