di Giovanni Locatelli
Copertina di Francesco Pavignano
Nel Mondo Fluttuante, gli oggetti risultano deformabili, morbidi, facili da plasmare. Le forme si modificano in altre forme, tornano sui loro passi, poi riprendono il cammino, ma le nuove proporzioni non rappresentano un progresso rispetto alle vecchie, né un’involuzione. I capelli di Mangrovia, per esempio, quei lunghi cavi che la tengono ancorata alla realtà, nel loro continuo mutare non mi rendono né più agevoli né più difficili i percorsi che seguo incessantemente.
Dicevo, le prospettive muovono senza sosta per dare l’impressione che qualcosa stia cambiando, poco importa che si tratti della superficie increspata dal vento o delle profondità percorse dalle correnti – non ci si bagna due volte nella stessa acqua – e anche se i rapporti fra gli oggetti rispettano regole consolidate, è necessaria flessibilità per non farsi troppo male quando si va sbattere contro i bordi trasparenti. Le luci colorate non facilitano la vita. Per non parlare dei cambi di stagione.
Un capitolo a parte meritano le parole che nel Mondo Fluttuante occupano buona parte dello spazio e la totalità del tempo. Ovattate, distorte, a volte attutite a volte amplificate, l’acqua trasmette i dialoghi e le voci, facili da riconoscere, difficili da comprendere, impossibili da ricordare: sento le parole tuffarsi, fare qualche bracciata di riscaldamento, prendere un lungo respiro e affrontare la pericolosa immersione: oltre a districarsi tra i capelli di Mangrovia, devono vincere l’oscurità e la paura dell’ignoto, accettare la possibilità che ci siano predatori. Non so perché si prendano la briga di affrontare un tale viaggio, io me ne curo relativamente e quel che sento mi lascia indifferente.
«Che cos’è che vendete qui?»
«Giocattoli, articoli da regalo, gadget, cineserie, giapponeserie, anime, comics, manga… Quello che manca lo facciamo arrivare. Qualunque cosa lei desideri».
«È da tanto che è aperto questo negozio?»
«Più di un anno».
«Non l’ho mai notato. Eppure vengo spesso al centro commerciale. Prima che mia figlia si sposasse venivo anche più spesso».
«Che genere di regalo aveva in mente?».
«Adesso invece devo aspettare che mio marito mi accompagni, se va bene una volta al mese».
«Cerca qualcosa per sua figlia? Ultimamente vanno molto di moda gli accessori per il cellulare: sfondi, suonerie polifoniche, cover glitterate, nastrini, tracolle, calzini…».
«E poi in un’ora bisogna fare tutto: la spesa grande e la spesa piccola, dare un’occhiata alle vetrine, comprare un vestitino, all’occorrenza. Poi passare dal reparto giardinaggio e prendere le sementi o i fiori da piantare nell’orto e, come se non bastasse, lavare l’auto».
«O è per suo marito? Ho dei bellissimi portasigarette. Altrimenti se vuole farsi un regalo può pensare a un servizio di tazzine e teiera giapponesi…»
«No, no, no. S’è fatto tardi, devo andare altrimenti mio marito mi brontola, poi diventa insopportabile tutto il pomeriggio. Magari ripasso un’altra volta».
«Arrivederci, allora».
Le parole sono poco nutrienti e di solito preferisco i capelli di Mangrovia, ne rosicchio le punte, hanno un sapore umami e profumano di mare, non mi posso lamentare. Lei d’altronde assorbe le sostanze che produco, una volte discioltesi in acqua. Abbiamo un ottimo rapporto, indispensabili l’uno all’altra, ma non c’è molto dialogo, essere muti non aiuta, e certe differenze sono insormontabili: Mangrovia non si muove e non nuota, per esempio. In compenso, riesce lentamente a cambiare dimensioni, cresce, si allunga e si allarga, facendosi via via più aggrovigliata. Inoltre, se ne sta mezza nell’acqua e mezza fuori. La metà nell’acqua è tutta fili e quella fuori è tutta fiori. E foglie.
