di Nicole Trevisan
Copertina di Annibale Mastroluca
«Caffettino, domani?»
«Ho mezz’ora al massimo, poi la baby sitter me li lascia sul marciapiede.» Si lamenta Marta, dall’altra parte del telefono. Gorgheggia un lamento scenico che fa sogghignare Alice.
«La sua pazienza ha un limite.»
«Sapesse la nostra. Ormai non si fanno più figli, ma diavoli. Prega di non trovarti in classe i miei, tra quattro anni.» Rilascia l’ennesimo sospiro, può immaginarla lanciare un’occhiata apprensiva al marito, ai gemelli o alla prole al completo. Infatti, abbassa la voce.
«Dimmi, si è più fatto sentire?»
«No, lascia perdere. Meglio così, ti dico. Evito di pensarci, in questa fase.»
«Che storia, Ali. Vedrai che la superi, sei forte. Non farti buttare giù da uno stronzo del genere.»
Fabrizio, ovvero lo stronzo, aveva trentasette anni, uno in più di lei; lavorava in una grossa azienda che produceva arredi per navi. Era un falegname, ma era diventato addetto all’organizzazione del magazzino da quando la sega circolare gli aveva tranciato l’indice della mano sinistra all’altezza della seconda falange. Era successo cinque anni prima; il giorno del matrimonio l’aveva tenuta in tasca, accomodandosi in una postura rilassata e sbilenca. Anche nei ritratti dei loro baci, sotto a una tempesta dorata di sole che li occhieggiava tra foglie di quercia. Alice avrebbe voluto stringerla nella sua, sfregarle il cerchio rigido della fede sulla sommità amputata dell’indice, dove la pelle era arrossata e tenerissima.
Lo ricorda più tardi, sorseggiando una tisana al finocchio, fissando la loro foto appesa al muro. Erano una bella coppia. No, non era vero che non si erano più sentiti: gli scriveva ogni sera, circa. I messaggi erano lunghi o stringati a seconda di quanto era andata male la giornata, variavano dalla constatazione del dolore che le provocava la separazione a rancori su dilemmi passati, accuse, scuse; invariabili erano le promesse di rimediare a ogni errore commesso. Fabrizio a volte rispondeva. Le diceva di stare calma, era monosillabico, distante. Voleva liberarsi di lei per sempre. A lui non importava più niente, aveva preso le sue cose e se n’era andato senza sforzarsi di capire. Non ci aveva nemmeno provato.
Sente la tazza raffreddarsi, il liquido all’interno rimanda la sensazione di un abbandono verde pozzanghera e nessun piacere. Si alza, la svuota nel lavandino. Si chiude in camera – la loro camera – e dopo una breve ricerca da una finestra di navigazione privata sullo smartphone, trova quello che le aggrada e si rintana sotto le coperte con un bunny incastrato tra le cosce. Quando riemerge, scaglia via la trapunta, si alza e con una vaga opalescenza che le cola verso il ginocchio si accoccola sul water e ricorda di aver dimenticato che domani c’è verifica.
A ricreazione cede il turno di sorveglianza a una collega e se ne scappa a fumare vicino all’uscita d’emergenza. Sta cercando di smettere e ha contato di potersene concedere al massimo cinque a settimana, ma ha già sforato di due e, arrivata al filtro, decide che è troppo severa con sé stessa. Può fumarne quante ne vuole e se ognuna le accorcia la vita di undici minuti, ben venga. Ha già il pollice sulla rotella del bic che viene raggiunta dal suono epilettico della campanella, così sbatte dietro di sé la porta antipanico e si fionda verso il cortile interno.
C’è il sole, una bella giornata per essere autunno. I bambini svolazzano con giacche leggere sopra ai grembiuli, sollevano nubi di polvere e ghiaino imitando versi di pinguini. Vorrebbe sorridere, non interromperli, lasciarli strillare e correre senza costringerli a elencare fiumi e pianure d’Italia, ma è imbambolata da un secondo di troppo. E su ventidue riesce a contarne solo diciotto.
