di Alessandro Pestarino
Copertina di buccia
In questa famiglia il pranzo della domenica è una tradizione consolidata, un obbligo rituale a cui non è dato sottrarsi. Nella grande casa tutte le finestre sono aperte e le ombre in movimento giocano a farsi affettare dai raggi del sole. C’è un’atmosfera ignea e laccata.
Il tavolone ovale è apparecchiato con estrema precisione; solo nonna ha preso posto. Il suo volto di cera stride con la vistosa tappezzeria fiorata. Papà occhieggia di tanto in tanto dalla porta, il languore si sta tramutando in fame, ma non si inizia finché tutti non sono pronti. I due figli più piccoli giocano in giardino, mentre la grande aiuta mamma in cucina.
Venti minuti dopo siedono composti. Il sole dardeggia facendo luccicare i cristalli polverosi oltre i vetri paonazzi della credenza.
La mamma sta per arrivare, aspettano lei. C’è un silenzio effervescente scandito solamente dal dondolio delle gambe dell’ultimo figlio, i cui piedi non toccano ancora terra.
Eccola!, esclama il sorriso ampio di papà.
Una capatina in cucina per fare ritorno spingendo il carrellino col vassoio coperto dalla cloche. Tutti sorridono mentre l’acquolina straborda dai denti e inizia a fermentare nella vasca del labbro inferiore. Solo la nonna evita di farlo. Una volta quel compito solenne era suo, ma ora le sue gambe sono spaghetti scotti. Così sta sempre in silenzio, le labbra scosse da sporadici spasmi.
Nell’ultimo tratto di strada, le ruote cigolano e il papà lancia un’occhiata stupita. Le gambe dell’ultimo figlio smettono di dondolare, e la figlia addenta un grissino. Interviene la nonna. Basta che le sfiori il polso: non si fa così, si mangia tutti assieme.
Papà non s’è accorto di nulla, aiuta la mamma a poggiare il vassoio al centro del tavolo. La mamma porta via il carrello avendo cura di sollevarlo per evitare cigolii seccanti per tutti.
Quando torna nessuno ha toccato nulla. Come è giusto che sia, a chi cucina è concesso un pizzico di vanagloria da presentazione. Uno scatto di ghigliottina, l’aroma si diffonde e un coltellaccio squarcia il petto del tacchino che non schizza sangue, ma glassa alle castagne.
Dodici mani ondeggiano sulla tavola: un nastro trasportatore umano. I piatti fanno il giro tornando pieni al loro posto. La nonna è servita per prima: onore rituale al monumento ai caduti.
Papà: «Bene, adesso aspettiamo.»
Gli avambracci di tutti sono stesi sul tavolo, le dita molli e arricciate come i rebbi di un forcone.
Hanno mangiato e si sono divertiti. I ragazzi hanno riso e scherzato, quello di mezzo ha fatto una catapulta con la forchetta bersagliando il piatto di papà che ha risposto facendo schioccare chicchi di pepe dal palmo della mano. La mamma ha chiesto alla figlia dove avesse trovato quel glitter argento che le contorna la parte esterna degli occhi.
Ed ora manca solo il dolce, che attende in fondo al salone nella sua prigione di gelatina. La tavolata è butterata di avanzi. Al centro si innalza una mezza pila di piatti da cui smoccica una goccia di glassa che non si decide a cadere.
Il sipario è calato ed è stato riaperto. Adesso qualcuno deve farlo. Non è consentito saltare. C’è solo un canovaccio, la memoria collettiva di una tradizione, e tutti si scrutano senza cercare nulla di particolare. Solo nonna ha gli occhi incollati sul tovagliolo macchiato adagiato sulle sue gambe. Si sta sforzando affinché la testa non le rotoli per terra.
La figlia si guarda le braccia. Ha solo tre piccole cicatrici sul braccio sinistro, e quello destro è intonso. Quelle di papà paiono uno straccio logoro. Non si capisce dove finisce una ferita e dove inizia l’altra. Ma negli ultimi mesi i ragazzi non si sono comportati così bene. Marachelle a scuola, uscite non autorizzate, elusione dell’obbligo di rientrare prima di mezzanotte. Sono cose che si fanno senza pensarci, ma poi qualcuno ne paga le conseguenze.
La mamma non se la passa tanto meglio, ma a una prima occhiata non si direbbe. I due piccoletti hanno un segno a testa sul ginocchio sinistro. Qualcosa di lieve, si confonde con le sbucciature, ma loro hanno appena iniziato.
Invece, le braccia della nonna non hanno ferite. I vecchi non pagano mai e le rughe hanno preso il posto delle cicatrici.
La figlia vorrebbe farsi avanti anche stavolta, è meglio essere colpevoli che vittime, ma sono parecchie domeniche che parla, che confessa e non è più come una volta. Crescendo è cambiata, e il rimorso finisce con l’oscurarle i pomeriggi da adolescente spensierata. Però ancora una volta potrebbe farlo, non sarà certo così tragico. Di cose da dire ne avrebbe almeno tre o quattro, e parlare la salverebbe da un quarto cerotto che rovinerebbe irrimediabilmente le sue foto su Instagram e le causerebbe scomode domande dagli amici.
L’aria nelle corde vocali si sta intrecciando in un incipit, quando una voce al sapore di mandorla, la anticipa. Lei si imporpora e si rabbia; ha capito subito di chi si tratta.
«Sono Giuda».
Le braccia di tutti finiscono sotto il tavolo.
