di Francesco Quaranta
Copertina di Roberta Delitala
«Siete tutti quanti dei bruti! Pericolosi e parassiti!»
Mi massaggiai il fianco appena colpito e ignorai le occhiate dei passanti, mentre la signora già pestava sui pedali e spariva inghiottita dal traffico che l’aveva sputata fuori un attimo prima. Era stata lei a tagliare le strisce pedonali e a rovinarmi addosso, ma scene del genere non mi stupivano mai: passi una vita a mimetizzarti, ad adattarti in una terra straniera, però appena qualcosa va un filo storta ecco che ti rigettano subito addosso i panni del predatore.
Tanto per dissimulare la rabbia controllai di nuovo l’sms: La sua pratica è stata evasa. Prego presentarsi allo sportello. Seguiva l’indirizzo di un ente che non avevo mai sentito nominare in tanti anni di permessi e richieste, tra prefettura, questura, consolato e sindacati. Ma poco importava: gli anni di pazienza, code e seccature stavano per essere ripagati.
Chiunque avesse progettato la facciata dell’Istituto Pubblico Integrato Affari Generali pareva aver scelto e mescolato tra loro i dettagli peggiori degli edifici adiacenti. Inoltre un lato sporgeva sul marciapiede, in fuori rispetto alla linea di tutti gli altri edifici, mentre quello opposto creava una rientranza, un po’ come se lo stabile si fosse arrestato all’improvviso nel bel mezzo di una rotazione su sé stesso. L’Italia mi aveva abituato a case fatiscenti dall’affitto gonfiato, scuole che cadevano a pezzi e ambulatori moribondi, eppure questa sporgenza mi pareva motivo di particolare imbarazzo per un ufficio pubblico.
Giunto al portone fui risucchiato all’interno da una corrente d’aria umida che mi spinse su un tappeto scarlatto, dal quale subito mi levai con un saltino perché ebbi l’impressione che le mie scarpe vi affondassero dentro, da quanto era bagnato. Fui felice di non trovare gente in attesa sulle file parallele di divanetti color avorio che correvano addossate alle pareti; fatta eccezione per un ragazzino tutto impegnato a battere come un forsennato su una piccola macchina da scrivere che doveva essere una di quegli apparecchi da stenografo. Rideva e picchiava sempre più forte come ho visto fare solo ai miei ragazzi davanti alla Playstation; finché una donna si schiarì la gola producendo un’eco secca per tutto l’androne. A quel punto il bambino mise da parte l’aggeggio e prese a strappare l’imbottitura del divano. Il volto incerato della donna in questione mi attendeva alla reception, proprio al termine del tappeto rosso, con un sorriso giallo di sigarette. Prima che aprissi bocca, il telefono sul bancone davanti a lei squillò. A dirla tutta, mi pareva che il volume dei trilli aumentasse man mano che mi avvicinavo, più di quanto la riduzione della distanza non giustificasse. Forse era il solito timore inculcatomi dalle istituzioni, ma quel ring dissonante diventò per me un vero e proprio ringhio che mi attaccava le orecchie nemmeno bramasse di vederle sanguinare. La donna allungò una mano verso la cornetta. La accarezzò senza smettere di fissarmi.
«Di che cosa abbisogna?» disse. Feci subito per mostrarle l’sms ma quella reagì alzando i palmi come se intendessi puntarle contro una pistola. Riprese però immediatamente il falso contegno: «Limpido. Mi talloni prego da questo lato».
Aveva ruotato il busto verso una scalinata che scompariva oltre un soffitto ricoperto da una schiera di tubature a vista che prima avevo scambiato per travi in legno. Sembravano gorgogliare come attraversate da liquido denso e ribollente, ma presto mi resi conto che non c’entravano i tubi, quello che sentivo era anzi un borbottio di voci incrociate e poco distinguibili. Cinese o indiano, pensai: mi figurai una sala d’attesa con un gruppo di teste che parlottano e si lamentano tra loro, al piano di sopra, ben consce di tutta la trafila che hanno davanti per ottenere permessi di soggiorno e visti vari. Davvero uno strano posto per piazzare l’ufficio immigrazione.