«Aurora, dove sono gli altri?»
«Gli altri chi?»
«Aspettate qui, vado a chiamarli.»
«Sono dietro la siepe, maestra.»
«Non hanno sentito la campanella.»
Le discussioni si ingarbugliano alle sue spalle, alzano la voce e cercano di imporre congetture sul ritardo di Benedetta, Karim, Sofia e James. Non aveva torto chi aveva suggerito fossero dietro la siepe. Li sente parlottare. Infila la testa tra le foglie d’alloro, in un varco scompigliato dal loro passaggio e li trova raggrumati a terra, contro la rete che divide il cortile della scuola dal giardino della Villa.
«Che cosa state facendo.» Abbaia, con la miglior impronta autoritaria che riesce a grattarsi dalla gola. «Non si può stare qui. Se vi succede qualcosa è responsabilità mia.» Si sente in dovere di puntualizzare, reiterando un copione appreso vent’anni prima. «E c’è verifica.» Ricorda, condividendo il trauma della sera precedente.
I bambini girano la testolina verso di lei e Benedetta apre la boccuccia impiastricciata di crackers.
«Maestra…»
«…Abbiamo trovato una cosa.»
«Non siamo stati noi.»
L’intonazione a cappella di scuse si completa quando tutti si alzano in piedi, svelando il quadrato di terriccio che stavano aggredendo a mani nude. C’è qualcosa di soffice che emerge da lì, una peluria bruna, forse nera. Un vento impercettibile sembra gonfiarla, creando l’illusione di una bestia addormentata prima di riuscire a rintanarsi sottoterra. Una talpa, pensa Alice. Giocano con una talpa morta. Chiude gli occhi. Carica l’invettiva maggiore, sale di un’ottava sulla scala del rimprovero e principia con un’inspirazione che fa detonare l’urlo dall’esofago.
«Vedete di filare in classe e lavatevi le mani. Immediatamente».
È l’ultima a uscire dalla sala insegnanti. Ha rinunciato al caffettino con Marta, chiudendosi in penombra a correggere la pila di compiti della 3^B. James sta migliorando con la grafia, nota, e questo la riporta alla bravata della ricreazione, quando con gli altri tre stava… Ma cos’era, che stavano disseppellendo? Posa la penna rossa e sbircia fuori dalla finestra. Persiste un alone di luce deprimente, il cortile interno è un vuoto polveroso e disabitato, cinto dalla siepe: alloro altissimo e spelacchiato da decenni di scorribande infantili; oltre, le mura scure della Villa tacciono. Domani, non solo in quattro, tutta la classe si sarebbe fiondata a cercare la talpa, qualcuno l’avrebbe toccata, prendendosi chissà quale malattia e avrebbe dovuto spiegare ai genitori, alle colleghe che… No. Deve farla sparire e buttarla nell’immondizia. Se i bambini si fossero sorpresi di non trovare più il loro tesoro, avrebbe replicato, ridendo, che si erano immaginati tutto.
Imprecando, cerca di affondare con la punta della scarpa nella terra attorno alla carcassa. Chiunque l’abbia seppellita, ha fatto un lavoro pessimo – si piega in avanti, rassegnata a toccare quella cosa morta. È più grande di quanto le era sembrato al mattino e ha una coda, mozzata. È la prima cosa che nota e che le aggroviglia nello stomaco una sensazione incompleta che rifiuta di elaborare. Trattenendo il respiro, afferra la pelliccia sul fianco dell’animale e prova a scuoterlo. Morto, è morto. Freddo, intatto: niente vermi né insetti che pasteggiano con le sue interiora. Occhi chiusi, muso allungato e triangolare, zampe affusolate. Alice conficca le unghie sul cadavere di un gatto e, sollevandolo, il campanellino agganciato al collare emette un trillo.
