Le voci del tempo

di Giulio Iovine
Copertina di Julio Armenante

I look inside myself and see my heart is black
I see my red door, I must have it painted black
Maybe then I’ll fade away and not have to face the facts
It’s not easy facing up when your whole world is black

Rolling Stones- Paint it black

1. Il mio migliore amico è una lucertola

È da un po’ di tempo che io e Samuel non si usciva insieme a fare due chiacchiere. Il lavoro ci prende via molto tempo. Due settimane fa ho prenotato da Manson’s per una cena di lavoro, ma il collega poi si è ammalato e mi ha dato buca il giorno prima. Era l’occasione perfetta per portare Sam fuori a cena, e gli ho subito mandato un messaggio.

Fantastico, volentieri. Ma a che ora?

Quando vuoi, ho risposto. Perché?

Vado a sentire un concerto all’Opera House.

Oh cristo. E quanto dura?

È solo la Decima di Mahler. Penso che per le dieci e mezza avremo finito.

Ma sei abbonato?

Eh, sì.

E giustamente non vuoi sprecare l’abbonamento.

Eh.

Guarda, solo perché sei tu.

Grazie, Adam.

È una serata di febbraio, calda e umida. Mi sono stordito di Netflix fino alle nove e mezza, poi ho preso un Lyft per l’Opera House e mi sono piazzato lì davanti ad aspettare Sam, che puntualmente alle dieci e qualcosa è comparso in mezzo alla folla che usciva dalla sala concerto. Non faccio mai troppa fatica a distinguerlo anche quando è circondato, come in questo caso, da centinaia e centinaia di persone, perché Sam non è una persona.

Lo vedo uscire dalle porte di vetro con il suo solito passo ondeggiante; doppiare una dopo l’altra le persone che vagabondano; arriva infine fino alla ringhiera che dà sul mare e guarda il porto e l’orizzonte illuminato dalle luci di Sydney, cercandomi. Non vede granché bene al buio. Appoggia le zampe anteriori, fornite di cinque artigli a falcetto, sul parapetto della ringhiera e prova ad alzarsi puntellandosi con la lunga coda a frusta. Gli vado incontro.

«Sam»

«Oh, eccoti qui. Non ti trovavo»

Indossa una pettorina blu Florida, come se fosse un cane: solo che è lunga cinque metri e gli corre dal collo alla zona distale della coda. Dice che lo aiuta a confondersi meglio in mezzo alla gente, e gli piace molto il colore. Per un attimo mi viene in mente l’idea orrenda di tenerlo al guinzaglio. Vedi quando sono specista certe volte.

«Allora? Valeva la pena di andare a cena tardi?»

«Scherzi? Mahler è uno dei pochissimi musicisti umani che riesca un minimo ad interessarmi».

Ci incamminiamo verso la rotonda di Macquarie Street, dove ci deve venire a prendere il Lyft.

«Mahler mi ricorda tantissimo l’Australia dei miei tempi», continua Sam. «Il fracasso e il silenzio. Le orrende dissonanze che si risolvono in un tremito. L’indifferenza del mondo, che procede come un blob senza ossa, un passo dopo l’altro senza dirigersi da nessuna parte».

«Cristo, Sam. Hai parlato con un musicologo prima di dire queste cose?»

«Perché? Ti sembra sensato?»

«No. Al contrario».

«Oh, senti. La musica è di tutti. Mi riservo il diritto di farmi venire in mente le immagini che paiono a me».

«Amen. E quindi ti piace Mahler».

«Mi piacciono Mahler e i Rolling Stones».

«E basta».

«No, ma fondamentalmente questi due».

«Ma sarai strano. C’è tanta bella musica in giro».

«Lo so, ma io non mi sono evoluto per apprezzare la musica. Non credo neanche di sentire certe frequenze».

«Non ti sei evoluto per un sacco di cose che però fai».

«Touché».

Quando ancora non lo conoscevo bene, passeggiare con lui mi faceva venire sempre un’ansia tremenda: qualcuno si dovrà pur accorgere, pensavo, che sto camminando a fianco di una lucertola carnivora di sei metri che mi arriva all’altezza del petto e tira fuori la lingua ritmicamente per sentire gli odori. Non mi ero ancora abituato al fatto che Sam, nemmeno lui sa perché, riesce a convincere con un’occhiata chiunque lui voglia, di stare guardando un semplice uomo di mezza età in impermeabile beige. Se ci sta attento, può rimanere per ore in mezzo ad una folla senza che nessuno si renda conto che non è una persona.

«E perché», gli chiesi anni fa «a me ti sei sempre mostrato come lucertola?»

«Perché mi stai simpatico», mi aveva risposto.

Come non volergli bene?

«Dove mi porti a cena?»

«Te l’ho pur detto. Da Manson’s. Al Darling Harbour».

«Che si mangia?»

«Pesce. Ecco, fermati, è qui che ci vengono a prendere».

«Adam, non potevamo andarci a piedi? Da qui al Darling Harbour sarà una mezz’ora».

«Eh, e io reggo da qui a mezz’ora? Guarda che non ho ancora cenato».

«Voi mammiferi siete tremendi. Non pensate che al cibo».

«Sangue caldo. Spiacente».

«Sì, per carità, non è colpa vostra. Come mai proprio in quel ristorante?»

«È famoso».

«Mai sentito».

«Vivi a Sydney da… da quanto vivi a Sydney?»

«Da quando c’è Sydney».

«Ecco. E non hai mai sentito parlare di Manson’s?»

«Non vado quasi mai al ristorante».

«Però il Darling Harbour lo conosci bene, mi sembra».

«Ah, sì. Guai a chi mi toglie le mie passeggiate al porto la domenica. Sai che bei ricordi?»

Mi ha raccontato duecento volte – ma non mi stanco mai di sentirglielo ripetere – di quando da giovane, in periodo di magra, seguiva il fiume fino alla foce e provava a pescare nelle acque marine, dove tanti e tanti anni dopo avrebbero costruito Sydney. All’epoca non erano arrivati nemmeno gli inglesi. I varani, mi assicura, non amano nuotare – ma se proprio devono lo fanno benino. Naturalmente, da quando vive in mezzo agli uomini – cioè, da quando gli è impossibile nascondersi da loro, perché ormai sono ovunque – queste performance da carnivoro di alta scuola cerca di evitarle. Compra la carne in macelleria, e ha un buon impiego in una compagnia di assicurazioni, dove ho lavorato per qualche mese (fu allora che lo conobbi). Abita in un appartamento dove ha fatto in modo di abbattere quasi tutti i muri, così da potersi muovere a suo agio date le sue dimensioni. Lo ha arredato con sobrietà. Gli amici (io in particolare) adorano sedersi sul suo divano celeste. Una sera l’ho sorpreso a cucinare.

«Dopo cena ti porto al cinema», annuncio.

Sam non risponde.

«…non dirmi che non sei mai stato al cinema».

Intanto mi vibra il cellulare. Sta arrivando il nostro taxi.

«Sì, ma molto tempo fa. Era piccolo e stretto. Non stavo comodo».

«Ti porto in una multisala, c’è tutto lo spazio che vuoi».

A proposito di spazio, ecco il nostro taxi. Ho specificato che volevo un SUV, così Sam – sia pure costretto a raggomitolarsi un po’ – riesce a stare seduto dietro, e io accanto a lui.

«Che hai fatto mentre io ero al concerto?»

«Sono stato a drogarmi di Netflix».

«Che hai visto?»

«La quinta serie di Sex Education».

«Tutta?»

«Ma no. I primi tre episodi».

«Non sei il tipo da passare metà di una serata sul divano. E stasera sei troppo di buonumore. Tu mi nascondi qualcosa».

«Sono contento di uscire con te».

«Ci credo, ma c’è qualcosa in più. Sento del feromone nell’aria», dichiara Sam, tirando dentro e fuori la lingua. Maledetto il suo organo vomeronasale, non gli scappa niente.

«Potrei avere fatto aperitivo alle sei e mezza».

«Eccallà. Come si chiama, lei

«Mabel Denham».

«La vice di Fillmore, quello di Risorse Umane?»

«A-ha».

«Limone?»

«A-ha». Sotto la pensilina del bus, mentre la riaccompagnavo a casa.

«Ma vedi questo. Voi mammiferi non pensate ad altro».

(Fa il burbero, ma si capisce che è contento per me.)

«Lei non la conosco quasi», continua Sam.

«Ti piace molto?»

«Moltissimo, Sam. La conosco da un po’ ma prima di uscirci non mi ero reso conto che fosse… bè, come è».

«E com’è?»

«Ma è spiritosa, divertentissima, non ti lascia un metro di spazio per fare una battuta, poi si capisce che è anche molto dolce, e…»

«È carina?

«Ci mancherebbe. Ha i capelli ricci, rossi, un po’ formosa, anzi proprio cicciotta, sai che a me piace la panza, e…»

Mi fermo.

«Ora che ci penso. Tu mica sei progettato per trovare attraenti le femmine umane».

«Decisamente no».

«Io sono anni che ti descrivo puntualmente ogni tipa con cui esco, ma ha senso? Alla fine non è che la cosa significhi granché per te».

«No, ma per te sì, che è il motivo per cui me lo racconti. Non essere tonto e continua».

«No dai Sam, seriamente. Le femmine umane non ti dicono niente?»

«Strane creature rose, sbilanciate e chiassone. Come i maschi, ma con la voce più acuta. Onestamente, no. Non è la mia tazza di tè, come diresti tu».

«Immagino. Hai mai avuto una compagna, quando vivevi tra i tuoi simili?»

Sam parla volentieri di molti fatti del suo passato. Ma ci sono argomenti su cui preferisce stare zitto. Uno è quello che ha fatto nella sua vita dopo che, bè, i suoi simili sono scomparsi (e qui capisco il trauma). Un altro è la sua vita sociale (se ne ha mai avuta una). E così mi tocca aspettare cinque minuti buoni, e che il Lyft arrivi davanti a Manson’s e ci faccia scendere, per sentirlo rispondere, davanti all’entrata:

«Sì, ne ho avute alcune. Da noi usava stare insieme, fare un cinque o sei covate, e poi cambiare. Me ne ricordo soprattutto una. Si chiamava Abigail Morris. Fu Mrs Bannister per parecchie stagioni, forse la relazione più lunga che abbia mai avuto. Una femmina non facile».

«…non facile?»

«Come tutte le nostre femmine, era aggressiva. Il che è normale, erano più piccole di noi di stazza, dovevano compensare in carattere. Poi lei aveva qualcosa di particolare. Ti teneva a bada solo guardandoti. Non so come facesse».

Come se ci stessimo facendo una confidenza tra ragazzini, anziché entrare al ristorante mi chino per avvicinare l’orecchio al muso di Sam. Incrocio il suo sguardo – gli occhi piccoli e tondi, un po’ indeboliti dall’età.

«Insomma era una tosta».

«Eccome».

«Sarà stata anche piccola rispetto a te, ma una lucertola della tua specie doveva essere enorme».

«Ma neanche, solo quattro metri e mezzo se conti la coda. Però non le passavi davanti senza darle un’occhiata impaurita. Quando si stendeva al sole del mattino, sulla terra rossa della nostra radura, e la sentivi respirare, e guardare il mondo con i suoi terribili occhi neri, allora pensavi che saremmo vissuti per sempre».