La donna strillò nel vedermi mettere il piede sul primo gradino. «Lì ci regge il capo! Non vi si ascende!».
Il telefono riprese a suonare, mentre la hostess combatté quella che riconobbi per certo come una forma esagerata di repulsione per costringersi a sfiorarmi e spingermi nella giusta direzione. Ora sì che riconoscevo il tocco amorevole dell’apparato amministrativo italiano.
Mi guidò fino sull’orlo di un buco nascosto dietro la scalinata. Potevo scorgere solo i primi gradini della discesa, talmente stretti da sembrare concepiti per portare sì al piano di sotto, ma non in un unico pezzo. Senza corrimano poi, mi chiesi quanta gente ci avesse rischiato l’osso del collo. Un’immagine tornò a cercarmi da quell’incubo confuso che era stata la mia infanzia: la Libia, recinzioni sotto il sole cocente, le occhiate involontarie verso la fossa comune, corpi ammucchiati come scarti di un processo che andava avanti oltre e nonostante la vita umana.
«E non blocchi il deflusso! Prosegua!»
Lo strillo della donna da sopra la mia testa si accordò al ricordo facendomi venire la pelle d’oca.
Percorsi un corridoio talmente stretto che le spalline della giacca grattavano via la vernice, illuminato da sporadiche appliques. C’era un vago odore dolciastro che mi faceva storcere il naso ma non ci feci caso immediatamente perché in breve arrivai a una porta a vetri: Sportello Unico I.P.I.A.G.
Sopra e sotto di me alitavano due grate dell’impianto di areazione, cominciai a tossire colpito dal getto d’aria e cercai di spingere la porta trasparente per levarmi da lì. In quelle condutture stava marcendo qualcosa, un topo, un piccione, un gatto, forse qualcosa di più grande. La porta scorse di lato e io persi l’equilibrio franando a terra.
«Fastidiosissimo problema quello dei germi eh eh eh», disse qualcuno non appena il mio accesso di tosse si calmò e io mi fui rialzato. «Bisogna preservare il corpo, così come la mente eh eh eh. Altrimenti ci si manda a male!»
Un vecchietto mi salutò con un cenno del capo da dietro il doppio strato di occhiali squadrati e di un plexiglass bucherellato. Più che una postazione di lavoro la sua era una grande gabbia in plastica per criceti dove il suo corpo stava incastrato tra schedari, scrivania, computer e una fotocopiatrice che avrebbe potuto inghiottirselo intero sotto il coperchio. Mi scusai, come se il conato di vomito fosse stata una mia negligenza.
«Cinque segreti per mantenersi in forma, interessa?», chiese.
«Non credo».
«Che ne dice dello yoga?»
«Mi scusi, dovrei correre a lavoro. Sono qui per la richiesta di cittadinanza».
Lui sistemò le lenti con un gesto ironico che mi fece tornare alla mente le infinite varianti di battuta dei miei colleghi italiani sul fatto di volersene andare da questo paese di merda, altro che cittadinanza. Pescò una tastiera da sotto il suo banchetto e ci soffiò sopra.
«Nome?»
Lo guardai inserire le lettere una a una, individuandole con un occhio iperattivo, l’altro strizzato e la lingua di fuori, prima di colpirle con uno dei due indici, sempre sollevati a uncino. Con questo procedere estenuante mi domandò una marea di dati personali alcuni dei quali ero certo di aver fornito più e più volte nel corso delle infinite trafile burocratiche degli anni scorsi. Tuttavia fui indulgente perché il nonnino mi stava simpatico e doveva anche essere prossimo alla pensione; spaesato più o meno quanto me: io che faccio il possibile per integrarmi in una società che farebbe volentieri a meno della mia presenza, e lui che probabilmente questa cosa se l’è anche già sentita dire da qualche superiore. L’interrogazione infinita saltava da un argomento all’altro senza apparente criterio se non quello di disorientarmi e tirare qua e là i fili della mia identità fino a disfarmi in una collezione di dati 0 poco più.