«Vaffanculo.» Dedica a ignoti, armeggiando con una mano sola nella borsetta per estrarre una shopper di cotone per convertirla a sacco mortuario. Il gatto ci si affloscia dentro e infilando i manici a tracolla, giurerebbe di sentirlo fare le fusa contro il fianco. Deve muoversi. Reprime un conato di vomito attraversando il corridoio fino all’uscita e saluta il bidello con un cenno, volando nel tragitto fino alla macchina, dove scaraventa il fardello, nel bagagliaio. Quando richiude la portiera e si mette alla guida, avverte un calore anomalo là dove si era posato il corpo, poco sopra l’anca. Suggestione, si rimprovera. Alza lo sguardo, inquadra la sagoma della scuola, un rettangolo giallognolo bucherellato da finestre in simmetria col portone che affaccia sul parco pubblico. Magnolie, aceri; uno scheletrico ginko biloba si erge su un tappeto di foglie a ventaglio. Sulla destra, la Villa scompare nel buio. Da quando insegna alla Vittorino da Feltre, non ha mai visto una luce accendersi sopra l’ingresso né trapassare le fessure delle imposte. È consumata in un grigiore petroso, snella e irruvidita da muschi e gas di scarico, circondata da pini alti abbastanza da svettare oltre il tetto, dove emergono camini appostati in guardia. Il cortile è sempre pulito, la ghiaia è pettinata, qualcuno ci vive e la tiene in buono stato e, considera, il gatto deve venire da lì: abbastanza pasciuto da essere domestico, collarino di stoffa, deceduto in prossimità di casa. A seppellirlo, potevano essere stati i bidelli, bramosi di risolvere la questione dopo averlo trovato stecchito.
Mette in moto, i fari scivolano sull’asfalto aprendo la via verso il quartiere residenziale con ciò che resta della sua vita coniugale; tira dritto finché la strada comunale non si restringe attraversando non più sequenze di villette, ma distese di campi desertificati dall’autunno. Oltre la gobba di un ponticello, frena. Il canale di scolo che ci passa sotto è abbastanza profondo per ingoiare il cadavere. È raggrumato sul fondo della shopper, il viaggio in macchina non l’ha spinto da un lato all’altro del bagagliaio. Impugnando il fardello, sente la vibrazione del campanellino risalirle le ossa della mano. Lo lascia cadere.
«È solo un merdoso animale crepato male.» si carica a denti stretti e affonda un secondo tentativo di recuperare la borsa, ma viene sorpresa dallo sfarfallio di un’auto che si ferma alle sue spalle.
«Signora, è vietato lasciare i rifiuti per strada, non lo sa? C’è il cartello.»
A parlare è un uomo calvo e basso, dall’aria tonda e benevola – non per questo meno irritato nel sorprendere un concittadino in atti illeciti.
«Io non stavo…» Alice calcola che l’unico fattore a suo sostegno è la consistenza biodegradabile di quel che voleva gettare nello scolo e decide di tacere.
«Faccia attenzione a queste cose. Questo pianeta ha i giorni contati, ma noi possiamo ancora fare qualcosa. Essere, ecco, responsabili. Sia civile, per favore.»
Non riparte finchè non lo fa lei, restandole incollato alle chiappe con la sua Ioniq cento percento elettrica. Vaffanculo pure a lui.
Dovrà seppellire il cadavere. I campi non sono il posto più adatto, a quanto pare, ma da sua madre potrebbe andare bene. Domani, sì – domani avrebbe risolto il problema. Per fortuna, non puzza e con le temperature basse dovrebbe resistere almeno un giorno senza marcire.