Lo sguardo a terra, Samuel tace. È qui che intuisco di avere forse chiesto troppo. In silenzio gli faccio cenno di entrare da Manson’s; il cameriere ci fa accomodare, e ci porta l’acqua e due menu. L’argomento donne si poteva evitare, mannaggia a me. Non ho ottenuto altro che ricordare a Sam per l’ennesima volta – come se non se lo ricordasse già di suo tutti i giorni – che avrà anche tanti amici rosa e a due gambe, ma un varano gigante dovrebbe andare in giro coi varani giganti, e siccome la specie è estinta, Sam è solo – e per il resto della sua vita.

«Forse non dovevo toccare questo tasto, inizio a dire a menu alzato, fingendo di leggere le portate».

«Quale?»

«La compagnia femminile, diciamo».

«Ma figurati. Sono fatti della vita, tu hai i tuoi, io ho – avevo – i miei, e ce li raccontiamo. Mica puoi camminare sulle uova ogni volta che mi parli».

Passa il cameriere. Samuel chiede se c’è del sushi. Il cameriere, inorridito, risponde di no. Samuel allora chiede se hanno pesce crudo. Il cameriere risponde che c’è una vasta selezione di tartare, che Sam ordina tutte.

«Ben crude, dice al cameriere».

«Sam, sei incorreggibile».

Samuel fa una smorfia che quasi quasi scambierei per un sorriso.

«Certo che vivere con gli umani…», esclama.

«Vivere con gli umani cosa?»

«Niente. Fa già ridere così. Un tempo mi sarebbe sembrato un tradimento. Vivere in una città, imparare l’inglese. Da giovane ero più prevenuto. Con gli umani non si parla, mi dicevo, li si ammazza e basta».

«E cosa ti ha fatto cambiare idea?»

«La necessità. Il tempo dell’odio era finito. Ormai siete dappertutto, e continuare a scappare – o a darvi contro – non aveva senso. Che potevo fare, solo contro una specie tanto invasiva? Tra l’altro…»

Si interrompe. Rimugina.

«Tra l’altro?»

«Io odiavo gli uomini di un tempo. Quelli che sono arrivati in Australia quando ero giovane. È con loro che avevo un credito, un credito inesigibile, per avere braccato e decimato la mia specie. Tu e gli altri che conosco a Sydney siete i loro discendenti, ma che colpa avete di quel che ho sofferto? Non mi avete mai fatto nulla».

«E se la tua specie ci fosse ancora, ci comporteremmo molto diversamente».

«Appunto. Siete adulti, ormai. Cominciate ad avere coscienza del pianeta in cui vivete. Che vendette potrei mai fare?»

«E chi ti dice che dovresti farle tu?, gli rispondo con un sorriso».

Intanto arrivano i piatti e i due calici di bianco che ho ordinato. Sam dice sempre che il suo stomaco non regge l’alcool, però lo beve ogni volta che può.

«Chi, se non io? Hai presente la vita che ho fatto?»

«Alcune parti. Altre molto meno».

«Quel poco che sai dovrebbe bastarti. Io ero qui da prima che arrivaste voi. Nessuno può giudicare meglio di me colpe e meriti della razza umana».

«Sam. Sei l’essere più orgoglioso che io conosca».

«E ci mancherebbe altro. Samuel Bannister è Samuel Bannister, e resterà chi è fino alla fine dei suoi giorni. Fino alla fine della sua favolosa vita di rettile carnivoro».

Si pulisce il muso con il tovagliolo, e tenta vanamente di bere dal bicchiere. Troppo stretto, è una flûte – mi sono dimenticato che gli ci vuole una ciotola. Potrebbe anche bere dalla bottiglia in effetti, ma così darebbe davvero troppo nell’occhio.

2. Una volta qui era tutta campagna

Dopo avere lasciato la parola per quasi sei pagine a quell’inutile ottimista del mio amico Adam – oh quei suoi occhi chiari con cui guarda il mondo e lo vede sempre più bello – mi sembra il caso di dire anch’io la mia. È facile, quando sei una lucertola gigante in mezzo agli umani, moderarsi e soffrire in silenzio. Gli amici ti ascoltano, ti vogliono bene: ma sono umani, non è colpa loro se non colgono tutto il potenziale di questo chiodo tremendo nella realtà, ossia la mia anomala esistenza. E allora perché sprecare una lamentela. Un altro motivo per cui sto zitto è che non sono più giovane: le disgrazie non mi hanno ucciso, ma inevitabilmente ne sono uscito cambiato. Mi chiamo sempre Samuel Bannister. Sono sempre un Varanus priscus, o Megalania (Owen, 1859). Ma è passato del tempo da quando avevo abbastanza energie per fare una strage, o ero circondato dai miei simili. Questi sono tempi di rassegnazione, di solitudine e, inevitabilmente, di pace.

Vivo a Sydney, intendo dire in città, da quando l’hanno fondata – in realtà pochi anni dopo: il primo insediamento fu nel 1788 e io ho messo su la mia prima casa qui nel 1814. Per un certo periodo ho anche fatto avanti e indietro tra Sydney e le montagne, non ero proprio convintissimo di questa faccenda di vivere con gli esseri umani. Ma ero già al mondo da tanto tempo. Contando col vostro metro, cosa che ho imparato a fare da poco, sono ormai quarantamila anni che sono lo zimbello del Tempo Profondo. All’epoca, quando ero giovane, qui c’era un grande fiume che tagliava a metà una fitta foresta. Non c’erano gli uomini: non erano ancora arrivati in Australia. Per la foresta camminava una serie di esotici animali che oggi, per la maggior parte, troverete solo nei musei, ridotti a poche ossa. Il mare non era allo stesso livello di oggi: si alzò quando si sciolsero i ghiacci a sud. Ma io ne sapevo poco: vivevo a parecchi chilometri dalla costa, e il mio territorio comprendeva un pezzo di foresta, uno di savana e uno spicchio di riva di fiume, dove – siccome ero tutto sommato tollerante – potevano scendere a bere un po’ tutti.

All’epoca io e quelli come me, intendo le grandi lucertole carnivore, eravamo qualcuno in Australia. Potevamo giocarcela alla pari con tutta la giostra di meravigliose creature che abitavano quel mondo: i grandi marsupiali, i coccodrilli di terra, i canguri alti due metri e mezzo, gli uccelli del tuono che potevano spezzare un osso con il loro becco. Nella regione che abitavo io eravamo tantissimi e si può dire che era un po’ casa nostra, se ci passavi in mezzo dovevi portare rispetto.

Un giorno capitò dalle nostre parti un bunyip, come lo chiamano gli australiani veri, quelli che per primi vennero qui. Nei loro ricordi e nei loro miti è un bestione che vive nei fiumi e rovescia le canoe. Nella realtà erano marsupiali erbivori, molto grossi e pesanti. Non esattamente le nostre prede preferite, molto pericolosi se s’incazzavano – ma questo bunyip solitario, volendo tagliare attraverso il bosco, finì per disturbare la pennichella quotidiana di mia zia Gardiner, che riposava di preferenza in una tana alla base di un tronco di eucalipto, camuffata sotto un velo di foglie secche. Zia sentì arrivare l’intruso, scattò in avanti e gli morse la gamba poco sopra alla caviglia. Sentimmo l’urlo del bunyip a chilometri di distanza.

Voi capite che noi siamo, cioè eravamo, anche velenosi. Un anticoagulante naturale nella nostra saliva. A sentire un urlo del genere ci mettevi poco a prevedere il finale della storia: tempo qualche giorno e il bunyip sarebbe cascato a terra morto dopo una lenta agonia. E con un bunyip morto ci mangiamo in trenta varani. Accorremmo quindi da tutta la regione in direzione dell’urlo. Che ricordi, che tenerezza. Quante vecchie conoscenze. Anzitutto c’ero io, che abitavo nei paraggi. Poi zia Gardiner, suo marito e le cinque figlie Henrietta, Louisa, Matilda, Charlotte e Maria. Il signor Hervey e due giovani signorini Hervey, gli unici due che non era riuscito a mangiarsi dopo che uscirono dall’uovo. La signora Darnford, vedova da poco, evidentemente in cerca di copula, ché presto avrebbe ovulato. Il signor Musgrave, che era mio terzo cugino o qualcosa del genere. I Thompson. I Croft. I Palmer. Insomma tutto il Gotha delle lucertole carnivore della zona con la bava alla bocca, perché non la becchi tutti i giorni una montagna di carne senza esserti preso lo sbatto di cacciarla tu.

Rintracciammo il bunyip grazie all’odore di carne marcida. Camminava in una radura, zoppicando con penosa lentezza. La ferita sulla caviglia era larga due volte tanto e coperta di mosche – ne colava un brodo giallastro e viscoso. Si fermò in mezzo al prato, dondolando la testa, e lo circondammo in attesa che tirasse gli ultimi. Cadde infine a terra e gli fummo sopra in trenta, con la furia ottusa e maligna che ci prendeva quando era pronto in tavola.

(Oggi sono più moderato in presenza del cibo: non m’incazzo nemmeno quando faccio la fila per entrare al ristorante coreano.)

Siccome ero tra i più giovani e di stazza minore, mangiai per ultimo. Per fortuna c’era ancora un po’ di intestino. Mentre ficcavo la faccia nelle budella del bunyip, e brigavo per estrarne un pezzo, mi cadde l’occhio su un compagno di abbuffata che non era uno di noi. Stava provando a strappare un arto del bunyip, incastrato tra le sue fauci, torcendosi con tutto il corpo. Mi sono girato verso destra e l’ho squadrato per bene. Non era uno di noi e questo era ovvio. Somigliava a un coccodrillo di terra, ma era molto più piatto e aveva zampe molto più corte e laterali. Mentre mi chiedevo che accidenti potesse essere, si voltò pure lui a guardarmi, lasciando cadere la zampa di bunyip.

«Ci conosciamo?»

«No. Lei non è della mia specie».

«Lo credo bene».

E ricominciò a provare a staccare la zampa del bunyip, questa volta riuscendoci.

Rincarai la dose: «Non penso di averla mai vista da queste parti, signor…?»

Inghiottì la zampa in un solo boccone.

«Merryweather».

«Merryweather, e…?»

«E basta. Merryweather».

Non ho mai saputo il suo nome, solo il cognome. Finito di mangiare, si voltò e si avviò verso il fiume. Gli tenni dietro, tallonandolo nel sottobosco.

«Le serve qualcosa?», mi chiese senza neanche rallentare.

«Sì. Lei mi deve rendere conto».

«Di che?»

«Di essere intromesso in un pranzo di varani. Lei non è mica un varano».

«Grazie al cielo no».

«Ehi ehi ehi. Un po’ di rispetto».

Arrivammo in vista del fiume.

«Non vedo come io possa essere stato irrispettoso, signor…?»

«Samuel Bannister».

«Signor Bannister, lei mi pare un po’ troppo giovane e un po’ troppo facile alla stizza per provocare un coccodrillo marino di due volte il suo peso».