«Indice di massa corporea?»
«Senta davvero…»
«Ho già chiesto se le piace il sudoku?»
«Devo solo ritirare un documento, non rispondo più a niente».
«Ma… Ma questo è un sondaggio indispensabile! Per la storia… della…», controllò un post-it incollato sull’angolo alto del plexiglas, «…targhettizzazione».
Gli mostrai l’sms, lo pregai di lasciar perdere le domande e di concentrarsi sulla mia pratica. Feci di tutto per non mostrare troppo fastidio: dio solo sa quante volte un documento scompare nel nulla solo per dare una lezioncina all’immigrato che alza la cresta.
«Ah certo! Ecco qua».
«Dunque?»
«Manca l’F430».
«In che senso?»
«Senza il modulo F430, non posso rilasciare il suo diploma di cittadinanza».
«Il certificato».
«Quella roba lì, esatto. Serve un bell’F430».
Cominciavo ad avvertire il nodo dell’impotenza stringermisi in gola. Ingoiai l’ennesimo rospo per il fatto di essere stato così sprovveduto da pensare che me la sarei cavata senza altre complicazioni.
«E poi torni qua che mi serve sapere il suo consumo medio di gas».
Il corpo del palazzo si gonfiava in un open-space dove sottili colonne color gesso cariato curvavano su in alto per assecondare l’arco del soffitto, il quale sovrastava un labirinto di cubicoli dai divisori in plastica e legno. Mi trovavo sotto il livello stradale e i lunghi neon che si riflettevano sui lastroni tirati a lucido del pavimento non sopperivano la mancanza di finestre. Gli occhi avevano bisogno di inquadrare lo spazio sconosciuto, ma lo sforzo per adattarsi alla poca luce dava il mal di testa. Incrociai qualche dipendente che non dava però segno di notarmi, ognuno assorto in compiti che impedivano anche la cortesia più basilare. Come alla reception, non vedevo cittadini in attesa, a meno che non stessero tutti nascosti dentro le cellette degli impiegati. Eppure c’era una bella confusione di voci e rumori, amplificata in una specie di brusio organico dentro il quale non si potevano distinguere i singoli elementi. Il volume però non coincideva con la sporadica attività che potevo cogliere: pensai sorridendo che il chiasso fosse una registrazione filodiffusa, un modo subliminale per combattere la reputazione da fannulloni dei dipendenti pubblici.
C’era però un suono che spiccava su tutti, indipendente e ipnotico. Una specie di Shta-tum, Shta-tum. Guidò la mia attenzione, crescendo a dismisura, fino a una specie di vano d’ascensore che tagliava lo spazio dal soffitto al pavimento. Shta-tum, Shta-tum. MAI DISTURBARE L’ANDAMENTO MAI, era la scritta a lettere ritorte dipinta sul portoncino di legno. Al posto del monitor con l’indicazione del piano, una luce verde a intermittenza disegnava un picco frastagliato, come l’immagine di una montagna o di una zanna deforme. Shta-tum Shta-tum. Poggiai l’orecchio sul portone. Era il tonfo di un timbro gigantesco lasciato cadere su una pila infinita di documenti, Shta-tum Shta-tum, la cadenza precisa del suono si abbatteva ora sui timpani tanto da farmi percepire minuscolo quanto un insetto intrappolato dentro un grande marchingegno. Per un secondo fui certo che le scartoffie e i permessi fossero tutta una grande beffa, uno strumento per imbrogliarmi lo scorrere del tempo e consumare le mie speranze.
Non c’era verso di trovare l’ufficio F430 indicatomi dal vecchio, neanche percorrendo il salone su e giù più volte o provando a infilarmi in qualche cubicolo a caso, che puntualmente scoprivo essere deserto. L’unico corridoio accessibile recava la scritta Egresso, e pensai che fosse un invito a levarsi di torno.