Ha parlato il figlio di mezzo, e la ragazza ora è convinta di vedere un velo di sadismo in quei suoi occhietti sovrastati da sopracciglia fuori misura.
Non lo danno a vedere, ma papà e mamma sono sollevati.
«Che cosa hai fatto?» Domandano in coro guardandosi negli occhi.
Il ragazzino è intimidito. Dice: «Martedì ho preso una nota. C’era da fare un compito che non mi andava, così ho dimenticato apposta il quaderno. Ecco perché vi ho detto di aver perso il diario».
Alla figlia tremano leggermente le braccia. Ascolta la confessione con disgusto e paura. La mamma ha speso più di 20€ per comprare l’inutile diario nuovo, quindi la faccenda non sarà tanto leggera.
Sa già che verrà scelta, lo legge negli sguardi indifferenti della famiglia; in quel silenzio complice rotto d’un tratto dallo stridio della sedia di papà trascinata all’indietro.
Lui si è appena alzato e lancia un’occhiata alla tavolata come se ormai la cosa non lo riguardasse minimamente. Si gira, apre un pesante cassetto della credenza e tira fuori un piccolo rasoio col manico in madreperla. La figlia lancia un’occhiata al luccichio lunare di quell’oggetto nelle mani del padre, prima che egli lo posi con garbo accanto alla mano destra di nonna. Lei pare riaversi all’udire quel piccolo tonfo attutito dalla spessa tovaglia.
«Mamma. Sei così anziana e saggia. Insegnaci che per le nostre colpe possono soffrire anche gli innocenti». È una formula che papà recita tutte le domeniche, ma ogni volta la sua voce si sfilaccia e trema, quasi avesse il timore di aver sbagliato qualcosa.
Il papà torna al suo posto, e la nonna si alza barcollante ficcando le unghie irregolari sul tavolo. Piatti e bicchieri tremano. Il filo di glassa finalmente si accascia sui resti mordicchiati di un grissino.
La vecchia ha un respiro spesso che sibila infiltrandosi tra le cavità della dentiera. Afferra il rasoio e fa un giro del tavolo tenendosi alle sedie. Portare quell’oggettino insignificante le costa uno sforzo abnorme.
Era ovvio che si sarebbe fermata lì. Nelle dinamiche familiari più che il mistero c’è l’orrore. La nipote si stringe nelle spalle. È il momento di tirare fuori il braccio, quel pezzo di carne candido su cui avverte ancora il tocco di Luca, due notti prima al parco, in un abbraccio che nessuno dei due s’era deciso a dare.
Nonna incombe su di lei. Sfiata leggermente dai due forellini del naso.
Il piccoletto ha ripreso a dondolare le gambe. Fa avanti e indietro con le labbra unite, la testa bassa a memorizzare ogni singolo avanzi di cibo nel piatto. Ma le orecchie sono tese, gli occhi vigili: è pronto a non perdersi nulla di ciò che sta per accadere.
Brutto bastardo, pensa lei, e questo un po’ le placa la paura.
Estrae il braccio dal tavolo. Lo sfregare della tovaglia ruvida gratta via un’altra fibra del ricordo del tocco puerile di Luca.
La nonna non ha preferenze quando deve farlo, è come il trapano di un dentista. Aprire la lama del rasoio la fa vibrare tutta, col rischio che si infranga, mentre gli occhietti le si incendiano di un color ambra malato.
La ragazza assiste al maremoto delle rughe di quel vecchio braccio, la trave marcia di un rudere. E chiude gli occhi e squarcia il labbro sotto la pressione dei denti.
«Chi sbaglia ecco cosa provoca,» sentenzia solenne papà.
Nel buio, la figlia cerca lo sguardo della mamma, ma lo squarcio improvviso nella carne le allaga gli occhi di lacrime. Le palpebre non reggono e i goccioloni cascano giù dalle guance mischiando il loro sapore salino con quello ferrigno del sangue sulle labbra.
La mamma è lontana, dissolta sulla sedia. Inebetita dal pranzo e dalla sensazione di salvezza. E la ragazza la odia senza mettere a fuoco il sentimento.
La mano di nonna traballa, e la lama solca irregolarmente tre o quattro centimetri di braccio andando forse un po’ troppo giù.
I fratellini guardano rapiti il sangue che inizia a colare come lava da tutte e due i lati.
La ragazza sente tutti i suoi organi interni sciogliersi. Un bruciore acido si irradia dalla ferita.
Appena la nonna ha compiuto il suo olocausto, si fa indietro e sprofonda stremata nella sedia, nuovamente rinsecchita. Il rasoio spande il suo seme di porpora sul grembiule ingiallito.
Papà agita le mani. «Passate i bicchieri, presto!»
Mezzo dito di sangue a testa, tranne che alla figlia. Bevono tutti e assimilano il sapore della sofferenza.
La ragazza si è macchiata il vestito, il sangue cola per terra. La mamma interviene con Betadine e garza. Non è nulla di grave, ma il segno ci metterà parecchio tempo prima di andare via. È possibile che non sparirà mai del tutto.
L’arrivo del dolce in tavola cambia le priorità della famiglia. Tutti ci si avventano festosi.
La figlia osserva in tralice la garza, intimorita. Del tocco di Luca non è rimasto più nulla, nemmeno un sogno lontano.
Vorrebbe fuggire via, andare con gli amici e non avere un orario, ma non può farlo. Non è corretto alzarsi prima della fine del pasto, e nelle famiglie dabbene le tradizioni si rispettano.
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Bel racconto, ottima atmosfera.
Mi ha ricordato un brano di Shirley Jackson intitolato “La lotteria”