«Ah, è questo che è lei?»

«Sì. Mi rendo conto che da queste parti non ce ne sono molti, quindi la perdono per non esserci arrivato da solo».

Mi sedetti, cercando di non sbatacchiare la coda di qua e di là, come sempre quando sono irritato. Il coccodrillo, dal canto suo, si sdraiò sul bagnasciuga del fiume a prendere il sole e digerire.

«Cosa la porta da queste parti, signor Merryweather? Se posso chiedere».

Sbadigliò.

«La mia buona stella, oserei dire. Sono nato molto a nord di queste regioni. Lassù siamo moltissimi, anche troppi per i miei gusti. A noi coccodrilli piace gestire territori ampi, se ci facciamo a pezzi in venti per un metro quadrato non è divertente. Così ho vagabondato per qualche anno. Ed eccomi finalmente qui. È carino, qui».

«Sì?»

«Sì. Penso che mi sistemerò in pianta stabile. Si mangia bene e non vedo troppa concorrenza in giro».

Persi la pazienza.

«Oh questa poi. E noi chi saremmo?»

«Voi chi?»

«Noi varani. Le lucertole con cui si è appena spartito un bunyip di non so quante tonnellate».

«Ah, quelli. Embè?»

«Si sarà reso conto che questa è casa nostra, e potremmo non gradire la sua presenza?»

«Onestamente sono qui da pochissimo e non mi ero nemmeno reso conto della vostra esistenza. Ma ora che vi ho visti in azione, devo confessare di non essere particolarmente turbato, signor Bannister. Non mi sembrate i più svegli del mazzo. L’unica cosa veramente letale che ho notato è il vostro alito terrificante, sembra che vi marcisca la carne in bocca».

«Non è solo la carne marcia, è il veleno».

«Il che

Finalmente un vantaggio. Non lo sapeva. Improvvisamente notai qualcosa nell’acqua che luccicava e lambiva il suo corpo – annusai l’aria, e seppi di avere vinto.

Gli spiegai dell’anticoagulante, e che il bunyip l’aveva morso mia zia. Mi guardò con scetticismo. Non era sicuro se potermi credere o meno.

«Per cui», conclusi «bisogna che lei stia attento prima di andare in giro a dire che questo è il suo territorio».

Merryweather agitò la coda, schizzando un po’ d’acqua, e – per la prima volta – getta uno sguardo alla foresta muta.

«Cosa siete, esattamente?», chiese.

«Siamo i padroni della regione».

«Chi vi ha incoronati?»

«Nessuno. Oppure noi. Insomma, è scritto. È naturale».

«Non credo proprio. Le cose non funzionano così».

«Mica dico che non possiamo trovare una convivenza pacifica, eh. Se lei si accontenta di starsene in acqua, o a pochi metri dal bagnasciuga, e non si fa venire in mente di andare a passeggio nell’entroterra…»

Merryweather sbattè le mandibole l’una contro l’altra.

«Attento a come parla, signor Bannister. Non mi piacciono le minacce».

«Ma io arrivo tardi, signor Merryweather. La minaccia gliel’hanno già fatta».

«Prego?»

«Guardi nell’acqua, alla sua sinistra».

E anche lui, voltando il testone triangolare, si accorse che perdeva sangue da una piccola ferita sul fianco sinistro. Non era grave e non gli faceva male. Non se n’era nemmeno accorto. Eppure lo innervosì tantissimo. Scattò in piedi sulle quattro zampe.

«Devo avere colpito un arbusto», disse «mentre scendevo al fiume».

«Non mi cada sui fondamentali, Merryweather. Quello è un colpo d’unghia. E scommetto anche che so chi gliel’ha fatto».

«Chi?

«Mia zia Gardiner. Notoriamente intrattabile. Deve essere inciampata nella sua coda mentre girava da un lato all’altro della carcassa del bunyip, e le ha dato un’artigliata. Succede. Sapesse quante ne dà a me».

«C’erano trenta lucertole su quella carcassa. Per me, tutte identiche. Non si aspetterà che io le creda».

«Guardi che secondo me la riconosce, se la vede. Dico mia zia. Ecco, è venuta persino a salutarci».

Con un sussulto, il signor Merryweather si voltò verso di me, e si accorse allora che mia zia Gardiner era venuta a sedersi a qualche metro da dov’ero io, e lo fissava. Sull’artiglio a falcetto della sua zampa anteriore destra c’era ancora una macchia di sangue raggrumato.

«Non oserete», sibilò il signor Merryweather.

«Noi forse no», risposi – «ma per tutti gli altri non garantisco».

«Gli altri chi

E spasmodicamente si voltò in tutte le direzioni. Con orrore, si accorse che era circondato da varani giganti. Alcuni erano a mollo nell’acqua a dieci, dodici metri da lui. Altri accucciati sulla riva. Altri nella foresta sulla sponda opposta. E tutti lo fissavano. Io intanto indicavo con l’artiglio della mia mano, e via via elencavo:

«…mio zio Gardiner, che poi è l’attuale compagno di mia zia, poi le mie cugine, vedi quella è Henrietta, quella nascosta sotto la felce è Louisa, c’è anche Matilda – le solite timidone – non vedo Charlotte, probabilmente è rimasta a giocare con le ossa del bunyip, poi lì nell’acqua c’è il signor Palmer che nuota davvero bene, incidentalmente; ah e quello è sicuramente il signor Musgrave, siamo cugini ma molto alla lontana, e il signor Croft sulla riva opposta, un altro che a nuotare è veramente veloce, deve avere attraversato il fiume mentre parlavamo».

Scoprii dopo molti millenni che i coccodrilli marini come il signor Merryweather hanno un’ottima vista; molto migliore, sicuramente, di quella della mia specie. Solo allora realizzai quanto si era goduto lo spettacolo quella volta. Non si dovette perdere un particolare. Era circondato.

«E per fortuna non è stato morso», conclusi. «d’altro canto lei è un ottimo nuotatore, lo vedo da com’è fatto il suo corpo – lei è perfetto per l’acqua, mi permetta il complimento. Potrebbe approfittare della piena luce, e dei suoi polmoni che non dubito siano capienti, per…»

Feci finta di fermarmi a riflettere.

«Per cosa?», mi chiese lui, la voce distintamente più stridula.

«Per scendere il fiume», ripresi «magari stabilirti più vicino al mare. Non ci sono molti di noi laggiù e dovresti riuscire a non commettere altre sgarberie».

Il signor Merryweather colse il messaggio. Con due colpi di coda superò lo sbarramento dei miei simili e si portò nel centro del fiume, tenendosi a galla con il minimo sforzo. Non glielo potevo dire in quel momento, ma ammiravo moltissimo il suo stile. I suoi occhi emergevano appena dal pelo dell’acqua. Fu allora che il suo sguardò incrociò il mio, e mi disse:

«Per oggi ve la do vinta. Ma verranno altri della mia specie. Verranno altre specie. Non durerete in eterno, signor Bannister».

Stizzito, volli spararla grossa e mi uscì uno sproposito:

«Ciò che è perfetto dura per sempre!»

Mamma mia, gli schiaffi dalle mani, tiravo (come dicono gli umani). E com’è vero che son qui a raccontarvelo, Merryweather mi rispose (testuali parole):

«Non credo. E le auguro di vivere finché non cambierà idea».

E scomparve tra le onde del fiume.

Questo accadeva quarantamila anni fa, quando ero giovane e non sapevo niente.

3. Ciò che vide Waawi una sera nel bosco

Mamma era stata molto specifica sul fatto che non dovevo allontanarmi troppo, che ormai era quasi buio e sai mai non incontrassi una di quelle brutte lucertole giganti che avevano mangiato il nonno il mese scorso. Di queste lucertole parlavano spesso i vecchi, raccontandoci del Tempo dei Sogni, quando ce n’erano tante in giro per il mondo. E se l’hanno detto i vecchi, non vedo perché non dovrei crederci – tanto più che una di loro si è mangiata mio nonno, anche se purtroppo non c’ero e non l’ho vista con i miei occhi.

Ma d’altronde mamma ha davvero bisogno di quandong, quei grossi frutti rossi che crescono vicino al deserto, e se non gliene porto una cesta piena stasera non si cena. Quindi, gambe in spalla.

Però, che rottura. A quest’ora potrei stare a rincorrermi con Lidan e Merv anziché fare il lavoro che dovrebbe fare mamma ma che si è scordata di fare e ora spedisce me perché è tardi e lei deve accendere il fuoco. M’inoltro nel bosco di quandong, abbassando i rami pieni di frutti, e comincio a scegliere i più grossi e lucidi. Il sole sta tramontando ma c’è ancora molta luce. Dal sottobosco si sentono rumori, tramestii e grida soffocate. Le cicale ronzano come matte. Il bosco si estende in tutte le direzioni ed è tanto verde che fa male agli occhi. Insomma, è estate.

M’imbatto in una radura, ma prima di mettere un piede sul terreno sgombro mi fermo nascondendomi dietro un tronco. C’è un pessimo odore nell’aria, un odore di carne marcita. E qualcosa sta scuotendo le fronde basse dei quandong dalla parte opposta della radura rispetto a dove sono. Piano piano esce dalla foresta un animale peloso e corpulento. Ah, l’ho presente: i vecchi lo chiamano bunyip, è cattivissimo e quando sta a mollo nell’acqua gli piace rovesciare le canoe e mangiare la gente. Ne ho visti pochi in giro, ma mi fido dei vecchi. Rimango ben nascosta dietro il tronco e tiro fuori dal mio cesto il coltello di selce.

Guardando meglio il bunyip, mi rendo conto però che c’è poco da spaventarsi. Gli manca una zampa – forse strappata da un morso? – e ormai ridotta a un inutile troncone, che gli strappa un gemito ogni volta che lo appoggia a terra per camminare. Rantola anziché respirare, si ferma per mangiare un po’ di felci e subito le vomita, lasciandosi dietro una scia di bava e sangue. Direi che il poveraccio non ne avrà per molto. Forse posso portare a casa anche un po’ di carne, oltre ai quandong? Ma devo essere rapida: una bestia di questa stazza attirerà senz’altro molti predatori.

Ed è qui che ho incontrato la creatura di cui mi piace raccontare a chi mi ascolta, anche ora che la vecchia sono io, una creatura del Tempo del Sogno che è rimasta un po’ nel nostro tempo umano prima di ritornare nell’eternità da cui viene. Da un recesso del bosco sento una voce, come impastata in un sibilo:

«Vattene».

Mi guardo intorno. Ormai siamo nella penombra della sera e gli spazi tra i tronchi, prima visibili e sgombri, ora sono fessure di tenebra che potrebbero contenere qualunque cosa. Se non che, sforzandomi di guardare verso dove penso che provenisse la voce, ecco che riesco a distinguere tra le felci e il fogliame, dall’altro lato della radura, una massa scura appiattita per terra. Solo i suoi due occhi aperti luccicano nel buio.

«Chi ha parlato?, domando senza scompormi».

Non ottengo risposta. Mi avvicino, di tronco in tronco, alla massa scura, rimanendo però a debita distanza. Intanto, nella radura, il bunyip ha levato un altissimo lamento.

