di Francesca Coppola
Copertina: Cristiano Baricelli
Sono stato sempre più vicino alla morte che alla vita, anche prima. Passeggiavo di giorno, solo di giorno, nei pressi del cimitero, facendo attenzione alle tombe in rovina. La decadenza ha da sempre esercitato su di me il suo fascino più sinistro: le date, i fiori finti, la polvere della dimenticanza. Le storie – leggende filmate sul marmo. Mi armavo di ceri e fiammiferi: era un rito. Fissare i gatti neri, soffermarmi sui tumuli bianchi, quel certo vento che cade dalle mie parti, come se il varco della sofferenza avesse un ingresso privilegiato fra me e gli spettri.
“Devi capire che non potevi fare nulla per lei” mi ripete, ma lui che ne sa. Mio padre si sta trascinando in cucina, gira a vuoto un caffè che non ha zuccherato. Me lo porge sapendo benissimo che non mi piace bere caffè amaro. Indossa la vestaglia marrone che non riesce a nascondere un corpo molto esile. Niente in questa casa sa di buono. Mi informa che la polacca gli ha chiesto l’aumento, per farsi compatire aggiunge che è quasi un infermo e poi si lascia andare ad una serie di invettive che non perforano le mie orecchie.
Stavo ancora pensando a quella e-mail di stamattina. Avevo ricevuto notizie dal centro al quale mi ero rivolto per delle cure sperimentali. Avevo letto comunque tutte le informazioni in allegato, sapendo che era inutile. Papà continua a fissarmi con aria stranita. La presenza della mamma non gli ha mai cambiato le giornate. L’importante è sempre stato ricevere un pasto, possibilmente caldo, e anche se i vestiti erano sporchi non si faceva una tragedia. Tutto era un rito: alzarsi, lamentarsi, abbuffarsi, uscire a comprare cose inutili, ritornare, sbraitare. A me erano iniziati a cadere i denti intorno ai trent’anni. Il dottore di famiglia insisteva con la storia dell’incuria. Lo stesso dottore che tenuto conto della cartella clinica di mia madre, mi aveva detto che ogni cura esistente era un palliativo. Un albero in cancrena non era diverso da mia madre. Entrambi respiravano ancora, ma le radici erano marce.
E cosa potevo fare io? Gli anni andati mi presentavano il conto altissimo, con rate sproporzionate. Avrei dovuto darti di più, mi ripeto. Potevo esserti sorriso. Potevo non alzare la voce quella volta, tutte le volte, le spalle, il muro, il silenzio. Potevo aprire più spesso la porta, abbracciarti per caso. Ora che le uniche parole sono lamenti indecifrabili in una stanza chiusa, dove io faccio finta di dormire piangendo gli effetti indesiderati delle tue medicine. Ora che ti vedo più fantasma anche se in carne ed ossa, sudi sulla sedia ed ogni odore scartavetra il mio tormento. Perché sai, mia carissima madre, ogni piaga che si apre sulla tua schiena, si dilata – nello stesso modo – nella mente.
A volte mi fermi mentre sono intento a contare il numero dei pannoloni, e sospiri.
Allora controllo le quantità dei tubetti minuscoli di creme che non risaneranno mai nulla, butto uno sguardo veloce al clistere e quasi sembri sorridere, l’illusione non dura che un secondo: non l’hai rivolto a me. Giri la testa, in un movimento incontrollato e le labbra si tendono in una smorfia. Gli occhi sono spenti, li osservo attraverso quei grandi occhiali dalla montatura nera e all’improvviso saltano alla memoria tutti i momenti felici, quando ancora il baccano regnava in questa casa. Eri solita alzare la musica a tutto volume mentre cucinavi un dolce. Nella stanza sembrava fosse scoppiata una bomba: il tavolo era pieno di ingredienti improbabili, che tu avresti trasformato in qualcosa di buono. Poi un giorno mi hai detto che nella simmenthal c’era una pozzanghera e tutto è cambiato. Credevo, in maniera sbagliata, che il momento più brutto fosse stato il giorno in cui non hai più ricordato il mio nome, e il ventre si contorceva, mentre provavi a ripeterlo, quando qualcuno te lo suggeriva. In un colpo solo mi hanno ucciso tutte le domeniche al cimitero, quando fin troppo piccolo mi portavi, come in tour, da una tomba all’altra.
“Te la ricordi quella del sacerdote, mamma?” certo che no. Sei stata tu a raccontarmi la storia di Angelo, il prete che durante la seconda guerra mondiale aveva dedicato tutte le sue energie a dare degna sepoltura ad ogni corpo. Il sacerdote inorridiva alla vista delle fosse comuni e così aveva elaborato un piano: sceglieva uno degli effetti personali del deceduto, qualora lo avesse, e lo posizionava sotto la croce di ogni sepoltura. Credeva che di sicuro qualche parente lo avrebbe cercato e in questo modo riconoscerlo sarebbe stato più semplice.
“Chi ti ha amato non può dimenticarsi di te” mi ripetevi abbracciandomi. Mi hai ingannato.
Non te l’ho mai detto ma ti ho sempre ammirato quando non ti importava di spendere soldi per l’acquisto dei ceri da destinare alle tombe dimenticate. Ti lamentavi dell’incuria, parlavi della distrazione come forma di violenza.
«Cosa mi diresti ora mamma? Io mi sono fidato di te!»
Nei nostri giri al cimitero, la mia missione segreta prevedeva di andare all’avanscoperta delle lapidi con più fiori, io dovevo prenderne qualcuno e tu ti saresti occupata di portarlo su uno dei marmi sprovvisti. Nella tua borsa non potevano mancare pezzi di stoffa ed alcol etilico. Ogni volta, prima di pulire ti inginocchiavi e scacciavi le foglie secche. Io ero piccolo e mi divertivo nel frattempo a farle scrocchiare. Non sapevo che le foglie secche sono belle solo se cadono dagli alberi che non ti appartengono. Non potevo avvertire la nudità dell’assenza.
Le memorie si danno, d’improvviso, appuntamento tutte insieme nella mia testa. Le foto, la chiesa, la scuola, l’ultima fidanzata portata a casa, il pane raffermo, il lavoro precario a Roma, la torta di banane. Cosa mi appartiene oggi? Nuvole di colpe sgualcite. Vederti far sera, ogni giorno più presto. Gli occhi che non mi riconoscono, il mio umido rimpianto.
Madre, mentre alleggerivo quella sigaretta bucando il cuscino, fumavo il latte caldo dei ricordi. Le pareti sono diventate sempre più strette, mentre ho dovuto imparare a rivoltarti come un calzino.
Siamo foglie secche dentro casa.