Quella sera, il messaggio inviato a Fabrizio è lungo e criptico. Posando il cellulare sul comodino, adocchia il bunny e decide di lasciar perdere, riuscirebbe solo a spremersi fuori altra desolazione. Il sonno è l’unica speranza di smettere di sentire e pensare, peccato scada al mattino, ritrovando ognuna delle questioni in sospeso incise sulla fronte, gonfiate dagli spasmi dell’inconscio. Anche i sogni sono problematici, in questo periodo: spegnendo la luce, prega la risparmino. Distende le gambe, spingendo i piedi in fondo al letto. Sente qualcosa fare resistenza, pesare sopra le coperte, una forma bulbosa che si ritrae alla sua insistenza. Riaccende l’abat – jour, la stanza è immobile, muta. Condizionamenti inconsci. Serra le palpebre. Rimane all’erta per qualche decina di minuti e, quando dimostra in adeguati passaggi logici di essere paranoica in quanto sensibilizzata da un movimento biografico miserevole, cedendo alla ragione, si addormenta.
Al mattino, apre le tende e nota che l’orlo è rovinato e sfilacciature verticali le rigano fino all’altezza di un metro. Ha piccoli graffi sul polso sinistro, arrossati da incrostazioni di sangue piccolissime, perline mezzo affondate nella carne: la siepe. Quei bambini del cazzo. Ci mette sopra un cerotto e annota mentalmente che deve riprendere a occuparsi della casa. La sta lasciando andare, finirà col vivere in un involucro infestato dall’incuria dove lascerà la sua impronta su strati di polvere, tra panni sporchi e piante rinsecchite. Deve intervenire, fare qualcosa della sua vita.
«Che ti succede, Alice?»
Non ha il tono di sempre. Nemmeno seccato, è rimasta un poco della loro complicità, ma a prevalere è una pazienza canalizzata, forzata. Fabrizio è nella sua macchina, si sono incontrati sotto casa, ma non aveva voluto salire. Lei rovista tra i pensieri e si aggancia ai ricci con le dita; cerca quelle di lui, ma le sue mani affondano nel giaccone.
«Vorrei che ci riprovassimo.»
«Non posso.»
«Non vuoi.»
«No, non posso. Mi… Ha fatto male, scoprire quella cosa. E del volontariato in quel posto. È chiaro che non puoi controllarlo.»
«Io amo solo te.»
«Non ne sono sicuro. Credo che tu sia rimasta con me solo per…»
Alice si sforza di guardarlo in faccia, di non proseguire la frase scendendo all’attaccatura del polso sinistro che sbuca dalla tasca, ammettendo la sua colpa. La sua malattia, come l’ha definita lui. L’idea che possa mostrare l’indice amputato le indurisce i capezzoli sotto il maglioncino, le arrossa le guance e le procura uno spasmo viscerale, prima che clitorideo. Lui lo sa. Lo vede, anche nella penombra. Le carezza il viso con la mano buona.
«Non ti ho mai tradito.»
E convincente o no, viene interrotta da un sobbalzo dell’auto. Come se un camion a tutta velocità l’avesse sfiorata, ma la strada è deserta. Si volta verso Fabrizio, rimasto sospeso su quell’indulgenza sofferta, impallidito.
«Terremoto?»
Azzarda. Segue un minuto in cui nessuno dei due parla, cercano fuori dai finestrini manifestazioni di isteria da scossa tellurica, ma il quartiere tace e le imbottiture dei sedili sembrano ingoiare anche il suono dei loro respiri. Il silenzio è completo, uniforme e nero. Lei sbatte le palpebre, cerca di tornare alla loro conversazione, di ribattere le sue ragioni.
«Sarà stato un colpo di vento. Ascolta, io…»
Un tonfo. Qualcosa si è mosso sul retro del veicolo e sfrega le plastiche interne del bagagliaio per uscire. Senza furia, con metodo. Fabrizio fa scattare la maniglia, posando un piede sull’asfalto.
«Aspetta.»
«Hai qualcosa nel baule?»
«Si, ma non…»
«Alice, che cazzo hai messo nel baule.»