«Chi sei? Perché ti nascondi laggiù?», chiedo di nuovo. Avrete ormai capito che ho più fegato che gambe – e mal me ne incolse più volte, nella mia lunga vita.

E riecco la voce, ora un sibilo quasi stizzito:

«Vuoi capire che sei sulla strada tra me e la mia preda, sacco di carne? Sono tre settimane che seguo quel bunyip – iol’ho morso, io l’ho infettato, e ora mi appartiene».

Indispettita dal blaterio della strana creatura, e convinta che se avesse potuto ammazzarmi l’avrebbe già fatto (e dunque non può), insisto:

«Non lo voglio, il tuo bunyip. Dimmi che cosa sei».

La creatura resta in silenzio. Poi, dopo qualche secondo, sibila:

«Guardami bene».

Si alza su quattro zampe sporgenti di lato rispetto al corpo, come una lucertola: ma è grande cento volte una normale lucertola; e cammina verso la radura, avvicinandosi al bunyip ma mantenendo una garbata distanza rispetto a me. Però ora è in piena luce, e posso vederlo in tutto il suo grigio, fetente splendore (puzza di cadavere).

«Tu sei la lucertola che mangia gli uomini».

«Brava. Mi compiaccio. Vedo che i vostri vecchi sanno quello di cui raccontano. E adesso, se non ti dispiace, schioda. Il bunyip sta per morire, lo sento dal respiro. Non avrò molto tempo per mangiare in pace, dopo che sarà morto. Verranno i dingo».

Non posso dargli torto, e se non avessi dieci anni e paura di niente mi ritirerei in buon ordine. Se, appunto.

«Hai ucciso molti uomini?», gli chiedo.

La domanda è idiota, ma pare stuzzicarlo.

«Uccisi e mangiati, sì. Tantissimi».

«Che ti avevano fatto?»

«Erano carne, e io devo pur mangiare».

«I canguri sono più grassi e grossi. Anche gli emù. O i bunyip. Che te ne fai di noi che siamo piccolini e magri?»

«E invece mangerò uomini, ancora e ancora, fino a scoppiare».

«Perché?»

La voce della lucertola si incrina.

«Perché vi odio. Vi detesto, tutti quanti siete. Da quando siete qui, tutte… tutte le cose belle se ne sono andate».

E con uno schiocco, la coda a frusta trancia un cespuglio troppo alto. Il rettile è nervoso. Il bunyip leva un altro altissimo lamento, ma non muore. Io dal canto mio persevero:

«In che senso, ‘da quando siamo qui’?»

«I tuoi vecchi non te l’hanno raccontato? Non siete sempre vissuti qui, voi umani. Siete venuti dal nord».

«Sì, così ci raccontano. È il Tempo del Sogno. E quindi?»

«E quindi da quando siete arrivati qui non funziona più niente».

«Perché? Che ti abbiamo fatto…?»

La risposta mi arriva accompagnata da una breve corsa rabbiosa verso di me, per cui caccio un urlo e corro a mia volta via per qualche metro. Ma la lucertola si ferma molto prima di essere a portata di artiglio.

«Ci avete distrutti, maledetta idiota. La mia razza era la signora di questa regione. Ora siamo pochi e dispersi. Non vedo un mio simile da settimane – li uccidete con le vostre lance, con le vostre trappole – rubate le nostre uova e calpestate i nostri neonati».

«Ma voi ci mangiate».

«Capirai. Quei pochi che riusciamo a sopraffare. Ma voi siete tremendi. Massacrate anche le nostre prede. Un tempo in queste foreste c’erano animali grandi e meravigliosi. I leoni con il marsupio, i bunyip; gli ippopotami selvaggi, i canguri più alti di tre uomini, gli uccelli tuono. Tutto era fertile e pieno di luce e di acqua».

La lucertola fa una pausa; gli tremano gli artigli, e per frenare la rabbia, deve piantarli in un tronco lì accanto.

«Poi un bel giorno, dai ghiacci del settentrione, scendete voi. Gli uomini. All’inizio ci siete sembrati una barzelletta. Piccoli, nudi, sempre a correre qui e lì. Poi viene fuori che inventate cose, cose che noi non capiamo, ed ecco che cominciamo a morire. Le foreste si svuotano, come se non fossimo mai esistiti – uno dopo l’altro scompariamo nelle vostre bocche, come tu e tutti i tuoi dovreste scomparire dentro la mia, se nel mondo ci fosse una legge».

Confesso che all’epoca non capii granché del discorso. Siamo al mondo e c’è chi muore e chi vive, chi mangia e chi viene mangiato, finché questa breve parentesi temporale non verrà inghiottita nuovamente dal Tempo del Sogno. Ma mi rendevo perfettamente conto della nuda e rigida disperazione nella voce e nelle parole della lucertola.

Era rimasta sola.

«Ma noi a tutte queste cose non ci pensiamo», replico. «Cacciamo perché dobbiamo mangiare».

«La vostra fame è perversa», sibila la lucertola di rimando. «Non ha criterio. Voi non uccidete per mangiare, ma per annientare. La mia razza non ha mai fatto sparire nessuno. Nessuno in questo paese ha mai causato un simile sfacelo. Tranne voi!»

«Tu parli tanto, lucertola, ma mi pare che tu sia ancora viva, e faccia il tuo porco mestiere».

E qui mi aspetto che mi insegua con la bava alla bocca. Invece la furia della lucertola si spegne all’improvviso.

«Vero. Se solo sapessi perché».

«Non ti seguo».

«Prima che voi arrivaste in questo paese, le leggi del mondo erano rispettate. Si nasceva, si viveva e si moriva, e c’era una possibilità per tutti. Ma ora che siete qui non funziona più niente. Prima di tutto moriamo solo noi, e vivete solo voi – le cose non sono più pari come una volta. E poi ci sono io, ancora vivo nonostante tutto. Tu hai idea di quanti anni ho?»

«Proprio no».

«Nemmeno io. Perché ho perso il conto. Nessuna lucertola della mia specie ha vissuto così tanto. Io ero qui prima che voi arrivaste, e per i tuoi vecchi quel tempo è talmente remoto che lo descrivono come il sogno prima del tempo. Ma era tempo, credimi, non era un sogno: era tempo reale, e io ero qui a viverlo. Ho visto morire di vecchiaia i bisnipoti dei miei coetanei. Ormai è tempo per me di morire. Ma aspetto, aspetto, e non succede! Ogni notte mi corico, e penso che sarà la volta buona. Ogni mattina mi rialzo vivo,in una terra disfatta e svuotata».

Qui ammetto che non riuscii a seguirlo granché. L’idea di eternità non è strana per me, specie ora che ho una certa età; ma l’idea di una creatura vivente che oltrepassa i limiti della sua vita, che vive quando dovrebbe morire, a dieci anni proprio non sarei riuscita a comprenderla. Lì per lì vorrei chiedere spiegazioni, ma ormai è tardi. La lucertola gigante sembra attratta da qualcosa. La lingua esce ed entra meccanicamente dalla bocca semichiusa, per sentire gli odori.

«Sta morendo. Ora cade a terra. Vattene. È l’ultimo avvertimento».

E finalmente, con un gemito, il bunyip cade a terra. Il sangue lo circonda. La lucertola si getta su di lui, al galoppo; gli apre la gola per finirlo – e comincia a divorarlo a partire dal ventre, dove sta la carne più morbida. Ogni tanto deve fermarsi per respirare, tanta è la violenza con cui mangia. Quando è più tranquillo, alza la testa sporca di viscere e si guarda intorno, per sentire odore di altri predatori.

Io però sono ancora lì, col mio coltellino di selce, a debita distanza.

«Vedo che se non altro hai avuto la buona grazia di non contendermi il pasto. Per questa volta non ti ammazzo. Se vuoi la tua parte, l’avrai quando avrò finito. Se non la vuoi, vattene e basta».

E a questo punto me ne vado davvero. Ma – non so perché – mi viene di rispondergli, con voce costernata:

«Mi dispiace, lucertola. Però purtroppo questo è il nostro mondo, ora».

«Oh, sì», risponde la lucertola. «E temo che lo sarà per sempre».

Poi affonda la testa con più forza ancora nel ventre del bunyip. E io mi dileguo nel bosco.

4. Samuel prende casa a Sydney

Sydney, Government House
Nuovo Galles del Sud
12 gennaio 1820

Consegno a queste pagine il resoconto di un fatto che dubito di poter affidare a orecchie umane, siano pure quelle di amici, familiari o fratelli ufficiali. Degli undici anni che ho passato nel Nuovo Galles del Sud come governatore per conto del Re si è parlato, scritto e malignato abbastanza, e troppo se ne dirà in futuro, come capita a chi si ritrova tra le mani una nazione che nasce. Sono stato in giro per tutto il mondo prima di essere destinato a questo paese che ora sto per lasciare, ma da nessuna parte, nemmeno in India, ho avuto la sensazione di un luogo così nuovo, così ultimo, e tuttavia con tanto immenso potenziale. E averlo gestito, sia pure per poco tempo, temo che mi varrà più di una grana nella storia che faranno i posteri. Tanto vale risparmiare alle loro zanne (le zanne! Mio Dio, le sue zanne…!) questo piccolo fatto privato, tanto mio quanto della creatura che ho incontrato.

Tra le tante cose che mi sono reso conto di dover fare quando ho preso in mano l’amministrazione di questa colonia, c’era l’esplorazione di quest’isola grande come un continente – l’Australia. Io personalmente mi sono messo più volte a bordo di una nave, costeggiando verso nord e verso sud, fino alla Tasmania. Quando il signor Blaxland mi chiese il permesso di esplorare le Blue Mountains, appena fuori Sydney, e vedere cosa c’è dall’altra parte, ho acconsentito purché potessi andarci anch’io. Era un agricoltore e un possidente, voleva più terre da pascolo, ed era pronto al compromesso – non ha protestato. Anzi ha rincarato la dose chiedendo di far entrare nell’affare un certo Lawson, che aveva il campo vicino al suo. Io ho detto sì, purché ci portassimo dietro anche Wentworth, pure lui un possidente, ma che aveva lavorato nel mio ufficio fino al 1810 – la concessione sul fiume Nepean gliel’avevo data io come buonuscita. L’accordo era fatto. Partimmo l’11 maggio del 1813.

All’epoca avevo cinquantun anni. Pochi dei miei coetanei sono ancora vivi a quest’età. Io, per converso, sono rimasto tutto sommato abbastanza energico. Ricordo una mattina di novembre, nel pieno della primavera, tra grotte e foreste eterne, nel seno delle Blue Mountains. Con il sole alto e il cielo terso, là dov’ero mi pareva quasi di vedere l’oceano. Il vento mi scompigliava i capelli bianchi. Di solito non si rimane da soli durante missioni di questo genere, ma si trattava di una separazione temporanea – Lawson e Wentworth si erano spinti a perlustrare una vallata a sud del crinale, e Blaxland con il resto della squadra aveva preferito seguire il canalone subito sotto di noi, per vedere se davvero conduceva a due picchi gemelli all’orizzonte. Io ero rimasto al campo base a badare alle tende, assieme ai cani, ai cavalli e alle provviste, sull’orlo di un precipizio e a poche decine di metri da un costone di roccia dove si apriva – e si apre tuttora – una grotta profonda, dall’ingresso circolare. Ero solo da quasi ventiquattr’ore. Niente da segnalare.

