di Filippo Rosso
Copertina di repertorio
I due emisferi del continente americano non sono collegati. La Panamericana, che idealmente unisce l’Alaska alla Terra del Fuoco, nella realtà si interrompe in un villaggio di Panama chiamato Yaviza. Qui un ponte porta a una stradina in terra battuta che taglia gli alberi fino a Vista Alegre, due baracche in riva a un serpente d’acqua chiamato Rio Turia. Sempre più angusto, pieno di pozzanghere e rosso, il cammino si spinge fino a Unión Chocó: si dirama in sentieri di terra che toccano luoghi remoti chiamati nella lingua locale Yapé e Capetì. Non c’è più nulla fino alla frontiera colombiana, affogata tra la giungla del Darién e il parco naturale di Los Katíos.
La strada – la linea – presenta la doppia natura di unire punti e separare spazi. La terra che separa i due paesi, latitudinalmente, potrà essere tagliata a sua volta da una strada che la taglia in senso longitudinale.
L’istmo, nonostante sia un “grande ponte naturale gettato tra i continenti” divide insieme a collegare, come ricorda Franco Farinelli a proposito dell’”indagine sulla distribuzione dei geni [che] conferma in maniera […] netta la funzione separatrice dei grandi istmi continentali”[1]. Quello di Panama è l’esempio più evidente di questa contraddizione.
La linea della frontiera tra Panama e Colombia scorre invisibile nella giungla, segnalata a intervalli regolari dai palos, monumentali cippi di cemento armato. Di questi l’undicesimo, chiamato Palo de Las Letras, è alla fine di una strada che conduce a un villaggio panamense senza ulteriori collegamenti: la linea collega un punto immateriale a un’isola. Il sesto è sopra un corso d’acqua a malapena raggiungibile: la strada è l’acqua mobile del fiume. Queste sono le uniche tracce di una teoria cartografica. La giungla del Darién, chiamata tappo per la sua impenetrabilità, è enorme e vertiginosa. Chi prova ad attraversarla – i soli a farlo sono i migranti in fuga verso il Nord America – impiega mesi per fare poche centinaia di chilometri, tra sentieri aperti e subito riconquistati dalla vegetazione e labirintiche navigazioni su zattere di fortuna.
La selva è il luogo del mescolamento e dell’allucinazione. Esistono al giorno d’oggi pochissimi luoghi, al di fuori del Sudamerica, dove la selva ricopra una funzione così fondamentale per le società che la vivono. In modo analogo al bosco naïf o alla foresta simbolista, la foresta pluviale americana è l’ambiente primigenio dei legami misterici, delle assonanze tra voci e corpi, del corteggiamento di realtà e immaginazione. La linea, l’ingegneria, le misurazioni – quindi la strada, la ferrovia, il campo – trasformano i luoghi in uno spazio moderno, qui nella doppia faccia post-coloniale e di emancipazione: “ne deriva che all’interno dello spazio tutte le parti sono l’un l’altro equivalenti, nel senso che sono sottomesse alla stessa astratta regola”, mentre il “luogo, al contrario, è una parte della superficie terrestre che non equivale a nessun altra” e, come nel rituale magico, “non può essere scambiata con nessun altra senza che tutto cambi”[2].
Iquitos, nella regione amazzonica di Loreto, in Perù, è uno dei luoghi che meglio si prestano a farsi emblema di questa assonanza. La città non è collegata via terra a nessun’altra città della regione. È dotata di un aeroporto che per la maggior parte della popolazione rimane un’infrastruttura a uso esclusivo dei turisti. I locali vanno e vengono appoggiandosi a una flotta fluviale, la Henry, che è principalmente una compagnia di trasporto merci. Sul fiume, bisogna predisporsi a cinque o sei giorni di viaggio, a seconda del livello delle acque e delle correnti. Nell’interminabile tragitto si è costretti a sonnecchiare sulle amache, a una dieta invariabile di riso, plátano e pollo (gli animali vengono presi da una parte della stiva adibita a pollaio e macellati in cabina) e ad ammazzare il tempo facendo amicizia e sbronzandosi.
Iquitos è oggi la città isolata più popolosa del pianeta. La strada che avrebbe dovuto raggiungere la città più vicina si interrompe dopo qualche chilometro in un luogo senza nome. La sua costruzione fu pianificata all’inizio del secolo scorso, quando il boom della gomma aveva giustificato l’esistenza di un centro di commercio – la città – direttamente nel luogo di produzione. La volontà di collegare Iquitos per via terrestre si fermò davanti alla constatazione dei costi. L’opera avrebbe comportato un enorme lavoro di disboscamento, sanificare innumerevoli pantani, superare fiumi e fiumiciattoli, fare i conti con cedimenti e inondazioni. A decretare la fine del progetto e, con questo, dell’interesse per Iquitos, fu la Du Pont con il neoprene e ancora prima i chimici tedeschi con una mescola di gomma sintetica chiamata Buna-S.