«Buonasera a Lei, Mister. Ho io tutto ciò che Le serve». Voce giovane, rasatura perfetta, occhiali da sole anche nella penombra costante. Avrà avuto sì e no venticinque anni, indossava un completo carta da zucchero e si muoveva come un incrocio tra un vampiro e un agente di commercio. Che mi avesse osservato fino a quel punto da dietro una colonna?
Mi guidò verso la parete verde tranquillità che mi faceva pensare all’istituto dove tengo i corsi, e spinse un pannello a scomparsa. Rivelò così l’accesso a un ufficietto che, se non fosse stato per la scrivania ingombra di carte, un paio di sedie pieghevoli e uno schedario, avrei scambiato per un ripostiglio. Mi raccomandò di aspettarlo seduto comodo e infilò la chiavetta di plastica dentro una macchina del caffè alla mia sinistra pregandomi di non fare complimenti.
«La prego di scusarmi, sto andando in pausa pranzo proprio adesso. È una faccenda che non si può rimandare».
Mi lasciò lì a guardare il bicchierino che si riempiva di liquido scuro. «Mi aspetti pure qui, faccia come se fosse nella Sua baracca».
Un’occhiata in girò mi rivelò che le pareti erano impiastrate di muffa, ben visibile nonostante i tentativi di coprirla con vari manifesti. Uno di questi ultimi diceva: La tua abitazione non ti accoglie? Sei forse divorato dall’innocenza? A preoccuparti ti aiutiamo noi. L’italiano non è la mia prima lingua, eppure ritengo di aver raggiunto un livello più che buono, anzi, mi vanto proprio di poterlo insegnare, e non solo agli altri stranieri, ma anche ai miei studenti nativi. Tuttavia, in certe situazioni, torna a tormentarmi l’impressione di una barriera impalpabile tra me e il messaggio, come una distanza che di colpo si allarga e vuole riportarmi al punto di partenza. Mi capita per esempio nei colloqui con i genitori, quando vogliono dimostrare che ho commesso un errore nel fare il mio lavoro, e in generale quando qualcuno cerca di manipolarmi, di nascondermi la realtà dietro giri di parole. Questi manifesti non me la dicevano giusta: la superficie era torbida e la sostanza era un vuoto che mi metteva a disagio.
«Oddio!»
Il filo di caffè della macchinetta non si era fermato e ora mi accorsi che strabordava dal bicchiere fino a cadere sul pavimento: una pozzanghera nera e fumante si allungava verso di me. Scattai in piedi e rifilai un paio di colpi alla macchinetta senza però riuscire a fermarne il flusso. La sentii anzi sbilanciarsi e dovetti spostarmi in fretta per non finirci schiacciato sotto. Anche così, con il muso fracassato a terra, il liquido continuava a fluire dall’apparecchio come sangue da un cadavere accasciato. Ma non era colpa mia! Era stato il muro ad andarle contro! È assurdo raccontarlo, ma era come se la stanzetta avesse avuto uno spasmo. E quei manifesti alle pareti non erano forse più vicini adesso? Potevo vederli meglio: perché mai mi sembrava che la carta emanasse direttamente dalla muffa?
Cercai di controllare il respiro, ma un tremito si scaricava lungo tutto il braccio allungato in direzione della porta. Le dita non trovavano alcuna maniglia e cominciavano a tastare frenetiche le fessure, come insetti spaventati che cercano la protezione del buio. Il varco non si apriva. Giuro, avvertii attraverso la scarpa il caffè che arrivava a lambirmi il piede e feci un salto nemmeno si trattasse di lava bollente. Mi ritrovai a sbattere contro la porticina che si era avvicinata ancora, la stanza si era contratta per non lasciarmi scampo. Il caffè inondava la moquette e qua e là scoppiavano delle bolle che liberavano nell’ambiente un odore di bruciato e si mangiavano l’ossigeno. Io sentivo la porta, la sentivo pulsare.
