di Alessandro Pagni
Copertina di Annibale Mastroluca
Maïssa è un gomitolo di braccia e plaid incastrati tra le gambe, schiacciata contro la fodera a fiori della vecchia poltrona che fu di sua nonna. Tiene fra le dita, per scaldarle, un tazza piena quasi all’orlo di caffè americano bollente.
Il labbro superiore appoggiato al bordo sbeccato del recipiente, sfiora il liquido e si ritira per una minuscola ustione.
Fuori è una giornata assolata di dicembre, col vento che abbassa drasticamente le temperature e scivola sui cornicioni delle case usandoli come trampolino.
Dentro al televisore, un uomo vestito da sciamano agita in aria un bastone agghindato con fronzoli e feticci pendenti, sormontato da un teschio maculato, mentre dialoga a grugniti con una dentiera meccanica.
Poi conta 1, 2, 3 e allargando il mantello con gesto teatrale, attacca la sua minacciosa e controversa canzone d’amore I put a spell on you /Because you’re miiiiiiiiiine…, sotto l’arco di una struttura muraria che allude a una cripta o a un sotterraneo sinistro.
L’afroamericano, dalla pettinatura presleiana, sfoggia sotto le narici un osso a falce di luna, che gli disegna sul volto un paio di baffi alla Dalì, agita minacciosamente il suo scettro e grida con tutto il fiato che ha in petto:
I love you, I love you
I love you, I love you anyhow
And I don’t care if you don’t want me
I’m yours right now…
Maïssa sorride, lo trova buffo.
Segue l’onda del blues, cullando la testa da sinistra a destra, e poi ancora.
È divertente guardarlo mentre strabuzza gli occhi spiritati e sbuffa con le labbra come un cavallo permaloso, mentre davanti a lui esplodono giochi di fumo dozzinali.
Ma le urla, gli ululati, i borbottii da santone strampalato, l’afferrano allo stomaco, le piantano in testa flash di pensieri strani, come mani voraci che la trascinano dentro a un buio denso, gommoso: allora chiude gli occhi e si lascia portare giù.
Il pezzo è finito.
Spegne il televisore e a malincuore, lascia la poltrona. È arrivato il momento di lavorare.
Procrastinare è il male endemico, la patologia che divora certi individui rubandogli i giorni, mangiandosi intere settimane, come fossero tratti abbandonati di litorale, per poi usare come scudo, come scusa, lo spauracchio comodo dell’ispirazione.
Raggiunge il tavolo dove assembla i suoi mondi. Fotografie in bianco e nero, ritagli di parole e sezioni di organi da libri di anatomia, piccole gambe e braccia di plastica, un cestino pieno di foglie secche, una bambola (forse un tempo una Barbie) mummificata dentro a lacci e bende di colore grigio sporco, che aspetta ancora di trovare un contesto. E poi volti su volti. Vite alla deriva.
Ne prende in mano due, un uomo e una donna. Copre a entrambi gli occhi con una pecetta bianca, poi con stizza li lascia cadere sul tavolo. Non sa che farsene, non ha idee e intanto la mattina langue, diventa tiepida e noiosa come quel caffè abbandonato sul bordo del tavolo senza troppi complimenti.
Si alza di nuovo e raggiunge la cucina. Decide di sbrigare un po’ di faccende, ma non fa in tempo a insaponare due stoviglie, che percepisce qualcosa di strano, una presenza tangibile che nella sua testa si palesa come un’interferenza.
La schiena è come se fosse percorsa da scosse imbizzarrite di un’elettricità gelida. Sa che è assurdo, ma la pervade un senso di paura e precarietà. L’abbozzo di una vertigine.
Smette di occuparsi dei piatti. Si blocca con le mani dentro al lavandino, ma non si volta. La schiuma lentamente si chiude intorno ai polsi. Sa con esattezza matematica che c’è qualcuno con lei nella stanza, qualcuno che non fa rumore, che non ha odore. E ignora da dove possa essere arrivato.
Resta immobile, il capo chino. Fino a che non guarda può tranquillamente convincersi della stupidità di quella sensazione. Fino a che gli occhi restano ancorati alla catena che tiene chiuso il tappo del lavello, è sicura che non le succederà niente.
Poi d’improvviso, con l’impennata di una folata di vento, torna la voce grossa di Screamin’ Jay Hawkin, i fraseggi di chitarra, la sezione ritmica con l’incedere sempre uguale a tessere un tappeto uniforme e ipnotico. Riprende da metà del brano, come se qualcuno avesse acceso di nuovo il televisore e un lembo di tempo si fosse riavvolto. Il suono non arriva però da un punto definito, sembra una filodiffusione capillare a circondarla, come se i muri trasudassero note e dal soffitto gocciolassero parole.