Avrei alcune cose da dirle, molte da chiederle, passo il tempo a osservare e riflettere e mi domando cosa pensa la mia compagna, tutto il giorno impegnata ad assorbire e respirare e sintetizzare, in un ciclo senza tregua. Sembrerebbe indifferente a ciò che la circonda, solo che, a volte, mi manda chiari messaggi d’amore: boccioli verde scuro si aprono in fiori di un bianco infinito.
Io non sono in grado di ricambiare tali effusioni, come spesso capita a chi è molto amato.
Nel Mondo Fluttuante l’atmosfera opera da lente sui raggi che la penetrano, concentrando gli stessi in aurore boreali o in tramonti mozzafiato, filtrando le frequenze che abbronzano o scaldano, ingrandendo gli oggetti posti sotto un certo angolo, ma rimpicciolendone altri messi di traverso. Il naso della Piccola Lunatica, avvicinandosi, si gonfia, facendo sprofondare gli occhi verso abissi spaventosi e provocando l’esplosione della bocca, tagliata in due da un sorriso lungo e stretto. Decisamente non le dona. Stessa sorte di improvvisa espansione subiscono i fianchi o le tette, dalla media distanza, ma nemmeno questo funziona. Bisogna cambiare il metro di giudizio per valutarla, lei è fuori dal comune: minuta, magra, scura di carnagione, una conformazione del viso che ricorda un roditore, per non dire un topo, una ciocca verde fra i lunghi capelli neri, lisci, raccolti da un elastico sempre viola, una costante espressione di scorno per l’ennesima vendita mancata, gli occhi sottili quasi orientali, quasi vicini, la Piccola Lunatica oltre a non essere bella ha dei lineamenti che la rendono subito antipatica.
Lei si dà un’occhiata allo specchio e decide di meritarsi un sorriso. Estrae il cellulare, esteticamente superbo, come le unghie, indistinguibile dalle unghie, entrambi glitterati di cristalli iridescenti, incastonati da pietre fluorescenti, plastificati con smalti policromi, controlla inutilmente che non sia arrivato un messaggio, sa che l’avrebbe sentito, ma non può smettere di sperare, quindi si mette in posa per un autoscatto, denti smaglianti e V di vittoria davanti alla faccia, con l’indice e il medio tesissimi fuori dal piccolo pugno. Click. Check. Perfect. Da spedire a tutte le amiche, per farle morire d’invidia. Strana abitudine, importata, insieme al cellulare e alle unghie, direttamente dal Giappone, sua patria ideale, laddove ed esclusivamente dove tutti potrebbero capirla, o almeno qualcuno, a suo dire.
«Buongiorno».
«Sono passata anche ieri, verso l’una, ma era chiuso».
«Ma oggi è prima di ieri! Basta non arrivare in pausa pranzo e ci trova aperti».
«Ci chi? Credevo fosse sola».
«Io e Piraña».
«Non capisco, ma non importa. Peccato che a me sia più comodo passare a quell’ora che adesso. Ho dovuto prendere un permesso per uscire dal lavoro. Speriamo di trovare quel che cerco».
«E cosa cerca?».
«Uno yukata».
«Mi spiace, non teniamo abiti in negozio. Non saprei nemmeno dove metterli, non le pare? Siamo già sullo stretto così! Se vuole glielo faccio arrivare. Se mi dice i colori e il tipo di fantasia che preferisce…»
«Speravo di avere un po’ di scelta. E se quello che arriva non mi piace?»
«Non importa, non è mica obbligata a comprarlo».
«Ma così rimango comunque senza».
«Ne farò arrivare altri».
«Non posso passare di qui tutti i giorni! Ho anche altro da fare, cosa crede? Non conosce un negozio che venda abiti tradizionali giapponesi, in città?».
«No, d’altronde gli articoli giapponesi non vanno più di moda, ultimamente. E dico per fortuna: non se ne poteva più di sushi, sashimi e tamagotchi».