Ma del resto fu sempre un tedesco che prendendo stanza a Iquitos e accendendo qui i suoi riflettori la rilanciò mezzo secolo dopo. Era il 1980, Werner Herzog aveva iniziato le riprese del suo Fitzcarraldo. A portarlo in Amazzonia non era stata la gomma, ma la natura impossibile di quell’avamposto, di quella città-isola racchiusa da seicento chilometri di lussureggiante inferno.
Nessun occidentale, neppure Alexander von Humboldt, è stato in grado di descrivere in maniera così impressionante il delirio che la selva rappresenta agli occhi del visitatore. Il viaggio di avvicinamento che Herzog fa verso Iquitos ricapitola, nel movimento, quello spiraliforme di una discesa negli abissi della follia. In Dante come in Dostoevskij, in Conrad, Poe, Bulgakov, o quella del Daddo ne L’iguana dell’Ortese. È una perdita progressiva di lucidità di fronte a un’incommensurabile forza gravitazionale, i cui echi sono percepibili già nell’anticamera della storia e vengono a richiamare da lontano:
“Cinque ore all’aeroporto con passeggeri isterici perché il volo per Lima era stato cancellato senza un motivo; quello successivo sarebbe partito solo quattro giorni dopo. Così ho avuto il tempo di indagare sul mio passaporto. Era sparito, ed è stato ritrovato soltanto grazie a una serie di coincidenze”.
Poi, ancora più vicino, più in basso:
“La mattina avvilito. Mollare? Dopo mesi e mesi di lavoro? Leggera febbre e naso che cola in continuazione. La nave di Fitzcarraldo nella foresta vergine a Puerto Maldonado. Il belvedere nei pressi di Tres Cruces. Bagnare l’elica. Difficoltà con i delfini. Insegnanti in sciopero si sono barricati in chiesa da dieci giorni e suonano le campane. Al mercato ho assaggiato un pezzo di scimmia arrostita che aveva l’aspetto di un bambino nudo.”
Infine:
“All’improvviso si è scatenata la bufera e ha fatto volare i fogli di una vecchia lettera contro la zanzariera della finestra. La pioggia entrava orizzontale da sotto il tetto. Mi sono fatto un caffè, forte, di quelli che uccidono. Fuori scende l’acqua, gocciola dal tetto. Le grosse foglie dei banani si chinano con riverenza e accolgono la pioggia. La giungla sopporta paziente. Descrivendo la pioggia si descrive un intero continente”[3].
La selva e l’incompiuto sono l’aberrazione dell’idea di linea, per il distinguo folle che fa Deleuze quando afferma: “Non è la linea che unisce due punti, è semmai il punto l’incontro di molteplici linee”[4]. Ogni punto della selva è quindi solo apparentemente uno spazio, trattandosi in verità di un luogo assoluto. Il colore e la forma definiscono il reame del decorativo, facendolo esplodere e moltiplicare infinite volte, là dove “colossali alberi intricati si artigliano uno con l’altro come in una gigantomachia”[5].
Iquitos è il rifugio, il luogo di osservazione dell’inizio di qualcosa di orrido. La promenade con le balaustre in stile coloniale del centro cittadino apre la vista ai quartieri galleggianti di Belén, dove i più poveri convivono e combattono con le piene del fiume. La vista che spazia appena oltre i limiti è accerchiata dalla vegetazione, dalle cime degli ebani, dalle nuvole di uccelli. Chi prosegue sul Rio delle Amazzoni può raggiungere la frontiera in un paio di giorni di navigazione, arrivare a Leticia, il perno d’incastro tra Colombia, Brasile e Perù. Questa è una delle due sole uscite.
A differenza della Panamericana e della strada immaginaria che avrebbe dovuto collegare Iquitos al resto del mondo, la via Transamazzonica esiste. È un’autostrada che divide orizzontalmente il Brasile da João Pessoa a Lábrea, tagliando gli stati di Paraíba, Ceará, Piaui, Maranhão, Tocantins, Pará e Amazonas.
Ma anche questa strada è rimasta a lungo sulla carta. Inaugurata trionfalmente nell’inverno del 1972, deve ancora essere completata. Parte del tracciato non è asfaltato, in più tratti appare come una pista di terra battuta, rossa come un campo di tennis.
