di Pietro Bocca
Copertina di Pablo Follieri
C’ero passato solo perché mi avevano promesso che lì, proprio lì, se solo fossi riuscito a entrare, sarei morto. E invece no. Mi hanno fregato e sono diventato un fauno, e Stefano è diventato un pesce. Le fau, le fau, le fau-ne-rìe; le fau, le fau, le fau-ne-rìe. Però: allora. Sulla locandina smerdata appesa sulla fronte del locale c’era scritto: stasera facciamo le faunerìe. E io: e come si legge faunerìe? E Stefano: e io che cazzo ne so? Abbiamo pensato che era francese e non lo era. La locandina proseguiva: …le faunerìe, i giochi della morte, etc. Venite a conoscere il fauno! E io: ma che vuol dire? E Stefano: e io che cazzo ne so? Stefano, il mio amico, aveva bevuto, aveva drogato, era un cencio di olezzi – così l’ho abbandonato sul marciapiede agli ubriachi del porto. Di qua, di là, di qua, di là, il mio sguardo ping-pong, dalla soglia del locale al porto di fronte, l’acqua salata che sgargarozzava come una ragazzina spermòfaga sulle chiatte ammarate, e Stebano sdraiato coi merluzzi sul ciglio del mare: ubriachissimo. E io? Entrare e non entrare, vedere il fauno, giocare, vedere i giochi della morte, e forse anche la morte (quale morte?): Stegano con la giacchetta tutta stropicciata dalla salsedine, non mi guarda già perso, confuso. Io voglio la vita!, ho pensato: e quindi volevo vedere il fauno, la morte, e i suoi giochini da notte.
La soglia del locale era senza un lampione.
Le fau, le fau, le fau-ne-rìe; le fau, le fau, le fau-ne-rìe. Coretti bellissimi che venivano da dentro il locale e mi facevano pensare chissà cosa c’è dentro il locale. Stetano che non se la prende se me ne entro, che sarà mai (abbracciato ai merluzzi della droga di Livorno, strafatti di ghisa e pirulini metalmeccanici) perché Stetano è un amico vero, mica altre cose, mica macachi. E ridevo!
Dice che la soglia del locale era protetta da un pelato con un lipoma sulla fronte.
Fatemi entrare!, gli urlavo al pelato, e quello apriva bocca e mi diceva cose, diceva che lui non aveva bene capito per niente, poi sbattevo le palpebre e capivo; ero distante diecimila metri dal pelato e stavo belando piano piano, lui mi chiedeva cosa dicevo e io chissà, nella notte, a Livorno. Da vicino vicino, piano, avvicinandomi piano, a cingergli i fianchi da vicino, e ancora più vicino, sono entrato nell’orecchio e gli ho detto LE FAUNERÌE PELATO DEL CAZZO VOGLIO LE FAUNERÌE.
Il pelato con il lipoma sulla fronte in realtà era una colonna di polistirolo.
Questo non mi faceva entrare perché mi faceva pensare che ero ubriaco, e allora tanto valeva stare imbarcato nel sale con Stecano e i merluzzi della droga. Stecano conosceva le viuzze perché viveva a Livorno mentre io non conoscevo (non conosco) le viuzze perché vivo a Roma ma da turista, non parlo affatto la lingua. È un disastro. E allora avevo pensato che magari Stecano poteva portarmi per le viuzze a trovare un locale che magari c’era la musica e un pochino di ’shish e invece eccolo là, Steqano coi merluzzi. Naufragio allegrissimo. E quel pelato – no, quella colonna di marmo, al polistirolo, sulla soglia del locale, fra me e le faunerìe, fra me e questi giochi che volevo giocare. Signora mia, signora mia, se non accendono un lampione qua ci si perderà nel buio, memavo così nel mio cervello, belando al pelato. Steqano ti prego andiamo via non voglio più pensare MA LE FAUNERÌE? Aprite la porta per cortesia ve ne supplico.
