di Flavio Torba
Copertina di buccia
Un muro di eucalipti separa l’asfalto del parcheggio dalla spiaggia. Dove la sabbia è ancora costellata di foglie secche che si infilano tra le dita dei piedi e piccole spine che ne pungono le piante, c’è un cumulo di scarpe.
Sono decine. Da ginnastica, sandali, ballerine. Stivali, persino, in questa stagione.
Non servono, da qui in avanti. L’umidità della notte ha reso la sabbia pastosa e fresca.
Matubar parla dai suoi pallet impilati come dalla cima d’una montagna, grida di amore e futuro. Un profeta coi dreadlock. Gli occhi chiusi sono rivolti allo spazio interno e la bocca ride della beatitudine degli eletti.
Parla all’universo, non alla platea ondeggiante che ha dinanzi.
«Se non ce la fai ad abbandonarti», ruggisce: «allora fingi di averne la forza. L’unica cosa che hai da perdere è una serie di giorni tutti uguali».
Tommaso scalcia le sue Converse già slacciate e le lancia nel mucchio.
Quando verrà il momento, sarà diventato una piccola collina.
Si dirige verso il gruppo di incantati che ascolta la guida spirituale. La maggior parte ha in mano una bottiglia di birra. Gente normale. Qualcuno sfoggia ancora una camicia e una cravatta penzolante come un cappio reciso all’ultimo minuto.
Indossano il sorriso di chi è già salvo, oscillano a bocca aperta alla melodia del sermone, dentro bikini e bermuda della vecchia collezione.
«Qualche istante di paura quando arriverà l’onda. Qualche minuto sott’acqua senza ossigeno», continua Matubar. Ora parla a tutti come a un solo corpo: «Non ti ponevi questi problemi nella pancia di tua madre».
Tommaso ascolta con un orecchio solo, mentre immerge i piedi nell’acqua calma, piatta, così calda e trasparente da sembrare finta, con solo lo sciabordio sul bagnasciuga a tradire la sua realtà. Niente di più lontano dal mostro famelico che li vuole sommersi, annegati, smembrati con la violenza dello tsunami.
È il momento della calma, della riflessione.
Il dubbio nasce dalla mancanza di azione. Si ha tempo per pensare solo quando le acque sono quiete.
C’è chi accende il grande falò a qualche metro dalla battigia. Da dentro la buca, le cassette della frutta e le ramaglie iniziano a scoppiettare e a mandare scintille nell’aria che si va scurendo.
Le faville – Tommaso può vederlo anche da questa distanza – si riflettono negli occhi di Matubar mentre sbraita la sua predica di incoraggiamento.
«I telegiornali parlano di qualcosa che entrerà in atmosfera – dice – troppo piccolo per essere un asteroide e troppo grande per un rifiuto spaziale. Anomalo e non identificabile».
Tommaso punta le pupille su Matubar per incendiarlo e fargli pagare la sua sicurezza sovrumana, la sua fede incrollabile non comunicante.
Non sono un vaso. Non può riempirmi.
«Ci hanno detto che provocherà un mini tsunami. Le zone costiere saranno inondate, ma niente panico. Basterà spostarsi verso l’interno. Basterà la conformazione del territorio a mettere tutti al sicuro».
Il profeta rasta prende fiato prima dell’affondo finale. Li ha tutti in pugno.
«Ecco perché vi ho radunati sulla spiaggia».
Le ovazioni danzano insieme a fiamme e scintille e salgono al cielo in un anticipo di benvenuto. Sta per iniziare il Grande Viaggio. La folla ingoia il profeta. Inizia la musica.
Tommaso esce dall’acqua e raggiunge un minifrigo che qualcuno ha lasciato aperto sulla sabbia. Prende una birra. Non è più fredda, ma dovrebbe avere ancora un sapore accettabile.
Si abbandona a sedere a gambe incrociate, in mezzo alla nuvola di polvere sollevata da decine di persone che ballano seguendo la cassa dritta che sgorga da un vecchio amplificatore, abbastanza alta da sovrastare lo scoppiettio monotono del generatore a benzina.
Il sale sui peli delle gambe ormai asciutte, che tira la pelle come ogni estate, dice che nulla è reale. Che si andrà avanti come sempre e che la fine non esiste. Che gli oggetti non identificati in rotta di collisione sono uno scherzo. Che nella vita vera gli alieni stanno per i fatti loro, senza andare in giro a prelevare i prescelti per portarli su un altro pianeta.
La sequenza non è mixata e nella pausa tra un pezzo e l’altro arriva alla spiaggia l’insulto di un automobilista, perso nel traffico magmatico di una fuga lenta, insieme a centinaia di simili, agli anabbaglianti e ai clacson di scherno.