L’Universo è piccolo e diviso in scaffali e cassetti. Gli oggetti, come i pianeti nelle galassie, stanno appoggiati nei ripiani o, come la materia nei buchi neri, vengono risucchiati nei cassetti. La Piccola Lunatica, nonostante le sue dimensioni, ci sta stretta, nell’Universo, e inciampa spesso contro il mobilio. Non sa mai dove mettere la merce, che sposta in continuazione, convinta che esista una configurazione ottimale. Lo dicevo prima, qui il paesaggio cambia in continuazione. E, all’occorrenza, anche gli interessi della Piccola Lunatica, sempre pronta a contraddire sé stessa, se necessario. Quando manca un articolo, automaticamente non lo producono, o non si intona o ha stancato perché visto troppo e sulle persone sbagliate. Il bello è relativo dice spesso ai clienti, quel che non c’è non si vende, ripete a sé stessa, la moda ha le sue maree, le sue correnti, mi ricorda, a volte, convinta che io sia sensibile all’argomento mentre con la volontà e l’astuzia si può deviare persino il corso dei fiumi penso sia la frase motivazionale destinata a Mangrovia, ma non ne sono sicuro. Tutto semplice, eppure non le riesce mai di convincere i clienti dei propri gusti e questi se ne vanno scuotendo il capo, certi di essere scampati a una fregatura.
Alla Piccola Lunatica sta uscendo l’acqua dagli occhi. Ci credo che non riesce a trattenerla, con dei sussulti del genere. Succede la stessa cosa quando decide di traslocare il Mondo Fluttuante da un capo all’altro dell’Universo, boccia di vetro in orbita nello spazio, cometa che ha perso la stella nel fuoco della propria ellisse, proiettile in balia dell’attrazione di altri corpi celesti, vittima, insieme ai suoi abitanti, di strattoni, sobbalzi e inciampi che potrebbero far fuoriuscire tutta l’acqua, dal corpo della Piccola Lunatica e dalla boccia, lasciandoci a secco se non fosse per Mangrovia, che in qualche modo fa da tappo, con le sue radici, e per i capelli della Piccola Lunatica che trattengono l’acqua contenuta in testa, consentendole di uscire, perciò, solo dagli occhi.
Sussulti e traslochi non capitano troppo spesso, non tutte le volte che un cliente esce a mani vuote, per fortuna, ma sempre in occasione di certe discussioni che vedono la Piccola Lunatica attaccata personalmente, come se fosse colpa sua se vende oggetti inutili o volgari, o se, nel suo Universo, entra alle volte gente strana, stralunata, incline a giochi potenzialmente pericolosi.
«Non so se fare un regalo a mio nipote che piaccia anche a suo padre o regalare qualcosa a mia nuora che però serva anche a mio figlio. Lei che cosa mi consiglia?»
«Potrebbe fare un regalo a suo nipote e uno a sua nuora… che dice?»
«Idea dispendiosa, ma non priva di fondamento: gliel’ha suggerita qualcuno?»
«Farina del mio sacco. Ho fatto un corso per gestire i clienti».
«Così lei mi starebbe gestendo? Suona come un fondo di investimento»
«Non deve prenderla male… pensi piuttosto a suo nipote».
«Che crede di avere una banca per nonna, per quello che vorrebbe farmi spendere. Vediamo se c’è qualcosa che vada bene a tutti, piuttosto. E quello? Quel vaso con pianta e pesce, quanto costa? Potrebbe fare al caso mio: pianta per la nuora… pesce per il piccolo…».
«No, Piraña non è in vendita.»
«Come non è in vendita? E allora cosa lo tiene qui a fare? Se lo porti a casa, se non vuole venderlo. Quello che sta in un negozio è in vendita!»
«Non è detto… io non sono in vendita!»
«Lei sta in questo sgabuzzino perché le piace?»
«No, ma non ho scelta».
«Come vede s’è già venduta. Però quello è l’unico articolo interessante del negozio. Se non lo posso comprare, tanto vale andarmene.”