I put a spell on you
Because you’re mine
Stop the things you do
Watch out, I ain’t lyin’…
Ora Maïssa si volta, con il battito impazzito che fa inciampare il respiro.
La poltrona di sua nonna è abitata. Una figura esile, certo di donna, le dà le spalle mostrando un lungo velo nero che le copre il corpo e la testa. Tra le dita sembra snocciolare il rosario di un gambo d’orchidea e appena prima che questa si volti, quell’attimo in cui ne fotografa con gli occhi e la mente il profilo, le ricorda una madonna nera e rapace.
Il tempo è congelato, si trova davanti, con sgomento, al suo sguardo riflesso. La donna velata al posto del volto ha uno specchio. E Jay Hawkin non la smette di gridare, come un parassita che si è intrufolato dall’orecchio della giovane artista, per spingersi in fondo, negli angoli in penombra a rivoltarle il cervello.
Scuote la testa, mentre raggiunge la finestra. La apre e lascia che l’aria fatta di spilli la prenda a sberle. Non sente più la musica. Ma non ha il coraggio di verificare la natura della sua allucinazione. Resta a guardare i tetti di Parigi, che somigliano a una catena montuosa senza fine. Respira. Respira prendendo boccate piene, respira ancora per recuperare il tempo e alimentare la brace debole di un po’ di lucidità.
È stato solo uno scherzo della testa. Sonno arretrato e troppo caffè, pensa.
Torna alla poltrona che adesso è vuota. Ride imbarazzata come se un pubblico invisibile l’avesse appena fischiata e si sente stupida.
Chiude la finestra e appoggia la fronte sulla superficie trasparente, godendo della piacevole sensazione di fresco data dal contatto con il vetro. C’è un alone scuro che circonda il suo volto come un’aureola, stringe gli occhi per mettere a fuoco i dettagli. Un albero si staglia di fronte a lei con la sua folta chioma, il vento la muove in ogni direzione e le foglie somigliano alle creste di fuoco di una stella morente. Il suo riflesso e l’albero diventano una sola cosa, sente le radici che le inchiodano le gambe al pavimento, dentro lo stomaco il vorticare secolare degli anelli, l’artrite dei nodi, la gonfiano di consapevolezza e Parigi fuori non c’è più. C’è il mare.
Di nuovo anche I Put A Spell On You, ma senza voce, solo la base, come se Screamin’ Jay Hawkins fosse andato altrove, come se fosse arrivato dentro di lei.
Un mare che procede al contrario, con le onde che fuggono dalla spiaggia seguendo un ritmo in levare che scandisce due parole: Maya Deren. Un nome. Un suono che si ripete: Maya Deren Maya Deren Maya Deren.
Un nome che diventa un ritmo, ossessivo.
MayaDeren MayaDeren MayaDeren.
MayaDerenMayaDerenMayaDeren, Mambo.
MayaDeren MayaDeren MayaDeren.
MayaDerenMayaDerenMayaDeren, Mambo.
La fa ballare, muovendo le spalle nello stesso modo in cui le onde viaggiano a ritroso. La fa somigliare a un gallo mentre torna sui suoi passi e non ha paura adesso, si lascia prendere e ogni volta che ripete quel nome batte forte il piede nudo sulle tavole del parquet. Salta. Ruota su se stessa. Muove le mani dalla terra al cielo. Dalla terra al cielo, ancora, ancora, ancora. Si piega indietro e sembra quasi un ragno, gli occhi diventano bianchi, se ne vanno a guardare di cosa sono fatti i sogni, mentre il corpo è una bestia senza pace, libera, che trabocca di gioia rabbiosa.
Nel crescere infinito delle pulsazioni dimentica chi è, che ore sono, che giorno è, che mondo è. Poi perde l’equilibrio e cade sulla poltrona. E quando nei sogni si cade, inevitabilmente un attimo dopo ci si sveglia. E Maïssa si sveglia.
La televisione ancora accesa trasmette un documentario sulla giovane regista di origine ucraina che negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, con l’attitudine surrealista che contraddistingueva i suoi lavori, giunse fino ad Haiti e rimase rapita dall’animismo e dalla complessa ritualità del Voodoo, facendone una ragione di vita, e forse poi di morte.
È stato un sogno. Solo un sogno assurdo.
Si passa la mano sulla bocca per asciugare gli umori del sonno e raggiunge immediatamente il piano di lavoro.
A quel punto non si ferma più, fino a quando l’equazione del suo intuito non è perfettamente bilanciata e l’immagine mentale, quel progetto finalmente limpido e perfetto disegnato dietro ai suoi occhi, non è compiuto.
E questo è il senso più intimo del fare.
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