Certo non ero rimasto a far nulla. Passavo il tempo a prendere appunti, disegnare il paesaggio, osservare in giro con il cannocchiale, e mettere trappole intorno dove cani e cavalli dormivano. Non lasciavo mai da parte il mio fucile, sempre carico. Con i dingo non si sa mai, mi aveva avvisato il signor Wentworth, che si preoccupava della mia salute.

E tuttavia non erano i dingo che avevo in testa in quelle ore di solitudine.

Sulla cima dell’altopiano dove avevamo piantato le tende crescevano radi alcuni alberi, fino all’entrata della grotta. A debita distanza dalle tende e dalle nostre bestie, avevo appeso ai tronchi dei pezzi di canguro, col sangue che colava e il nugolo di mosche intorno. Ogni tanto passava un dingo, prendeva un boccone e se ne andava. E io mi guardavo bene dallo sparare, perché non era un dingo quello che mi aspettavo. Nelle ore di noia, col sole a picco, leggevo e rileggevo all’ombra di un frassino quel breve biglietto spiegazzato. Scempiaggini? Probabile. Tant’è che non ne avevo fatto parola con nessuno.

E però.

E però, come quel giorno ho appurato, non erano scempiaggini. Mentre davo le spalle alla grotta, una creatura mostruosa ne è uscita; e quando, sentendomi osservato, mi sono voltato di scatto, l’avevo ormai a una decina di metri di distanza. In riferire quello che vidi farò forse la gioia di un naturalista, se mai qualcuno leggerà queste pagine; poiché non credo che lucertole del genere siano ignote alla grande creazione – se non in Australia, forse altrove. Dico ‘lucertola’ perché quello, di fatto, era: e tuttavia sento ancora l’impulso, mentre scrivo queste note, di dire ‘drago’. Mi credetti perduto: mi aspettavo che mi saltasse addosso, e chissà come credevo di non fare in tempo a puntargli contro il fucile e sparare. Ma passavano i secondi, e la creatura non si muoveva: rimaneva, anzi, ferma a guardarmi, a debita distanza. Forse dovrei descriverla? Ho allegato un disegno a queste pagine, ma sai mai che vada perso? Immaginate allora una comune lucertola nel giardino di casa vostra, ma venti, trenta volte più grande; lunga forse tre uomini sdraiati in fila, alta fino al petto di un uomo adulto, artigli formidabili a tutte e dieci le dita, una lunga coda a frusta, e la testa piccola e oblunga, con due occhietti neri e malevoli ficcati ai due lati come pietre onici.

Vedendo il rettile immobile – direi quasi meditabondo – con estrema lentezza puntai il fucile alla sua testa. Nella mia testa c’era l’inferno. Ero venuto lì per verificare che questa creatura esistesse davvero, non per farla fuori. Eppure la logica del mio tempo è che gli animali pericolosi non verranno lasciati in vita. Mentre il dubbio mi deformava la fronte, il secondo miracolo della giornata ha avuto luogo. La creatura ha cambiato aspetto sotto i miei occhi. Un secondo prima c’era la lucertola malvagia; un secondo dopo, un uomo adulto, grossomodo della mia età e statura. Ma mi sono coperto gli occhi per l’orrore: aveva l’aspetto e il colore della pelle degli aborigeni del Nuovo Galles del Sud – ma la divisa dei British Grenadiers che ho indossato per metà della mia vita.

Infine ha parlato, e mi ha parlato in inglese.

«Chiedo scusa per il mischione. L’abito non c’entra davvero molto. Ma i colori della tua gente mi piacciono, e mi piace imitarli».

«Chi, o cosa sei tu?», ho chiesto.

Dopo un secondo o due di silenzio, ha risposto:

«Sono la prima cosa che hai visto: una lucertola carnivora gigante. Siccome mi sono reso conto che il mio aspetto ti metteva a disagio, ho assunto forma umana. Non chiedermi come ci riesca, perché non lo so. Sono tante le cose che so fare, e che non so perché so farle».

«Come riesci a parlare la mia lingua?»

«L’ho sentita parlare negli ultimi trent’anni. Alla fine l’ho imparata. Anche questo è uno dei tanti piccoli misteri della mia vita».

Mi è capitato più volte di leggere romanzi. Alla mia defunta moglie piacevano tantissimo. Ho spesso notato come agli eroi e alle eroine di questi romanzi capitino cose tali da far vacillare la loro ragione – e tante volte si riducono a spasmi, soffocamenti, deliri, svenimenti e follia. Non so perché all’atto di incontrare davvero l’assurdo – nella forma di questa lucertola stregata – i miei tempi di reazione – e di accettazione – siano stati così brevi. Forse in quel mondo separato dal mondo, il mio spirito era già preparato ad accettare l’inaccettabile. Quando la lucertola, sempre in forma umana, prese a farmi domande precise, recuperai la prontezza di riflessi in pochi minuti e seppi risponderle a tono.

«Dal colore della tua pelle e dal tuo abito», cominciò a dire puntandomi contro il dito «si vede che sei uno dei bianchi, che solo da pochi anni abitano in questo paese. Non so da dove veniate: forse di là dal mare, sicuramente non dal deserto. So che chiamate voi stessi inglesi. So anche che non vi eravate mai spinti così in là su queste montagne. Voi siete creature di pianura e di costa. Che cercate?»

Sempre tenendogli contro il fucile, cui sembrava non far caso, gli risposi con il mio nome e il mio grado, e nient’altro. Sembrò perplesso. Ripeté il mio nome più volte:

«Lachlan Macquarie. Lachlan. Macquarie. Che suoni strani. Un nome che non è in uso tra i bianchi tuoi confratelli».

«Da dove vengo, è un nome meno strano di quello che sembra».

«Non mi hai detto perché tu e i tuoi compari siete qui, Lachlan Macquarie».

«I miei compari vengono ad esplorare. Faranno mappe, torneranno indietro, manderanno altri a tracciare confini, scavare pozzi e buttare fondamenta. Per me la questione è un po’ diversa. Io stavo cercando te».

Questo mi è parso catturare la sua attenzione, già molto intensa: pure, per quanto avesse un fucile puntato contro, non pareva tradire la minima ansia.

«Ah sì? Proprio me?»

Tirai fuori il bigliettino spiegazzato.

«Qualche mese fa mi è arrivato un rapporto informale da un funzionario in un ufficio di periferia. Riferiva di una leggenda di queste montagne. Una grande, mostruosa lucertola che secondo il mito viveva, e vive ancora, nei recessi delle Blue Mountains. Ho interrogato molti indigeni a questo proposito. E di te si parla ancora molto. Poiché ormai presumo che la lucertola mostruosa sia tu».

«Su questo non ho dubbi nemmeno io. Ma come mai ti interessavo così tanto?»

«Una lucertola carnivora gigante è una cosa che ad un governatore non dà mai troppa libertà di azione, esista davvero oppure no. Bisognava scovarti. Alla bisogna, renderti inoffensivo».

«Hai usato anche prima questa parola: ‘governatore’. Che senso ha?»

«Tutti i bianchi in questo paese sono ai miei ordini».

«Ah, questa poi».

«Non mi credi?»

«Ti credo eccome. È che sono abituato ai capi dei villaggi che conosco da millenni. Nessuno di loro ha mai preteso di comandare su una regione così vasta».

«Imparerai presto di che pasta sono fatti gli inglesi, allora».

Il mostro mi ha guardato a lungo negli occhi. Sapeva imitare la forma umana, ma non altrettanto bene le espressioni della faccia. Sul suo volto leggevo solo una vuota perplessità, come fossi stato davanti alla faccia di un morto.

«Sia come sia, mi hai trovato. Che farai ora?»

Da bravo soldato, so che davanti alle domande del nemico si resta zitti o si risponde in modo vago. Ma devo qui registrare – per mia vergogna – la curiosa scioltezza della mia lingua davanti a quel mostro uscito dal buio dei millenni.

«L’idea era di capire se eri gestibile o meno, in termini di aggressività. Se fossi stato pacifico, ti avrei catturato vivo. Se mi avessi attaccato, avrei dovuto ucciderti dov’eri. Poi avrei fatto in modo di portarti, vivo e in gabbia o impagliato, in un giardino di Sydney, magari accanto alla residenza governativa. E lì tutti avrebbero potuto vederti».

«Questi erano i tuoi progetti».

«Sì».

«Che interesse hanno i tuoi amici bianchi a vedermi esposto a Sydney, vivo o morto?»

«Nel nostro paese non esistono creature delle tue dimensioni e della tua forza. Per noi sei un oggetto di orrore. Un relitto di un luogo oscuro, senza Dio. Ma abbiamo naturalisti, studiosi, uomini di senno – non vedrebbero l’ora di poterti esaminare e catalogare. La tua terra si è rivelata un pozzo senza fondo, in questo senso. Quasi niente di ciò che produce è noto nei paesi da cui provengo».

«Il che mi fa pensare che i tuoi paesi siano molto lontani dai miei».

«Il luogo dove siamo ora è dalla parete opposta del globo terrestre rispetto a dove sono nato. Sempre che tu abbia una vaga idea della forma del mondo».

«Onestamente, lo imparo da te. Ma non ho motivo di dubitare della tua parola. E quanto tempo si impiega per percorrere questa distanza?»

Per un attimo ho esitato. Che unità di misura potevo usare? Le miglia marine? Una linea retta da qui a Portsmouth, calcolata sulla superficie della sfera terrestre? E come mi avrebbe compreso? Ho deciso alla fine di essere concreto:

«Hai mai visto, a Sydney, le nostre navi?»

«Intendi quelle grandi barche di legno con le vele innalzate?»

«Sì. Per arrivare qui da Portsmouth, nel mio paese, a bordo di un vascello di quel tipo, ho impiegato duecentoquaranta giorni».

Credo di averlo stupito, perché ho ottenuto la prima reazione discernibile su quel volto fasullo. Vi ho letto un’improvvisa vertigine.

«Duecentoquaranta giorni, Lachlan Macquarie? Questo mondo è molto, molto più grande di quello che pensavo. E gli umani sono dappertutto?»

«Dappertutto. Non lo credevi possibile?»

«Non ne avevo idea. Tutto qui. Pure, la notizia mi alleggerisce la coscienza».

«In che senso?»

«Sono sicuro che non sarei mai riuscito a uccidervi tutti. Era un’impresa superiore alle mie forze. Mi sento meno in colpa di non averla realizzata».

Ho dovuto frenare il mio dito sul grilletto, la nausea lì sulla bocca dello stomaco.

«E resterete a lungo qui?»

«Tutto il tempo che riusciremo».

«Per sempre?»

«Questo non posso saperlo. Ma posso garantirti che gli Inglesi non se ne andranno facilmente dalle terre che hanno conquistato. Se per te questo equivale a ‘per sempre’, hai la tua risposta».