«Beh, ma c’è dell’altro. Non vuole che…»
«Guardi, meglio lasciar stare. Ho già capito che razza di porcherie vende qui, dovrebbe vergognarsi. E mi faccia il piacere di tagliarsi le unghie, che fanno veramente ribrezzo! Lei mi dà l’impressione di essere una stupida gallina, sa? La saluto!»
La Piccola Lunatica ha smesso di sussultare, finalmente. Dai buchi neri all’estremità dell’Universo estrae una corda graduata e si avvicina a me. Passa la corda attorno alla pancia della boccia per misurare la circonferenza del Mondo Fluttuante e segna la cifra sulla pagina di un block notes. Adesso mi guarda, confrontando la mia sagoma con la distanza tra indice e pollice, approssimativamente divaricati. Sa di dover tenere conto della distorsione dovuta all’acqua e al vetro, ne tiene conto e si misura da unghia a unghia. Poi si misura seno, vita e fianchi e dalla testa ai piedi, un paio di volte, arrotondando per eccesso, allarme autostima. Quindi cerca sul cellulare il prezzo delle bocce di vetro, delle piante acquatiche, dei pesci rossi e delle commesse di negozio. Poi fa ragionamenti, parallelismi, proporzioni e calcoli.
«Un pesce rosso costa 5 euro, alle giostre, e pesa 50 grammi. Io guadagno 500 euro al mese, se va bene, e peso 50 chili… Persino Piraña vale più di me!»
«Posso esserle utile?»
«No, stavo solo guardando…»
La signora appena entrata non è alta, è lunga. Sono il viso, il mento e il naso a dare questa impressione, prima ancora del corpo.
«Che cosa cerca in particolare?»
«Forse… niente».
La signora tocca tutto quello che vede sugli scaffali, lo soppesa, ne controlla il prezzo, la produzione, il marchio, poi rimette l’oggetto esattamente dove l’ha trovato.
«Guardi che abbiamo anche altri articoli oltre a quelli esposti in vetrina».
«Si, ma mi basta farmi un’idea…»
Questa curiosità a trecentosessanta gradi non aiuta la Piccola Lunatica, non le fornisce alcun appiglio, alcun indizio.
«È per un regalo?»
«Più o meno…»
Sembra una curiosità uniforme come la pioggia autunnale, e altrettanto frustrante.
«Se serve le prendo quello che teniamo in magazzino, basta che mi dia qualche indicazione».
«No, non è urgente, posso passare un’altra volta, così nel frattempo mi sono chiarita le idee».
«Io sono qui».
«È sempre sola?»
«Sì, non mi posso permettere una commessa».
«Non si annoia?»
«Un po’».
«Per questo s’è presa un pesce? È tipico delle persone timide, sa?»
«Non lo sapevo, però fa davvero compagnia. Scusi, la lascio un secondo, mi è entrato un altro cliente. Ha bisogno?»
«Bisogno è una parola grossa… Siamo nel mondo dell’effimero!»
Un ometto smilzo e baffuto, sorvola il negozio con sguardo annoiato, snob o imbarazzato, difficile a dirsi. Nulla lo attira particolarmente e in qualche modo si vergogna a controllare uno per uno gli oggetti sugli scaffali, come se avesse l’impressione di rovistare nei cassetti di un conoscente che l’ha invitato a casa. Sposta leggermente le prime file, dà una breve scorsa, si accorge di non apprezzare maggiormente le seconde e decide di rimettere tutto a posto nella speranza che nessuno si sia accorto della sua curiosità e della sua incompetenza: un pupazzo gli sembra uguale all’altro così come, in altre occasioni, non è stato in grado di distinguere il tessuto o la foggia di due camicie diverse, o la qualità delle finiture degli interni delle auto esposte in un salone. In realtà, sa esattamente cosa vuole, ma, non trovandolo, non riesce a farsi conquistare da quello che vede, né ad accontentarsi e si vergogna a uscire a mani vuote.