La questione, di nuovo, è che non si può lottare con la selva in maniera lineare e diretta. Bisogna confrontarcisi con movimenti circolari, moti concentrici in cui però il punto centrale è stato fatto saltare molto tempo addietro da una teoria, dal ronzio di un insetto imprevedibile. Quando Herzog fa risuonare la voce di Caruso nella giungla (o porta il battello fluviale sulla cima di una collina falciando e addomesticando gli strati della vegetazione), vive un momento simile a quello vissuto dagli operai all’opera sulla Transamazzonica. Chi è costretto a lavorare in regioni isolate, affollate di vite non-umane, sa di trovarsi al cospetto di forze primigenie. Sa quindi di dover tergiversare, attendere, ripiegare. Il set di Fitzcarraldo e il cantiere della Transamazzonica furono costellati di drammatici incidenti.
È in generale l’addomesticamento della terra a rivelarsi un’idea teorica che non trova riscontro nel reale. Così David Foster Wallace nel suo racconto Tennis, trigonometria e tornado: “Il terreno [del Midwest americano], visto dall’alto, fa pensare decisamente a una scacchiera: quadrati di una precisione maniacale di terra coltivata color grigio o color kaki, tutta tagliata e divisa da strade asfaltate dritte che sembrano fatte col filo a piombo (in genere in campagna le strade sembrano più ostacoli che via d’accesso).”
Ma poi: “I punti di forza del terreno sono anche le sue debolezze. Dato che la terra appare così regolare, chi progetta club e parchi raramente si preoccupa di spianarla prima di stendere l’asfalto per i campi da tennis. Di solito il risultato è una leggera inclinazione che noterà soltanto un giocatore che passi parecchio tempo sui campi. […] Cosicché tutti i campi da tennis, a partire da quelli tenuti alla perfezione nelle zone più ricche dell’Illinois, sono di per sé piccoli paesaggi rurali, in cui ciuffi d’erba, spaccature, pozze formate da infiltrazioni d’acqua sul terreno sono parte integrante della situazione”[6].
Negli anni Novanta del secolo scorso, a Iquitos, il padrone della flotta Henry ha patrocinato la costruzione di un campo da golf. Si dice che per sé abbia fatto costruire una villa a forma di battello. Nel suo giardino e sul green dei campi da golf le liane hanno lasciato il posto a un pratino all’inglese. Lì immaginiamo il tormento delle zanzare sulla pelle, delle mosche intorno al concime nei vasi di fiori…
Il Sud America è entrato ormai stabilmente nel raggio economico della Cina in espansione. Non stupisce perciò che il suo futuro, sul fronte dei commerci e delle infrastrutture, sia legato più alle sorti di Pechino che a quelle di Washington. Proprio a Pechino, nel 2013, il presidente boliviano Evo Morales si fa illustrare dal segretario generale cinese Xi Jinping il piano di un corridoio ferroviario che, se realizzato, metterà in collegamento i porti del Pacifico con quelli del Brasile. L’opera sarà una delle più mastodontiche mai viste nell’intero continente. Coinvolgerà imprese e consorzi mondiali sotto il finanziamento massiccio della Cina, 250 miliardi di dollari d’investimenti a lungo termine per le regioni coinvolte, 60 miliardi per la sola opera. Un corridoio pensato per attraversare il Cile, l’Argentina e il Paraguay (la Bolivia sembra essere stata estromessa in una revisione del piano), con diramazioni che si irradiano fino al Perù lungo la costa pacifica. Collegamenti che tranciano spazi fino a oggi percorribili solo grazie alle corriere, salite durissime e tornanti di montagna affollati della voce di donne e bambini, di animali domestici e uccelli salvatici. Il Sudamerica può diventare uno spazio omogeneo?
Attraverso le sue opere, l’artista venezuelana Sol Calero pone la stessa domanda. Il suo lavoro si concentra sui temi legati all’immaginario estetico latino-americano e in particolare alla sua deterritorializzazione. Le installazioni che propone sono spesso interi set di vita popolare ricreati dentro le gallerie d’arte: “El Autobús” (2019) è uno spazio della Tate Liverpool modellato come un grande pullman; “Casa del cambio” (2016), lo sportello di un cambiavalute venezuelano ricostruito per la fiera dell’arte di Basilea; analogo “Amazonas Shopping Center” (2018), nell’Hamburger Bahnhof Museum di Berlino, che si presenta non solo come luogo, ma come l’ingresso a dimensioni nascoste. In questi “spazi dentro gli spazi”[7] il visitatore si trova non solo trasportato in quel mondo, ma percepisce di presenziare a un astratto (ma ben preciso) “concept tropicale” di palme, cromie accese e luci al neon, lo stesso cocktail che dà vita agli spazi turistici a tema allestiti nelle città occidentali. Non c’è quindi solo lo spaesamento, ma il luogo comune e la definizione di un’agorà esotica che unisce nostalgia a brutalità, uno pseudo-esotismo così come descritto da Victor Segalen, “sensazione di sorpresa, rapidamente spenta [dulled]”, che “è volentieri di tipo ‘tropicale’: palme da cocco e cieli torridi”[8]
L’arte di Calero è un gioco di superfici capaci di incidere nella sostanza delle cose: è proprio in quello pseudo- la constatazione del dolore di ogni luogo che diventa spazio, di ogni soggettività che diventa oggettività. Ma il diverso può sopravvivere? Secondo Segalen, si tratta di salvare un’oasi: “Così intesa come parte integrante del gioco dell’intelligenza umana, la sensazione di Diversità non ha nulla da temere dalle agenzie di viaggio della Thomas Cook, da transatlantici e aerei… Forse si stabilirà un equilibrio per cui la costante mescolanza di individui sarà riscattata dal piccolo numero di individui che conserveranno la capacità di percepire la Diversità”[9].