«Ti credo, Lachlan Macquarie. Una volta pensavo, e lo penso tuttora, che ciò che è perfetto dura per sempre; il mio errore è stato di pensare che fosse la mia specie ad essere perfetta. Gli Inglesi non lo so – ma sicuramente gli umani dureranno per sempre. Li vedo trionfare da troppo tempo per pensare il contrario».

Avevo ancora il fucile puntato verso di lui. Solo in quel momento, finito il suo strano discorso, è parso accorgersene.

«È con quello, che pensavi di rendermi inoffensivo?»

Ho guardato la sua divisa color aragosta oscillare al vento. Da quella distanza non riuscivo a comprendere il trucco, il perché fosse così tranquillo.

«Sì, ho risposto, mettendo assieme tutto il coraggio che avevo».

«Come funziona?»

«C’è una detonazione. La polvere da sparo produce uno scoppio con una scintilla, e lancia una palla di metallo a velocità tremenda. Entra dappertutto. Anche nelle ossa».

«Ma è meraviglioso. Quanto ingegno in quel giocattolo. Non mi stupisce che abbiate ridotto alla fame e allo sterminio gli umani di queste regioni».

Si è portato improvvistamente una mano alla bocca.

«I tuoi compagni! Ti prego, non rivelare loro la mia presenza».

Con imbarazzo confesso che mi sono voltato, istintivamente, per salutare i compagni di ritorno. Quando non ho visto nessuno e ho fatto per voltarmi nuovamente, il mostro era a pochi passi da me. Ho sparato: ma in quel momento tornava lucertola, la sua testa molto più in basso di dove l’aveva nella sua forma umana: e così la mia pallottola non ha preso che aria. Subito la lucertola ha fatto una piroetta e mi ha colpito le mani con la parte mediana della sua coda a frusta, un colpo secco – il dolore mi ha bruciato la pelle, il fucile mi è caduto, ed io stesso sono finito in ginocchio, le mani sanguinanti e strette insieme, ridotte ad una massa di carne pulsante.

Avevo davanti ai miei occhi il mio nemico, tornato in forma umana. Raccolse il fucile e lo lanciò giù dal dirupo. Poi si allontanò di qualche metro.

«Ti confesso», mi disse «che sono stato fortemente tentato dal mozzartele, quelle mani insolenti. Colpendoti con più forza, e con la parte più sottile della coda, sarei forse riuscito a fartene saltare via una, se non tutte e due. Ma poi tu avresti fatto una scenata».

Ancora in preda al dolore, provai a farmi più grosso.

«Puoi anche uccidere me, ma i miei compagni torneranno su queste montagne, a stanare e sterminare la tua specie».

Mi ha guardato inarcando le sopracciglia.

«Non diciamo sciocchezze, Lachlan Macquarie. Non c’è nessuno da sterminare qui. Io sono l’ultimo della mia specie».

Mentre pian piano il dolore scemava e il sangue sulle mani si seccava, ho avuto il tempo di riflettere su quest’ultima frase. Non ero sicuro di credergli sulla parola.

«Che intendi dire?»

«Che la mia specie è estinta», ha ribattuto lui.

«Tu menti. Non vuoi che io rintracci i tuoi simili.

«Non mento affatto, Lachlan Macquarie, e quando tu e i tuoi tirapiedi avrete rivoltato per bene queste montagne, per non dire tutto il continente, ti accorgerai che avevo ragione io. Un tempo eravamo tantissimi. Ma siamo spariti da centinaia di secoli. Non so nemmeno quanti. Io sono l’ultimo rimasto».

Ho deciso di giocare al suo gioco.

«Se così fosse, tu saresti vecchissimo».

«E così è».

«Ma vecchio di centinaia, di migliaia di anni. Più di quanto qualunque altra creatura vivente possa vivere».

«Concordo».

«E allora?»

«E allora niente. Sono una lucertola gigante che parla, pensa, impara le lingue, assume forma umana se le va. Il dettaglio della mia insana longevità non è proprio il più strano tra le mie caratteristiche. Non trovi? Assurdo per assurdo, facciamoci piacere anche questa».

Non so se mi faceva più orrore il suo essere completamente diverso da me, o il fatto che, pur in questa atroce diversità, riusciva a comunicare con me in modo che entrambi comprendessimo l’altro. Era diverso, ma sapeva diminuire la distanza infinita tra me e lui, come altri uomini che conosco non hanno mai saputo fare. Davvero in lui parlavano i secoli, forse i millenni. Avevo di fronte un’opera di Dio. Forse una sua maledizione.

Approfittando del mio silenzio, ha continuato:

«Sinora c’è stato ben poco di normale, nella mia vita. Gli ultimi anni, poi, sono stati un delirio. Nulla aveva senso. Passavano i giorni, le generazioni si susseguivano, le montagne cambiavano di posto, ed io mi sentivo ancora giovane. Anche ora che tutto è finito da un tempo incomprensibile per il mio modesto cervello, ed io sono solo e disperato, non mi sento nient’altro che un varano gigante di mezza età; e, devo dire, in buona salute».

«L’ultimo della tua stirpe», ho ripetuto in un sussurro allucinato. «E non sai, non hai mai saputo il perché di questo miracolo?»

«No. Mai».

«Nessuno, nessuna entità è venuta a spiegartene il perché? Non hai ricevuto nessun messaggio?»

«Nulla, da nessuno».

E mi è scappato di dire:

«Non hai mai desiderato morire, e por fine a questo tormento?»

«Come no. Ho provato a morire un centinaio di volte. Mi sono sforzato di non mangiare e non bere: ma soffrivo atrocemente, e non morivo comunque. Ho provato con le malattie, ma sono sempre guarito. Le ferite che mi procuravo si richiudevano. Volavo giù da chilometri di burrone, un dolore che non ti raccomando; e non riuscivo a rompermi nemmeno un osso. Il fuoco non mi bruciava che lo spirito, ma la pelle, come vedi, sempre quella è rimasta, grigia e squamosa. Alla fine mi sono arreso».

Ho preteso dettagli ulteriori. Senza vergogna, me li ha dati. Me ne ha dati tantissimi. Non li riporto su questi fogli perché è sufficiente che infestino i miei incubi, senza dover contagiare i cervelli altrui. Ho ancora stampati nel libro della mia memoria i suoi racconti. Le mille veglie notturne, i digiuni di mesi e mesi, le stagioni secche passate a non bere, le lunghe sorsate alla fonte avvelenata, le corse pazze in mezzo agli animali appestati o moribondi – tutto questo, sperando che un bel giorno la morte avesse pietà di lui e lo prendesse con sé. Erano tentativi molto seri, e le sue sofferenze, per i digiuni e le intossicazioni, erano immense: ma ogni volta, con arroganza, la morte gli si negava, e lo teneva lontano dal suo regno. Ogni piaga guariva, ogni ulcera risanava; il suo corpo enorme sembrava poter dimagrire in eterno.

«E alla fine mi son detto: perché non vivere?»

Mi sono rialzato a fatica, le mani ancora incollate l’una all’altra in una guaina di sangue secco che, se provavo a lacerare, raddoppiava la sofferenza. I racconti del mostro mi avevano lavato la testa come la lisciva ripulisce una sottoveste di seta. Ma non sentivo più alcuna paura. Avrebbe potuto uccidermi in qualunque momento, e non lo stava facendo.

«Bene», ha concluso. «Ho detto abbastanza, ed è tempo che io me ne vada».

«Andartene?»

«Sì. E ti prego di non disturbarmi oltre. La solitudine – inevitabile, nel mio caso – non mi è per questo meno cara. Confido che starai zitto con i tuoi compari su quanto hai visto e sentito. Prima di lasciarti, però, c’è un dettaglio che devo definire».

L’ho guardato, non tanto con orrore, ma ormai con curiosità.

«Ti ascolto».

«Già che ho avuto la fortuna di incontrare te, che non sei uno qualunque ma sei un capo, ne approfitto per farti un piccolo annuncio. Che resti tra noi, naturalmente, come tutto il resto. Lachlan Macquarie, ho intenzione di lasciare la mia tana su queste montagne e trasferirmi a Sydney».

Ho sgranato gli occhi, senza rispondere.

«Non preoccuparti. Non certo in forma di lucertola. Avrò forma umana e abiti consoni. Mi crederanno un indigeno. Anzi no, voi bianchi fate molte brutte cose agli indigeni. Mi fingerò bianco come voi, e mi lascerete in pace».

«Ma che farai a Sydney…? Che c’è per te, laggiù?»

«Mi troverò un lavoro, una casa».

«E io che c’entro?»

«Tu mi aiuterai. Farò in modo che tu mi riconosca. L’unica cosa che ti chiedo, e te la chiedo per cortesia, è che tu non mi ostacoli mai. Se ti fanno problemi per assegnarmi una concessione, una casa, denaro o alimenti, falli stare zitti. In cambio non ti darò mai fastidio, non ti creerò alcun problema, e se un giorno avrai bisogno di aiuto – magari per qualcosa che posso fare solo io – vedrò di ricambiare la gentilezza, nei limiti del possibile».

«Perché a Sydney? Perché…?»

Ha sospirato.

«Perché ormai non c’è più verso di nascondersi, Lachlan Macquarie. I bianchi stanno mettendo il naso dappertutto. In meno di un decennio avranno frugato ogni angolo di questo continente. E io non troverò più né dove nascondermi, né di che mangiare, senza che un manipolo dei tuoi non tiri fuori fucili, trappole e baionette, e non cerchi di appendermi per la coda al tuo palazzo in città. Scenario che mi disturba profondamente. Insomma: dato che siete ovunque, tanto vale mischiarsi a voi e passare inosservati».

Poi si è avvicinato, tornando lucertola per un attimo. Mi fissava con quei suoi tremendi occhi neri. Aprendo la bocca per articolare i suoni, ho visto le sue zanne (le sue zanne, mio Dio!).

«Ti ho quasi mozzato le mani, e credimi: sapendo chi sei e dove abiti, posso fare molto di peggio. Basti questo a garantirmi il tuo silenzio per ora, e in futuro la tua cortesia. So che non farai sciocchezze. Non dopo che hai sentito l’odore del tuo sangue».

Poi, tornato umano, mi ha salutato e si è diretto con noncuranza verso la sua grotta, dove è scomparso.

Questo accadeva nel novembre del 1813, e per molti giorni ho creduto di avere sognato. Poi, nel gennaio del 1814, me lo sono ritrovato davanti passeggiando per Sydney, in un quartiere dove si costruivano case per i coloni appena usciti di galera, pronti per iniziare una nuova vita. Aveva lo stesso aspetto che gli avevo visto assumere sulle montagne – la stessa faccia, la stessa altezza, la voce e il portamento: solo la pelle era mutata, e naturalmente non aveva indosso la livrea dei British Grenadiers. Poteva passare per un ex galeotto, scampato alla forca a Bedlam o Newgate, imbarcato a Portsmouth e venuto a scontare la sua pena qui, per poi rifarsi una vita. Tanta gente in Australia ha cominciato così. I nostri sguardi si sono incrociati – mi ha sorriso e ha chinato leggermente il capo, biascicando good morning your honour, and please your honour’s honour, manco fosse irlandese. Ho restituito il saluto e sono passato oltre. Da allora sono tornato regolarmente a controllarlo. Sulle montagne aveva detto la verità: non mi ha mai causato un problema. Si è fatto assumere nella tenuta di un possidente, gli ha fatto da segretario – non so davvero come o dove abbia imparato a scrivere – e ora amministra parte delle sue terre vicino a Melbourne. Non mi sono mai arrivati reclami o proteste. A volte, di sera, quando passo accanto alla sua finestra e nessuno è in giro, lo scopro a leggere a lume di candela: mi nota, si trasforma in lucertola, fa schioccare la coda; poi torna umano, e di nuovo mi saluta con un rispettoso cenno del capo. E così sono passati, senza che me ne accorgessi, sette anni.