«Un gatto.»
«Cosa ti salta in mente? Io non ti riconosco, vuoi che torniamo insieme ma io non so più con chi ho vissuto, fai cose completamente assurde, ti rendi conto che…»
«È morto. Il gatto, è morto. L’hanno trovato ieri dei bambini nel cortile, ci stavano giocando e ho pensato di portarlo via, di non dire niente per non avere problemi. I bidelli, le colleghe, la preside… I genitori, mi sarebbero saltati addosso e io non ho la forza emotiva, capisci, la stabilità per gestire queste cose, anche un singolo problema, capisci, tu… Non capisci.»
Comincia a piangere. Una mossa non prevista, ma efficace: c’è un’ampia letteratura sullo scopo delle lacrime femminili e né lui né lei rientrano tra le eccezioni. La abbraccia, avvolgendola stretta, posandole il mento irruvidito di barba su una spalla.
«Dovevo sotterrarlo da qualche parte, oggi. Ma pensavo solo a vederti. Sto così male, Fabrizio.»
Si fa sommergere dal suo calore, dalla familiarità solida che le costruisce attorno e che sembra capace di sostenerla contro ogni male. E poi c’è la pressione minima, ma diversa da ogni altro dito, sulla scapola. Quella, le scivola tra le cosce e cancella quasi tutto.
«Sei sicura sia morto?»
Le sussurra. E lei dice di sì – non c’è dubbio, era crepato, stecchito. E non ci vuole più pensare, vuole scalare quell’abbraccio, trasformarlo in qualcosa che appaghi la morsa che si contrae sull’inguine. Accosta le labbra al suo collo, inspirando il suo odore, il lieve strato di sudore sorto dalla tensione, dalla paura. La eccita. Ma tornano quei graffi, quella zampina che dovrebbe essere morta e che invece calca l’intenzione di uscire. Ruvida, riempie l’abitacolo, aggredisce il cervello di entrambi e fa accapponare la pelle in milioni di bollicine bianche. I due ex coniugi si staccano. Lui esce dall’auto, fa per aggirarla, aprire il bagagliaio e scoprire qualunque cosa ci sia dentro.
«Un animale, probabilmente attratto dall’odore della carcassa, magari quando eri distratta.»
Congettura, e intanto Alice viene investita dal terrore di sapere cosa ci sia alle sue spalle e che sia Fabrizio a scoprirlo. Comincia a tremare e tremando tasta all’interno della borsetta lasciata sul tappetino. Le chiavi. Mette in moto e accelera quando lui sta per sollevare il portellone, lasciandolo ad accarezzare l’aria.
«Dove cazzo vai adesso?! Sei impazzita?»
Sì, pensa lei. Come se ci fosse bisogno di chiederlo.
«Devo andare. Torno subito.»
Gli dice, senza crederci davvero. Dallo specchietto vede l’uomo, esausto, mettersi le mani nei capelli, sillabare bestemmie che faranno sobbalzare i vicini nei loro letti, ma ormai è avviata e vuole risolvere il cazzo di problema. Non ha alcun senso, ma è l’unica soluzione che ha trovato in quella giornata passata a deambulare a scuola come una zombie, evitando le domande accigliate delle sue colleghe, le telefonate e persino la riunione del pomeriggio. Il graffio aveva ripreso a sanguinare sotto al cerotto a metà mattina; ne aveva scoperto un altro, alla caviglia. Si era chiusa a fumare nel bagno e, suo malgrado, aveva programmato cosa dire a Fabrizio molto meno di quanto avesse pensato al gatto. Una parte di lei contava che sarebbe riuscita a spuntarla, convincendolo a darle una seconda opportunità; quello che davvero non poteva controllare e che la stava mandando fuori di testa, era il contenuto della shopper MondoBio che si trascinava dietro da ormai ventiquattro ore.