Nel frattempo, continuerà la “gigantomachia” tra lo sviluppo della linea, delle vie e dei collegamenti che taglieranno le porzioni ancora inaccessibili del continente sudamericano e della Terra. E acquisteranno ancora più risonanza la nostalgia e la compresenza, se non dei sensi, almeno degli stati mentali alla base dell’immaginario mitico di queste regioni.
L’oralità del racconto ci viene in aiuto per raffigurarli. Storie di disillusioni, di prodigi e di spaesamento, quella del giovane mercante che attende il giorno di festa per trovare una ragazza, e questa, dopo avergli concesso il primo appuntamento, lo attira sul luogo dove è sepolta (Aventura en San Juan). I pescatori che si tengono lontani dall’isola dove vive la padrona del lago, per poi vederla trasformarsi in un’indicibile creatura e darsi alla fuga (Renacal). I bambini persi nel bosco che si tramutano in uccelli (Ayaymama).
Perché collegare in un senso comporta separare nell’altro, ogni risoluzione è avvolta dall’ombra del dubbio e dell’insuccesso. La familiarità ha una patina profonda di nonsenso. Le storie riprendono il gesto elementare di andare a caccia e di perdersi, l’incontro con gli animali sono un motivo di smarrimento cognitivo, il ritorno a casa è il suggello dell’incomprensione di ciò che si è visto, dell’incompletezza dei sensi e della conoscenza.
Nel canto amazzonico La Sachamama y los madereros, tre tagliaboschi si spingono in cerca di legna in una zona remota della selva. Facendosi largo con fatica nello spessore della vegetazione, al tramonto trovano riparo in una radura. Questa radura li colpisce per un silenzio innaturale che dura tutta la notte e non cessa neppure all’alba, l’ora in cui nella foresta si avvertono più forti i richiami degli uccelli. Rimettendosi in marcia, si imbattono in un tapiro: lo seguono fino dietro un albero, dove invece li sorprende una bestia che non hanno mai visto, “enorme come un dinosauro, agile come un serpente, gli occhi umidi e lampeggianti”.
Il tagliaboschi più anziano riconosce in quella creatura la Sachamama, padrona e madre di tutte le foreste, e non sa se è lei ad aver attirato il tapiro oppure quello una sua manifestazione. Indugia ancora, resta immobile a capire cosa sia meglio fare, ma la visione dei due compagni terrorizzati gli fanno prendere una decisione:
“Bisogna ammazzarla subito, altrimenti ci ammazza lei.”
Così, per lui, parlano tutti gli uomini dotati di ragione: ma il senso di un dubbio più grande, di un cruccio esistenziale, li coglie nella conseguenza di quella decisione – la linea demarcatrice – che li danna con lo stesso atto che li salva. L’immagine si stampa negli occhi del lettore:
“Caricano i fucili e sparano all’unisono, puntando alla testa della bestia. I suoi potenti rantoli fanno rabbrividire la foresta”[10].
Opere citate
1. Farinelli, Franco, Geografia, Einaudi, 2003.
2. Ivi.
3. Herzog, Werner, La conquista dell’inutile, Mondadori, 2007.
4. Deleuze, Gilles, Pourparler, 1990.
5. Herzog, Werner, op. cit.
6. Foster Wallace, David, Tennis, trigonometria e tornado, in “Racconti matematici”, Einadi, 2006.
7. Nedo, Kito, “Sol Calero – Im Garten der Chiffren“, in “Art – Das Kunstmagazine”, settembre 2019.
8. Segalen, Victor, Essays on exoticism, Duke University Press, 2002.
9. Ivi.
10. AA.VV., Cuentos de la selva peruana, Editoria Palomino, 2005.
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