Non ho mai rivelato a nessuno la sua presenza, né quello che mi disse. Vorrei dire che è stato perché avevamo, nel suo distorto modo di pensarlo, un accordo; ma la paura, e quella orribile sensazione che mi chiude lo stomaco quando cerco di far concordare una vita lunga, intera e reale come la mia, con un fatto insensato e impossibile come il mio incontro con Samuel Bannister – si è persino inventato un nome umano! – hanno forse giocato il ruolo più importante nel mio silenzio. Ora, sette anni dopo averlo incontrato, il mio mandato si conclude, e vengo richiamato in Inghilterra: lascio la creatura in Australia, alle prese con sé stessa e il suo destino. L’unico conforto che ricavo dalle mie perenni riflessioni, ora che sollevo la penna dal foglio e concludo questo resoconto, è che ho assistito ad una manifestazione terrificante della potenza di Dio. Poiché non so di altre forze, in cielo e in terra, che avrebbero potuto conservare alla mia vista quell’avanzo del Tempo Profondo – quel relitto, quella chimera, quella creatura improponibile. Egli vuole impartire al mostro una lezione: Egli lo ha maledetto, segnato come Caino, e niente e nessuno può ucciderlo, prima che il suo destino si compia. E nella profonda ignoranza dei disegni di Dio, nelle tenebre in cui è avvolto il destino di questo mostro fuori tempo, lascio che si chiuda questo mio scritto.

5. Le vacanze dei mammiferi

Il nostro primo bambino, mio e di mio marito Adam, lo abbiamo voluto chiamare Samuel. Sammy in famiglia. Samuel è il nome del migliore amico di mio marito, uno che col tempo ha finito per diventare anche amico mio, e che in un’altra epoca, se noi fossimo persone diverse, sarebbe finito a fare il padrino di battesimo di Sammy. Ma noi non siamo credenti e Samuel, bè… non ha i sacramenti, perché non è un essere umano.

È una lucertola.

Avreste dovuto vedere Sammy a sei mesi, quando lo portavo al parco tutte le mattine. Era ciccione e biondo e con gli occhi azzurri come suo padre. Era irresistibile. Non stava fermo un minuto, ma piangeva molto poco. Mi ha abituato male – il secondo e il terzo figlio hanno rotto molto più le scatole di lui da neonati. Comunque la mattina lo tenevo io; il pomeriggio lo teneva suo padre, e nelle mezze giornate libere lavoravamo. Mi ricordo quelle mattine di primavera, tra ottobre e dicembre, come i momenti più tranquilli della mia esistenza. E non ero mai sola. Samuel era sempre con me e Sammy.

Non credo lo facesse apposta, di farsi trovare nel parco la mattina, quando ci venivo io con Sammy nel passeggino. È una lucertola molto discreta, non ha mai imposto la sua presenza a nessuno. Ma era un periodo strano per lui, quello. Lo avevano promosso alla compagnia dove lavorava, e ora faceva perizie in giro per il Queensland; non lavorava quasi più in ufficio ma era spesso in viaggio. Non essendo più appiccicato a una scrivania, molto spesso lo trovavi al parco sotto casa sua – nel nostro stesso quartiere a Sydney – a rilassarsi. Poi ovviamente comparivo io con Sammy e finiva per stare con noi. Dei due, semmai quella invadente ero io. Ho detto ‘strano’ poco fa perché era un periodo che aveva le fisse. Non passava giorno che non lo trovassi, nella sua consueta forma umana, con le cuffie nelle orecchie a sentire sempre, a ripetizione, la stessa canzone dei Rolling Stones.

Paint it black.

«Non sei mai tentato da qualcos’altro?», gli ho chiesto una mattina, mentre Sammy si interfacciava con un coetaneo e provavano a vedere chi gattonava meglio sul prato.

«No».

«Non ti viene a noia, sentire sempre la stessa cosa?»

«Sono un rettile. Per venire a capo di una canzone mi ci vuole più tempo che per voi».

«Questa è la solita risposta che usi quando non vuoi rispondere, Sam».

«Non riesco più a nasconderti niente, Mabel».

«Ovviamente no. Sicché?»

«Sicché questa canzone parla di me».

«Non è la storia di un ragazzo che ha perduto la ragazza che ama, e sta da cani?»

«Sì, non dico che parla letteralmente di me, però non c’è una frase in questa canzone in cui io non mi ritrovi».

«Spiegami meglio».

«Questo tizio che cammina per la città, vede colori e persone, e non può fare a meno di pensare al nero che vorrebbe su tutto e alla persona che ha perso. Ci sono giorni che quasi non riesco a uscire di casa perché il profumo e i colori delle foreste, delle savane dove sono cresciuto è troppo forte, e la quantità di umani in giro per strada mi dà alla testa. Il passato è inafferrabile, è perduto per sempre. Anche i miei ricordi prima o poi sbiadiranno. Come il ragazzo della canzone, mi sento in cuore l’oscurità».

«Non vorrai mica…»

«Naaa. Ho detto al vostro governatore, ormai duecento e passa anni fa, che non mi volevo più ammazzare e questo rimane. Ma posso comunque essere molto triste».

«Oh, Sam».

«Pazienza, Mabel. E poi quando dice del mare che è verde e non tornerà più azzurro. Il discorso dei colori mi strazia l’anima. Sono tetracromatico, li vedo molto più intensamente di voi. Ma questo discorso è inutile».

«Una volta mi hanno fatto vedere una simulazione di come vede un uccello o un rettile. È incredibile. Siete sommersi dai colori. Fa male agli occhi».

«Vero? E pensa che quella è solo una simulazione».

«Ti mancano i tuoi colori?»

«Sì. A volte così tanto che vorrei non ci fossero più colori al mondo».

«Che fosse tutto nero».

«Brava».

«E se fissi nel sole, cioè se ti accechi con la troppa luce, puoi illuderti per un attimo che il tuo mondo ritorni, e sia tutto intorno a te».

«Mabel, mi leggi nel pensiero?»

«Ormai».

Conobbi Samuel, brevemente, prima di conoscere Adam. Poi io e Adam ci siano innamorati e ho visto Samuel più spesso. Mi è sempre stato simpatico. Quando però Adam e io abbiamo cominciato a pensare di trasferirci a vivere insieme, magari metter su famiglia un domani eccetera, Adam mi ha detto serio serio che bisognava che io sapessi qualcosa, perché Sam era per lui come un fratello e se volevamo amarci, dovevo accettare anche la sua presenza nella nostra vita. Io lì per lì non capii un accidente: che aveva Samuel di così strano, che mi toccava un discorso del genere? Poi una sera Samuel mi mostrò il suo vero aspetto.

Ebbi una crisi isterica di circa una mezz’oretta. I personaggi di Lovecraft impazziscono quando vengono messi di fronte alle orrende consapevolezze segrete che giacciono sotto la loro miserabile realtà. Lovecraft sottovalutava il potere dell’adattabilità umana, o – come dico io, che sono più cinica – dell’indifferenza. Certo, quanto mi era stato rivelato era impossibile, assurdo; certo, Samuel doveva essere un ipnotista o uno di quei personaggi così carismatici che ti inducono a credere quello che vogliono; certamente dovevo avere qualche lesione al cervello (per sicurezza ho fatto una TAC: niente). Insomma tutto giusto tutto bellissimo, fatto sta che avevo visto quello che avevo visto, e per quanto impossibile, accadeva sotto i miei occhi. E così mi sono abituata all’assurdo, forse un po’ più lentamente di come ci si abitua alla realtà. Ma alla fine il risultato è scontato: siccome bisogna pur vivere, anzi convivere con certe situazioni, prima le accetti e meglio è.

E comunque Samuel aiuta molto a gestire l’imbarazzo. Ricordo che quella sera mise sul suo giradischi – un pezzo d’antiquariato che tiene con molta cura – un vinile di jazz atmosferico. Adam ha servito i cocktail. Ci siamo seduti a parlare sul divano azzurro mare. Quel divano, mamma mia. Insomma la serata è finita d’amore e d’accordo e io non sono impazzita. In capo a due settimane mi ero completamente ripresa e quasi non facevo più caso al fatto che Sam era una lucertola. Quando ci siamo sposati, Sam ha celebrato il matrimonio in comune. E da allora per noi è come uno di famiglia.

«Vediamo se tu leggi nel mio», gli ho chiesto, alzandomi per andare a prendere il piccolo Sammy che aveva fame. «A cosa sto pensando? Ti do tre tentativi».

«Al riscaldamento globale».

«Esagerato. A quella roba penso solo dopo cena. Riprova».

«All’assicurazione che non ti sta risarcendo il totale pattuito per il tuo appartamento andato a fuoco a Melbourne».

«Le teste di minchia. Comunque no. Ritenta».

«Quando finalmente svezzerai Sammy».

Sammy, per tutta risposta, si è attaccato vigorosamente alla mia tetta destra.

«Troppo presto. E comunque no».

«Uffa. E quindi?»

«Fra un po’ è Natale, e poi c’è gennaio e le vacanze estive».

«Incontrovertibile».

«Io e Adam portiamo il pupo dai miei genitori, a Seattle».

«Sì, me lo ha detto Adam l’altro ieri».

«Vieni anche tu?»

Silenzio. Paint it black, bassissima, in sottofondo (Sam si è tolto le cuffie per parlare con me).

«Impratico, risponde poi».

«Perché?»

«Da noi è estate, ma a Seattle è pieno inverno. Troppo freddo per me».

«Oh, ancora con questa storia».

«Ma è vero. So fare tantissime cose, ma reggo male il freddo, anche nella mia forma umana. Non riesco a modificare del tutto il mio metabolismo da rettile. Con le conseguenze che immagini».

«Ma se d’inverno sei sempre in giro».

«Sì, perché mi attrezzo. Ho una collezione di cappotti da alta montagna e li indosso la mattina dopo un’ora di riscaldatore elettrico. Altrimenti ciao. Per fortuna che Sydney non ha inverni troppo rigidi, e ora col cambiamento climatico, praticamente non c’è più l’inverno».

«Come facevi quando non c’erano i riscaldatori?»

«Passavo i mesi più rigidi, luglio e agosto, su verso l’Equatore. Trovavo sempre una scusa, mi facevo trasferire o mi licenziavo».

«Sempre un posto diverso?»

«L’idea era quella, poi sono pigro, per cui finivo regolarmente tra Cairns e Cooktown. Sul mare, se possibile».

«A questo ritmo, facevi prima a trasferirti a nord e basta».

Sam ha sospirato.

«Vero. Ma Sydney è casa mia. Ho sempre vissuto qui. A te non manca Seattle?»