Parcheggia davanti a scuola, quindi davanti alla Villa. Alla cancellata in ferro battuto che la protegge nessun bambino si avvicina, nemmeno per gioco. Pigiando il polpastrello su un citofono di ultima generazione, sente la ragione di quella reticenza scivolarle sotto la pelle. È un disagio epidermico, una sensazione di freddo umidiccio, nebuloso anche in quella sera tersa in cui a piovere è l’oro morente delle foglie di ginko. Un ronzio e uno scatto metallico le annunciano che qualcuno lì ci vive e le dà il permesso di entrare.
«Andiamo, figlio di puttana.»
Scrolla il contenuto della borsa, inerte. Non c’erano state altre stranezze, da quando aveva lasciato casa sua per precipitarsi lì – il che le ha confermato di averci visto giusto. Il gatto apparteneva ai proprietari della Villa e finché non l’avesse restituito, su di lei avrebbe continuato a gravare qualche strana e ridicola maledizione. Non era tipo da credere a quelle storie ed era convinta che per lo più fosse un gioco della sua immaginazione, eppure era disposta a farsi considerare pazza da un paio di sconosciuti piuttosto che ritentare la via dell’occultamento di cadavere.
Alla fine del vialetto, vede aprirsi una porticina sul fianco della casa. Ad affacciarsi è una donna minuta dai capelli raccolti.
«Da questa parte.»
Ha un accento dell’est Europa. Alice inanella una sequenza di cortesie e saluti, ma non ottiene risposta. Si infila in una stanza bassa, un’anticamera affollata di armadi e attaccapanni che puzza di chiuso, conserva di pomodori e polvere. Sgradevole e rassicurante.
«Io credo di avere trovato… Ecco, il vostro gatto?»
Prova a spiegarle. La donna la osserva e annuisce una singola volta, prima di farle cenno di seguirla. Un’altra porta introduce al vero atrio della Villa, dominato da un ordinario scalone di pietra, tappeti persiani stinti e un’illuminazione giallognola di lampadine a incandescenza. La borsa comincia a pesarle sulla spalla, saranno almeno cinque chili di gatto morto quelli che si porta addosso. La sfila, tendendola alla donna.
«Non so se sia davvero vostro, l’ho trovato nel cortile della scuola e sa, i ragazzi… » Un passo indietro, progettato non appena si fosse liberata del carico. Un passo indietro realizzato quando qualcosa comincia ad agitarsi all’interno della shopper e la fa cadere a terra. Un tonfo, un miagolio stridulo e il gatto, grosso e di un nero infiammato di riflessi fulvi, emerge col muso e con tutto il corpo. La coda è ancora mozzata e il movimento serpentino, forse di gioia nel ritrovarsi a casa, è accennato. Alice lancia un grido. La donna le si avvicina, tendendole un braccio per toccarla, rassicurarla. Come ha potuto scambiare una cosa viva per una morta: la sua mente è andata, è lo stress, il divorzio, Fabrizio che aveva giurato di non dire niente a patto che… Manda un singhiozzo. Si volta, pronta a scusarsi, a farsi abbracciare da quella sconosciuta. La sua è una mano robusta, di nocche e calli, muove una carezza benevola sulla manica del cappotto – e poi si stacca: rimane aggrappata al gomito, percorrendo il nodo della giuntura fino al polso. È stato uno schiocco, lo stesso suono di un legnetto spezzato; ne segue un altro, l’arto opposto si stacca a metà avambraccio, precipita sul pavimento e assale una caviglia di Alice, stringendola in una morsa. Urla, cerca di arretrare, ma in quegli arti mozzati non c’è forza umana, non di una sola persona, almeno. La donna rimane in piedi davanti a lei e le sorride: dove le parti del suo corpo si sono staccate, si sono rimarginati lucidi moncherini, cuciti e cicatrizzati ad arte. Osservandoli, non può evitarsi una contrazione al basso ventre né il calore diabolico che la risale e che tenta di sopprimere stringendo i denti, scoprendo le gengive.