Credo di aver perso conoscenza, perché quando finalmente questa si aprì, mi ritrovai seduto a terra.
«Ma di grazia! Che ci fa Lei ancora qui dentro?» disse l’uomo di prima. «La prego di venire fuori».
«Io… Credo di aver bisogno di un gabinetto».
«Senta, per favore, non mi faccia perdere tempo perché io sto per andare in pausa pranzo».
«Ma…»
«Cosa cazzo è venuto a fare qui Lei, se posso permettermi?»
«F430, mi serve il modulo».
«Sì certo e per farsene cosa, sarei proprio curioso di saperlo?»
«Il suo collega ha detto di chiedere…»
«Chiedere! E se chiedessi io delle cose a Lei? Per esempio, che è successo qua dentro? Sembra l’alluvione delle Marche, lo tsunami della Thailandia! Ma ci si può comportare così, mi consenta!?»
Rividi il volto della signora che mi aveva investito in bicicletta, quell’ignoranza mascherata da spavento che si approfitta dell’accaduto per lasciar abbaiare istinti e pensieri molto più crudeli.
«Lei, mi permetta di dirlo, è come tutti gli altri voi che venite qua belli abbronzati a fare i vostri porci comodi. Scommetto che questa bella giacchetta Lei l’ha presa con i soldi del reddito di cittadinanza!»
«Non ce l’ho la cittadinanza!»
Finalmente, quello che già sapevo a livello razionale riuscì a raggiungere e illuminare la mia coscienza profonda: io non meritavo quel trattamento. Avevo dei diritti. Anche se venivo dall’altra parte del mondo, anche se non mi sarei mai adattato del tutto, anche nel caso in cui avessi deciso che questa società non meritava più i miei sforzi per lasciarmi assimilare, io avevo dei diritti sacrosanti, e lo ribadii alla faccia incredula del tizio. Quello era il giorno in cui li avrei fatti valere fino in fondo, anche di fronte ai soprusi di piccoli e tristi impiegati come lui.
«Ha perfettamente ragione» disse quello contraendo un ghigno. «Le mie più sentite condogl… Le mie più sentite scuse».
Registravo il vociare del salone attorno a noi che andava in crescendo, vi si era aggiunto anche il suono di un allarme.
«Voglio solo la mia benedetta cittadinanza, e poi me ne ritorno da dove sono venuto!»
Mi trovai costretto a urlare per sovrastare il frastuono senza fonte che adesso ricordava la sirena antievasione di un carcere. E poi c’era come una serie di passi, a cadenza regolare, decine e decine di persone che avanzavano come un corpo unico.
Mi sentii battere sulla spalla: il giovane mi stava porgendo un piccolo fascicolo spiegazzato e insolitamente tiepido; notai che si era sbottonato la giacca.
«Stavo per dirLe che mi sono ricordato dov’era la Sua pratica».
Si scostò quando allungai la mano.
«Un grazie magari ci starebbe bene, Mister».
«Grazie».
Mi osservò poco convinto mentre lo scalpiccio invisibile cresceva nelle mie orecchie e si mescolava al suono cadenzato di quel timbro o ascensore che fosse, in uno Shta-tum Shta-tum sempre più rapido, che mi faceva sudare freddo. Non sarei mai e poi mai tornato indietro da dove ero venuto.
«Grazie mille, signore, grazie infinite», dissi. E quello mi concesse la pratica.
Avevo imboccato il corridoio denominato Egresso. Il trambusto alle mie spalle era diventato il terremoto di un plotone di fanteria alla carica, e io mi spinsi avanti in quello che ormai aveva sempre più l’aspetto di un tunnel. Non so dire cosa fosse a terrorizzarmi a quel modo: anche nel caso in cui avessi fatto qualcosa di male, non l’avevo di certo fatto apposta: ero un lavoratore, una persona rispettabile, poco ci mancava che fossi esattamente come loro. Certo, il colore della mia pelle e il nome sui documenti avrebbero sempre suscitato imbarazzi e reazioni indesiderate, ma insomma, ero un cittadino italiano adesso! Chiunque mi stesse inseguendo, servizi di sicurezza o forze dell’ordine, cosa avrebbero mai potuto farmi? Erano lontani i tempi dei campi di detenzione, giusto?