Tommaso guarda la superstrada, quasi mezzo chilometro più su, diversi metri sul livello del mare, illuminata da lampioni al led che verranno sicuramente risparmiati dall’onda in arrivo.
Non è molto diverso dal normale traffico estivo del rientro in città. È sempre la stessa rassegnazione al mondo reale, ma adesso è invitante come una sirena.
Dall’essere danzante si stacca la figura di Matubar. Viene avanti barcollando, svuotato di tutte le energie, coperto di sudore ma col sorriso sulle labbra.
Quando si siede accanto a Tommaso, l’aroma che emana è un misto di alcol, marijuana e panni sporchi.
Non dice nulla, aspetta che prima vengano le domande.
«Cosa stiamo facendo qui?» chiede Tommaso.
Il profeta sorride. Prende un sorso dalla sua birra e schiocca le labbra di gusto, prima di rispondere.
«La tua maledizione è nel nome, Tommaso».
«Sono davvero venuti a prenderci? Ci porteranno sulle loro astronavi?»
Ancora il sorriso.
Non ha risposte. Parla, ma non ha risposte.
«Fai un elenco delle cose che non vorresti mai perdere e tira le somme – dice Matubar – da che parte pende la bilancia? Verso le stelle o verso un cumulo di lavoro d’ufficio, centri commerciali e streaming senza limiti?»
Tommaso si alza di scatto, rovesciando il contenuto della Peroni sulla sabbia e su quel che rimane dei suoi dubbi. I piedi sollevano la sabbia con furia.
Prima che la luce del falò sia troppo lontana, cerca nel mucchio di scarpe le sue Converse, ma ormai la collina è cresciuta troppo. Una qualsiasi coppia di 42 allora va più che bene. Nike, Superga, infradito: un paio vale l’altro.
Si allontana, a piedi, non sente neanche la fatica ma solo la faccia in fiamme e la notte sul collo. La concretezza di granito della decisione.
Mai più. Non capiterà di nuovo. Non mi farò prendere in giro.
La piccola catastrofe circoscritta di cui parla la tv la guarderà dalla superstrada, al sicuro. Forse da un’area di servizio con annesso bar, con una Coca Cola fredda in mano.
Ha appena tirato la linguetta della lattina quando, qualche ora dopo, una scia di fuoco penetra il cielo con un boato per poi andare a spegnersi nella tavola di piombo del mare.
Dopo una settimana, gli effetti del disastro filtrano attraverso lo schermo rassicurante di un televisore. Tommaso ne segue gli sviluppi insieme ad altri avventori. Questo agriturismo pieno di sfollati – ambiente familiare, vista mozzafiato sullo Ionio, location esclusiva, dice il depliant – non vedeva così tanta gente dall’inaugurazione.
Mentre in tv le ruspe spostano rottami, travi di legno, blocchi di ville abusive crollate, un secondo dubbio si insinua come un verme a corrompere il dubbio più grande.
Le immagini del mare, ora tranquillo, sono puntinate di imbarcazioni, gommoni, sommozzatori che riemergono e seguono le indicazioni degli elicotteri.
Due dubbi non fanno una certezza.
La spiaggia, leggermente sgranata per la pessima ricezione, è cosparsa del vomito di tutto ciò che il mare ha ingoiato per anni.
Tommaso siede in poltrona, con ai piedi un paio di scarpe non sue. Si chiede dove sia il loro legittimo proprietario.
Eleonora gli si avvicina da dietro, poggia le mani sulle sue spalle. Vorrebbe essere confortante. Per quanto possano aver scopato da quando stanno all’agriturismo, Tommaso non riesce a mettere subito a fuoco il suo volto.
È la certezza a essere sfolgorante, non il dubbio. È la faccia di Matubar che aspetta ancora di essere incendiata, non quella di Eleonora. Lei è solo un’altra che ha preso un paio di scarpe dal mucchio per andare via all’ultimo momento e, adesso, fa ogni giorno la stessa domanda.
«Hanno trovato i corpi?»
È il nostro unico argomento di discussione. Per quanto possiamo scopare e dormire, davanti al telegiornale ritorna sempre.
Le ricerche. I cadaveri. Matubar. Il Grande Viaggio cui hanno rinunciato.
La domanda ritorna ciclica, non meno viscida del verme del dubbio dentro il dubbio. Non c’è modo di evitarla.
«Hanno trovato i corpi?»
E la risposta di Tommaso è sempre uguale da una settimana. Lo sarà tra un mese, un anno, una vita.
«Neanche uno».
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