Il gatto agita quel che resta della sua coda e comincia a salire i gradini della scala. Va incontro ad altre due figure, entrambe in vestaglia e pigiama, che scendono caute. Il primo ha una faccia familiare. Guance cadenti, brizzolatura, pieghe sulle palpebre assorte e passo incerto. Al terzo schiocco, è la sua gamba a staccarsi. Rotola verso il basso e le dita nude dei piedi la guidano fino ad Alice, seguita da un braccio che le si arrampica addosso, che la mette a tacere infilandole in bocca un pugno chiuso che bagna di lacrime. La sensazione di soffocamento che la accascia sul pavimento non riesce a essere sgradevole; vorrebbe fuggire, ci prova, ma più resiste più si affama la presa di quegli arti sconnessi, più trova piacevole la determinazione con cui le affondano nella carne. Sì, ora riconosce Leandro, l’operaio tessile in sedia a rotelle con cui aveva avuto quella… Cosa, nel bagno dell’Associazione, che la guarda tenendosi aggrappato alla ringhiera. Dell’altro non ricorda il nome, ma era stato il suo preferito per mesi. Poliomielite infantile, poi atrofie e necrosi avevano fatto il resto, lasciando un corpo di ragazzo glabro e ambrato su cui aveva passato la lingua, piantato le unghie e infilato siringhe. Si disfa, le sue propaggini rimbalzano sui gradini e arrancano verso di lei, che cade sulla schiena e viene assalita da un nodo di braccia, di ginocchia: le premono sullo stomaco, uno la sfrega – canzonatorio, viscido, troppo duro – tra le gambe e piccole dita adolescenti le tengono sollevate le palpebre, scoprendo il bianco umor vitreo. La via più breve per arrivare al cervello e spegnere quel dolore, vischioso di piacere che non trova modo di urlare al soffitto della casa maledetta. Soffoca tra catarro e saliva, piange e mugola qualcosa che è rimasto solo il gatto a osservare, con quella coda monca che le ricorda il suo, regalato a sette anni. È lui e la sta fissando. Anche quella donna dall’accento scivolato, l’unica ancora in piedi.
«Ti aspettavamo, Alice.»
Riconosce Masha, che era stata la prima, durante il tirocinio post diploma. Un ictus le impediva di articolare suoni e l’aveva messa al sicuro da ogni denuncia. E chi mai le avrebbe creduto? Lei era dolce, angelica. Amava i bambini, gli sfortunati. Tutto quello che aveva fatto, non era forse stato fatto per amore? Per darlo a chi non poteva, afflitto da una condizione inerme, solitaria, desolata. Aveva offerto il proprio corpo, ora se lo stanno riprendendo e banchettano del suo amore; c’è della nostalgia in quello che fanno, non può essere vendetta, non con quell’insinuazione languida, non nel tocco di Masha che le racchiude il collo: ricambia le sue stesse cure, solo più forte. Di più – sì, così. Non c’era niente che ad Alice piacesse di più della mancanza, tangibile nel corpo, fantasma di dolore: poteva riempirlo lei il loro vuoto, sopraffarlo, vincerlo, dilagare in ogni spazio e ritrarsi vincente, soddisfatta. Bastava un dettaglio, un piccolo punto di imperfezione incidentale. Ora quel che manca, tutto ciò che aveva amato e amava per la sua assenza, la strangola. Le svuota le orbite, scava sotto la sua pelle. Il sangue le brucia sotto ai vestiti fatti a brandelli, il gatto torna per affondare i denti tra le labbra della vagina e lei ride nel pugno che le tiene spalancata la bocca e le strappa la lingua. Non ha mai provato niente di simile e sta crescendo, ci sta arrivando. Oh, come le piace. È così vicino.
Vorrebbe non smettesse mai.
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