«Effettivamente… non c’è niente di strettamente necessario in questo negozio», rilega i fili del discorso la Piccola Lunatica, pur di colmare il vuoto.
«Stavo cercando il pupazzo di un robot particolare, facevano la serie in TV tanti anni fa, si chiamava Grandizer. So che può sembrare strano per un uomo della mia età… è solo che mia sorella ne aveva uno in gomma dura, allora. Io ero cinque anni più piccolo, come adesso, d’altronde, ci sono cose che non cambiano, e in un impeto di follia lo barattai con il pugnale di un amico. Non me l’ha più perdonato. Non so perché, passando di qui mi è venuta in mente questa vecchia storia, così ho pensato di entrare a chiedere. Una specie di risarcimento tardivo da regalare al suo bambino… Ha capito di quale robot parlo?»
«Mi spiace, ho presente cosa intende, ma non ne fanno più. I bambini di oggi hanno altri eroi, guardano altri cartoni animati e il mercato segue la televisione. Dovrebbe cercare nei mercatini dell’usato, fra le bancarelle degli appassionati. Ma le dico la verità, i robot di oggi sono molto più fighi. Anche sua sorella mi darebbe ragione, ne sono certa. Perché non dà un’occhiata…»
«Non fa niente, non è importante. Grazie lo stesso».
Lo Smilzo e la Lunga Signora incrociano gli sguardi da una parte all’altra dell’Universo. Lui sta risalendo lo scaffale dei robot, lei si avvicina, estrae una barbie dalla borsetta e la aggrappa per una mano al bordo della mensola più in alto.
«Aiuto! Salvatemi! Non ce la faccio più a resistere. Aiuto!»
Lo Smilzo agguanta il primo supereroe che trova sul ripiano e lo precipita in soccorso della barbie in pericolo. Gliela fa afferrare e la accompagna al sicuro.
I due si scambiano strane frasi di circostanza: «Mio eroe!» «Ho fatto solo il mio dovere», «Ho temuto di morire!» «È tutto finito. Si sente bene?» »Non sono mai stata meglio», «Il pericolo fa questo effetto», «E lei se ne intende, immagino», «Posso dirmi esperto, sì».
I visi di plastica vengono avvicinati, le bocche si toccano, le braccia si stringono attorno ai fianchi, si avvicinano anche i bacini, infine sono le gambe a intrecciarsi, ma lo Smilzo e la Lunga Signora, dopo la prima occhiata, non si sono più guardati, impegnati a dare vita ciascuno al proprio fantoccio.
Finalmente si passa ad attività più concrete: i corpi sintetici si stringono, le giunture snodate si piegano, cadono i vestiti alla barbie. Vengono mimate posizioni oscene, il linguaggio si fa scurrile, piovono insulti pesanti, poi addirittura sanguinolenti: tutto quello che l’assenza dei sessi impedisce, viene descritto a parole. Ciò che è madido e turgido, morbido o rigido, vaginale o fallico, ciò che è digitabile, ingoiabile o penetrabile viene declamato a gran voce, spogliato di ogni mistero e pudore, declinato fino all’eccesso, celebrato, deturpato, sublimato. Tutto viene soltanto imitato.
La Piccola Lunatica, come al solito, registra video e scatta fotografie, ferma all’altro lato dell’Universo, per non essere d’intralcio, oppure dà rapidi consigli circa le pose o gli attrezzi, le prese o gli insulti che vanno maggiormente di moda.
I pupazzi si prestano al gioco, non danno segni di cedimento, non rischiano ferite, soffocamenti, traumi psicologici. Non si trasmettono malattie, non necessitano di Viagra, non perdono il controllo, non restano in cinta, non s’innamorano, non soffrono.
Improvvisamente il gioco è iniziato, improvvisamente finisce.
È la Lunga Signora a parlare per prima.
«Il mio avatar si chiama Priscilla. È architetto e sta lavorando a un progetto importante. Fa parte dello staff che ricostruirà il World Trade Centre. La aspetta un’impegnativa trasferta negli Stati Uniti. Ha trentacinque anni, non è sposata e vive da sola. Ha un bellissimo appartamento al trentaduesimo piano di un grattacielo in centro che condivide col suo gatto siamese. Come vedete veste solo Armani».
