di Domenico Caringella
Copertina di repertorio
Sono stato il biografo ufficiale di Kadijah al Said, la Sultana Nera, per un numero indeterminabile di anni: la fissità del deserto e le mollezze della prigione dorata che mi era stata riservata, hanno infatti minato ben presto e senza rimedio la mia cognizione del tempo.
Sono rimasto al servizio di quella donna senza età, cui la legge Salica aveva impedito di diventare quabus di Uqbar in favore del fratello, uomo inetto e senza qualità in tutto anche nel gioco del tris, sino al giorno in cui ho scoperto che a trattenermi lì non erano state le guardie armate fino ai denti, le velate minacce di un futuro da eunuco o le paranoiche prospettive di un lento avvelenamento, ma semplicemente la mia volontà debole e prostrata, il timore di tornare a casa a essere di nuovo Nessuno.
Kadijah viveva nel lusso più sfrenato, e tutti noi con lei.
Alla mancanza di averi ereditari aveva sopperito armando una flotta corsara imprendibile che batteva a tappeto lo stretto di Hormuz e depredava ogni barca che ne incrociava la rotta.
Ma il vento era davvero cambiato quando i suoi giannizzeri, era l’87 credo, erano riusciti a dare con successo l’arrembaggio a un sommergibile sovietico disorientato dalla perestrojka e a trafugare due testate nucleari tattiche a media gittata con codici annessi, facendo di noi una potenza atomica.
I giorni però trascorrevano inesorabili, uguali l’uno all’altro.
La Sultana, che era pur sempre la viziata rampolla di petrolieri megamiliardari senz’altro generati da una stirpe millenaria di torturatori, escogitava ogni giorno mille escamotages per allietare le ore all’ombra del castello incastonato nell’oasi che le faceva da base, già inaccessibile e ora reso inespugnabile dalle bombe russe.
Quella delle sveglie umane era solo una delle tante stravaganze di Kadijah.
La faccenda stava in questi termini: puntava un musicista, lo faceva seguire anche per anni dai suoi sgherri comandati da un fuoriuscito del Mossad, quindi lo faceva rapire e condurre all’oasi dove lo costringeva a restare appollaiato tutta la notte sul comodino di alabastro accanto al suo letto, e a svegliarla a ore fisse al suono della voce o dello strumento prescelto.
Per il resto della giornata, sino al tramonto, gli artisti erano liberi di circolare e gozzovigliare per il castello.
In tanti sii erano alternati al capezzale della qabus: Jim Morrison, Xavier Cugat, la Callas, la prima tromba della Filarmonica di Berlino (chiamato a eseguire sino alla nausea il tema del Guglielmo Tell di Rossini), e tutti ci mettevano poco a venirle a noia, finendo infilzati o piantati tra le palme.
Sino a quando all’oasi non arrivò lui: Ian Anderson.
Kadijah lo aveva voluto da solo, senza i Jethro Tull.
Lo aveva sentito suonare al flauto Serenade to a Cuckoo e le era bastata mezza giornata per farlo prelevare da un pub di Dunfermline, Scozia, e portare da lei.
Ora, Ian è ancora lì. Diabolico pifferaio magico l’ha conquistata, Kadijah, l’ha incantata e incatenata con il suo flauto traverso, al cui suono la Sultana cade in ginocchio, sparge i capelli corvini sul pavimento foderato di tappeti antichi e aspetta il trillo, la serenata, il cucù. Lui può andare e venire a suo piacimento.
Io sono riuscito a scappare invece. E non sono più niente. Sono nessuno.
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