Per entrare nel locale era sufficiente girare la maniglia.
Steqano! Stwewano! Stepano! Non cadere nell’acqua che poi ti fai male malissimo! E glielo dicevo ma lui dondolava. Intanto? Intanto facevo i passetti vicino alla soglia così il pelato se facevo piano piano non capiva, non sentiva, e potevo entrare. Ma poi mi sentiva, e un-due-tre-stella tornavo daccapo al ciglio del porto e partivo daccapo. E mi sentivo solo. E se dentro al locale facevano le faunerìe e io me le perdevo? Ci avevi pensato? Io che facevo poi? Me le perdevo tutte?
Sembra che nessuno degli ubriachi del porto abbia riconosciuto Stefano Fugazzi.
Giusto così. E poi ho messo un piede nel locale superata la soglia e ho visto la mia gamba diventare zoccolo e il mio zoccolo diventare aria ed ero un fauno, le fau, le fau, le fau-ne-rìe, facevano tutti il coro, ero io il fauno! Tu questo non lo puoi capire, eh. Questi giochetti della morte. Mica me li ricordo, mi ricordo solo il coro, lo facevano tutti e uno alla volta si scompariva via, scomparivamo tutti, loro non li si vedeva più, il locale sempre più vuoto, io, io – io prendevo la rincorsa e spingevo con la spalla il muro fuori dal locale per allargare il marciapiede, e Stevano faceva il merluzzo. Come un pesce.
Ora del decesso: le 4 del mattino, circa.
E tutti nel locale vuoto mi osannavano come il re dei fauni che aveva sconfitto la vita e conosciuto la morte! Tutti fantasmi per me! Era giusto, finalmente. Ormai conoscevo la morte ma Stefano era scomparso, c’era la giacca a galleggio sull’acqua, le chiatte immobili, e neanche una bollicina sul mare, ma io commissario che dovevo fare? Mi dovevo lanciare nell’acqua? Io non so nuotare e per di più ero un fauno, il re fauno, lo giuro, se mi tuffo cado a fondo come una lucertola, nuotare no – ma arrampicarmi sui muri, madonna. Una volta salivo sugli alberi.
Dichiariamo che Pietro Sbocciafiori, amico di Stefano Fugazzi, è un testimone inattendibile.
E mi manca tantissimo commissario, Stexano, di Livorno, delle viuzze. Ma io ne ero convinto: che mi mancava tanto così, commissario, tanto così, che ero già diventato il re dei fauni, e finalmente potevo vivere in pace e tornare a casa, e se tutto era giusto fare ancora le faunerìe. Ma adesso?
Devi capirlo da solo.
Ma io non ce la faccio, la testa mi fa i rumori in testa, da sola, io non posso pensare a tutto, a lavare i piatti (se i piatti stanno nel lavandino DUE ORE non è un problema, non erano questi i patti), a chiamare la proprietaria di casa, a dirle di Stedano, di Stefano, il mio amico dorme nel porto e io ho tantissime cose da fare, non ce la faccio, è una vita che sbatto le pentole e NESSUNO RISPONDE. Sono solo.
Devi imparare a respirare. Anata wa ochitsukanakereba narimasen, Pietro.
Io ci provo. Dentro e fuori dentro e fuori dentro e fuori. Ma se poi non ci riesco? Mi sento morire.
Troverai un altro modo. Sei ancora giovane.
Io… io sì, sono giovane sono ancora giovane. Ma sono solo. Non capisco dove sto andando. Non capisco se qualcuno mi ama.
Tutti ti vogliono bene. Tutti ti girano intorno.
Tutti?
Tutti.
…
…
…
…
…
…e Stefano?
Ti è piaciuto questo racconto? La copertina? La redazione? Tutti e tre?
Un racconto fuori di testa. Un racconto geniale. Voglio ancora faunerìe!