«Il mio avatar si chiama Grandizer e questa non è la sua vera sembianza. Non ha ancora trovato sé stesso e assume ogni volta l’aspetto di un diverso supereroe, il primo che capita. È come un’anima in cerca di un corpo, una forma in cerca della propria sostanza, pronta a un passo dalla scena».
Nel Mondo Fluttuante, a quanto pare, cambiano i corpi, nella loro sostanza e di forma in forma, mentre le anime viaggiano con facilità attraverso sogni trasferibili.
L’apparenza non inganna. Traduce anzi necessità irrealizzabili. Non inganna, ma tradisce. Tradisce le sue vere intenzioni di apparire e scomparire all’occorrenza, speculando su nicchie di libertà, ritagli di intraprendenza e rimasugli di passione.
Nel Mondo Fluttuante restare in equilibrio è compito arduo, si tende a scivolare verso luoghi comuni o pozze dove l’acqua ristagna. I rapporti sono facili alla liquefazione, per non dire allo scioglimento, travasano da un contenitore all’altro, passando attraverso tubi catodici, fibre ottiche o ponti radio. Non c’è stabilità e bisogna saper nuotare. È l’acqua l’elemento fondamentale e dall’acqua c’è molto da imparare.
«Oggi pomeriggio metterò la fotocronaca nell’area riservata del nostro sito, se mi date i vostri indirizzi e-mail vi mando il link da cliccare per accedere alla gallery…»
«Tenga il mio biglietto da visita».
«E questo è il mio. Ho avuto tutto il tempo l’impressione che quel pesce ci stesse guardando…»
«Non fateci caso. Lo fa sempre… Se volete accomodarvi alla cassa, sono novemilasettecentocinquanta yen, è la stessa tariffa applicata in Giappone, che in valuta locale fa settanta euro».
«Pago io, lasci stare».
«No, dividiamo…»
«Insisto, la prego. Mi permetta di offrire»
«Grazie».
«Ecco a lei».
«Dieci, venti e trenta di resto. Grazie. Io e Piraña vi salutiamo e speriamo di rivedervi presto nel Mondo Fluttuante, articoli regalo, cineserie, giapponeserie e vita virtuale. Arrivederci».
Nel Mondo Fluttuante i sentimenti risalgono veloci se trasportati da bolle d’aria o galleggiano lenti se cullati da correnti d’acqua calda oppure ancora si lasciano depositare sul fondo dove faranno da humus alla crescita di nuove alghe. È vero, oggi sono attratto della Piccola Lunatica, ma domani potrei innamorarmi perdutamente di una Cliente nel momento stesso del suo ingresso, dimenticandomela altrettanto perdutamente cinque minuti dopo la sua uscita dall’Universo. Non è solo una mia forma d’essere, anche la Piccola Lunatica sembra motivata da venti passeggeri, più che trasportata da costanti alisei. Il suo umore è instabile, incoerente, volubile e mutevole. I suoi amori durano il tempo di una ricarica telefonica.
Mangrovia invece ama davvero e amare vuol dire mettere radici. Fermarsi e capire l’attesa, apprezzandola. Amare costringe a crescere, ogni anno un anello e qualche nuovo ramo.
Per contro, essere amato ti lascia libero, nomade, giovane. È l’elisir di lunga vita, il trucco per restare nel grembo materno, anche per chi, come un pesce, non l’ha mai provato.
Ho scelto di essere amato e restare piccolo, ma, se Mangrovia dovesse lasciarmi, cosa potrei fare?
Per adesso lei si stringe a me, qualche millimetro più matura e più stabile di prima. Io sono indeciso se fuggire dal suo abbraccio, curioso per quel che vedo ogni giorno attraverso la lente di ingrandimento di questa boccia di vetro o se restarle vicino, unica certezza in una realtà tanto liquida.
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