Eppure continuai a correre lo stesso, incapace di prendere aria, talmente sudato nella mia camicia buona da avere l’impressione di liquefarmi, anche dopo essermi disfatto della giacca. Finché andai a sbattere contro qualcosa di fragile che franò e rotolò a terra.
Aveva l’aspetto di un barbone, rachitico, curvo, consumato fino al midollo da qualcosa che doveva essere ben più tremendo di una dipendenza comune. Davanti a noi, poco più avanti, potevo vedere la luce del sole. L’uomo rantolava, indicava quell’apertura in lontananza, e poi tornava a gettare gli occhi nel buio alle mie spalle.
«Il trasferimento del permesso. Il permesso di trasferimento…», borbottava a ciclo continuo.
Lo aiutai a rimettersi in piedi e provai a trascinarlo verso l’uscita, incalzato dallo scalpiccio alle nostre spalle. Ma dopo avermi seguito per qualche metro cominciò a fare resistenza.
«No, no! La pratica! Il modulo! I certificati!»
Lottò, fece di tutto per non farsi spostare, ma ero deciso a non abbandonarlo, nemmeno quando mi sembrò di scorgere la sagoma informe e chiassosa dei miei inseguitori. Mi caricai quel relitto di uomo in spalla, fu come sollevare un guscio vuoto; ogni volta che cercava di colpirmi con le braccia per divincolarsi temevo di sentire le sue ossa rompersi. Ripresi a correre inciampando su rifiuti, radici e non so quale altro tipo di resti. Avevo la vista annebbiata, il naso assalito dal puzzo del moribondo e le orecchie assordate dal temporale di passi lanciati al nostro inseguimento. L’uscita era un cunicolo grande a malapena per passarci accucciato, spinsi avanti il tizio tenendolo per i piedi e lo vidi raggiungere la luce per poi scomparire oltre la soglia. Poi mi graffiai braccia e fronte per riuscire stringermi e passare a mia volta, persi entrambe le scarpe. Ma alla fine fui fuori.
Accecato dalla luce del sole, non c’erano più rumori né sirene d’allarme. Del disperato nemmeno l’ombra. Dietro di me c’era solo un vecchio muro di mattoni a vista coperto di licheni che perdeva polvere rossastra, era attraversato da una grossa crepa per tutta la sua altezza, ma nessun passaggio. A due passi da me c’era il tracciato della ferrovia, faticavo a capire in che parte della città mi trovassi. Volevo tornarmene a casa e darmi malato per la giornata: ero sfinito, e non solo per la corsa. C’era come un vuoto dentro di me, aspettavo una specie di sollievo dopo il grande spavento ma non lo vedevo arrivare, come per la riabilitazione dopo un brutto incidente o la minaccia di ciò che ti aspetta dopo il salvataggio dalle onde. Mi sentivo diverso rispetto a quando avevo messo piede nell’Istituto Pubblico Integrato Affari Generali, sentivo una mancanza in petto. I piedi scalzi, la camicia nuova tutta bagnata che adesso mi pareva anche improvvisamente troppo grande per me. Come sempre quando si ha a che fare con la burocrazia, bisogna cedere qualcosa se si vuole ottenere qualcosa di importante in cambio.
Mi sedetti sul marciapiede con la faccia al sole e mi asciugai la fronte, mi sforzai di rilassare le dita che ancora stringevano la cartella della mia pratica fin quasi a bucarne la carta. Dichiarazione comprovata di richiesta indennizzo per maternità ordinaria anacronistica e sostitutiva.
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