«Ma neanche per idea. Che tempo di merda».

«Ok».

«Non che io non ti capisca, eh. C’è gente che resta a casa propria tutta la vita. Magari tu sei uno di quelli».

Sammy intanto, presa la tetta, mi si è addormentato in grembo.

«Non è solo attaccamento a casa. È che mi sento in colpa all’idea di andarmene. Finché io resto qui, è come se la mia razza non fosse proprio del tutto scomparsa. Suona stupido, ma è così che mi sento».

«Figurati, ha senso – per quanto può avere senso tutto il cumulo di assurdità della tua esistenza. Ma se posso consolarti un po’, non credo mica che siate estinti del tutto».

«Questa poi me la devi spiegare».

«Negli ultimi mesi ho fatto un giretto su wikipedia. Un giretto molto lungo, in effetti. Tu sei un varano, giusto?»

«Così pare».

«E il tuo nome scientifico è Varanus priscus. Australia, Pleistocene, 1.5 milioni fino a 40.000 anni fa».

«Tutte queste cose me le ha dette Adam. Io non le sapevo, le ere geologiche e la storia della vita e tutto quanto. Ma sì, pare che la mia razza si chiamasse come hai detto tu, e Megalania per gli amici. Hanno trovato i fossili. Che angoscia. Però il nome è bello».

«Resta il fatto che il genere Varanus conta oggi ottanta specie. Ottanta! Sparse tra Africa, Asia e Australia. Nessuna in via di estinzione. Non è male, neh?»

«Non so perché ma non mi entusiasma».

«Ma dai, Sam, è come essere orfani ma avere un sacco di cugini. Ti consola».

«Mah».

«Aspetta. Con questa ti stendo. Ti hanno mai parlato dei draghi di Komodo?»

«Sì, e se questa era la bomba, evita. Ho sentito, ho visto, e soprattutto ho ricordato. E penso di non volerne sentire più parlare».

«Quindi li hai visti! I varani di Komodo, dico. Quelle lucertolone grigie. Ti somigliano tantissimo, Sam! Solo che sono molto più piccole».

«Ma lo so, ti dico. Sono andato a vederli quando ha aperto il parco naturale a Komodo, nel 1980. È stato il mio primo e più lungo viaggio lontano da casa. Mi avevano detto le mille cose di queste bestiacce. E poi le ho viste».

«E non… non ti hanno convinto?»

«Per prima cosa, le conoscevo già. Erano appena comparse quando ci stavamo estinguendo, ma me le ricordo bene. Poi evidentemente si sono estinte anche loro e sono sopravvissute solo in quelle tre isolette lassù in Indonesia, dove erano i bulli del quartiere. Ma tra noi, intendo qui in Australia, erano né più né meno degli scemi del villaggio».

«Veramente? Un’intera specie può essere scema?»

«Se ci rifletti bene, ne conosci una che è peculiarmente scema nel suo complesso, con tutto che il singolo individuo spesso non lo è», replica Sam con delicatezza. «E anche i Lewis non erano sveglissimi».

«I Lewis? Avevano un cognome?»

«Quando ancora voi non c’eravate, avevamo i nostri modi per parlarci e riconoscerci. Le lucertole che dici tu erano quasi tutte della stessa famiglia, i Lewis. E quando li ho rivisti a Komodo, che delusione: erano ancora loro. I discendenti di quei Lewis che conoscevo io».

«Ma cosa intendi per scemi?»

«È l’unica parola che mi viene in mente per spiegare in linguaggio umano un concetto che funziona per noi animali. Noi, per dire, avevamo quelle che voi chiamereste classe, stile, complessità, stratificazione. Non dico intelligenza, quello è davvero un concetto troppo umano e per noi non ha senso. Ma i Lewis! Tutto il contrario. Mangiavano, dormivano e facevano le uova. Forse avrebbero potuto fare altro, ma non è mai interessato loro. Quelli con cui ho parlato a Komodo erano tali e quali a quelli che conoscevo da giovane. Bizzose piccole lucertole, capaci solo di criticare e non capire. Che delusione, Mabel. L’ultimo avanzo della mia era e della mia razza sono questi qui».

Sammy si è beatamente addormentato. Lo sistemo nel passeggino, rimboccandogli la coperta. Quando dorme è adorabile.

«Ieri ho sentito i miei per telefono».

«E?»

«Dicevano che di solito, in autunno, Oregon e Washington sono coperti di neve. Nell’interno, dico».

«Quest’anno no?»

«Quest’anno ha nevicato un paio di giorni. La settimana scorsa avevano venti gradi e un po’ di vento».

Sam tace. Io deglutisco.

«Mi è tornato in mente per via che io e Adam volevamo venissi a Seattle con noi. Tu dicevi che era troppo freddo, e poi hai parlato del riscaldamento globale due volte. Credo di essermi suggestionata».

«Non è mica una tua paranoia, Mabel. È un fatto».

«Quindi non sono scema se mi sento in ansia per questo».

«No, affatto. È una reazione condivisibile».

«Tu hai ansia?»

«Meno di te, ma perché a pelle, il fatto che il clima si riscaldi per me non è problematico. Semmai può rendermi la vita meno complicata, per le ragioni di cui sopra. Ma razionalmente è un bel problema, per voi come specie, se non lo risolvete in fretta».

Mi intreccio le mani in grembo.

«È tutto così…»

«Come?»

«Così troppo più grande per me. O per Adam. O per tutti noi».

Sam sospira.

«È che avete impostato male questa cosa del potere», commenta infine. «Molti pochi tra voi gestiscono tutti gli altri. Lasciano loro le briciole, si prendono il grosso e del resto non si preoccupano. Ti dirò: col cervello che avete, speravo in un equilibrio migliore. Ma forse è vero che più aumenti l’intelligenza, più ti si complica la vita».

«Aspetta, qui andiamo a toccare qualcosa di troppo complicato. Mio cugino fa il sociologo, dovremmo chiedere a lu…»

Mi sono distratta per qualche secondo a discutere con Samuel; giusto il tempo per rendermi conto che il passeggino non è più accanto a me, ma si allontana rapidamente – uno, due, tre, sei metri. Lo trascina come se niente fosse un’altra donna che non ho mai visto. Mi scappa un urlo. Sam e io scattiamo in piedi.

«Scusi, quello è roba mia», esclamo correndo verso il passeggino, e facendo per afferrarlo. L’altra donna, che ora che mi avvicino noto essere molto robusta e generosa di pancia, senza rispondere mi graffia il braccio – ha le unghie lunghissime – e mi spintona di lato. Non me lo aspettavo, e rinculo di un metro rischiando di cadere.

«Buona giornata», conclude la donna, e fa per andarsene.

La rincorro e cerco di staccarla dal passeggino.

«Ma che cazzo fa», urlo «È il mio bambino, non il suo».

«Buona giornata», risponde lei calmissima, e mi tira i capelli con la forza demente di una bambina. Urlo, ma non mi scompongo e le ficco due dita in un occhio. Urla anche lei, mi spintona di nuovo – pesa il triplo di me – e di nuovo rinculo all’indietro.

Quando mi rimetto in equilibrio, la signora si è fermata a pochi metri da me.

Samuel, tranquillissimo, le sbarra la strada.

«Mi scusi», comincia a dire «Ma non è davvero il caso di continuare. Lasci stare questo bambino e se ne vada».

«Buona giornata», risponde la signora, e afferrato il passeggino, fa per svicolare.

Sam la blocca con le mani, e la separa dal passeggino con uno strattone.

«Non vogliamo denunciarla», dice. «Ma adesso lei deve andarsene».

Il piccolo Sammy si è svegliato e comincia a piangere. Mi guardo intorno. Il parco è deserto. Ma – no! dall’altra parte del prato, una coppia e una ragazza giovane che fa jogging. Mi sbraccio, urlando aiuto.

«Cretino! Cretino!» urla la signora, e si avventa su Samuel, coprendolo di sputi in faccia, e tentando di graffiarlo. Ma lui le tiene ferme le mani. Lo tempesta di calci. Lui la ignora. Comincia allora a urlare come un maiale scannato. È allora che Samuel, evidentemente, perde la pazienza, e un secondo dopo davanti alla signora c’è un varano gigante, il dorso arcuato e la coda sospesa in aria.

Non so se la signora sappia interpretare correttamente questa posa, che nel linguaggio dei varani significa: mi hai fatto incazzare. A pensarci bene, non credo che sia necessario conoscere questo dettaglio per spaventarsi. La signora smette di urlare e guarda Samuel con orrore. Ma non se ne va; anzi fa per afferrare il passeggino con Sammy che piange disperato. Tanto basta perché Samuel le chiuda le mandibole sulla mano, e con uno strattone tremendo…

…oh Cristo.

Le ha staccato metà dito.

È rimasto attaccato al passeggino.

La signora non sa più in che mondo sia. Cade a terra di culo e comincia a piangere e rotolarsi per terra. Veniamo soccorsi dalla coppia e dalla ragazza che faceva jogging – la signora continua a gemere e indicare verso Samuel, dicendo che è un mostro, un mostro con le squame.

Ma Samuel, identico a com’era prima di riprendere il suo aspetto originale, finge di non capire di che parli la signora, e dà a intendere, con gesti e mezze parole, che è un po’ matta. D’altronde – come sia io e che lui raccontiamo in séguito alla polizia – stava tentando di portarsi via un passeggino in pieno giorno; non ci doveva stare tantissimo con la testa.

Né io né Samuel sappiamo spiegare alla polizia il dito amputato. Né io né lui abbiamo addosso fruste, coltellini o altri oggetti appuntiti. La signora sì, invece: aveva un coltellino svizzero nella sua borsetta di plastica rosa, caduto a terra mentre si divincolava, e che Samuel, con un gesto del piede che nessuno ha visto, ha spinto verso la macchia di sangue caduto dal dito mozzo. Forse voleva ferire uno di noi, e senza volerlo si è ferita da sé, concludo io con tutta l’innocenza di cui dispongo.

Quando, congedati dalla polizia, torniamo verso casa con Sammy addormentato e tranquillo nel passeggino, rifletto sul fatto che il mondo è un luogo senza senso, ma Samuel – per nostra fortuna – è un vero amico.

6. Stai alla larga dalle mie uova

Raccontano i vecchi che un tempo viveva una specie che, da sola, aveva riempito tutto il mondo. Non solo quello dove abitiamo noi, ma anche quello al di là dell’orizzonte, dove né io né i miei siamo mai stati. Quanto sia grande questo mondo invisibile, non lo so; non mi sforzo nemmeno di immaginarlo. Ma le tracce di questa specie, che ora non c’è più, si vedono disseminate un po’ dappertutto nella terra dove ora vivo. Un luogo in particolare, che frequento spesso per ragioni che a breve dirò, ne sembra pieno. Di suo non sarebbe nulla di diverso da una foresta attraversata da un fiume, come ce ne sono a centinaia qui intorno. Ma in mezzo agli alberi, a volte dal letto del fiume, a volte intasando intere radure, si vedono tantissime strutture di metallo e pietra, che non hanno senso nel mondo in cui vivo ora, e che – ricordano i vecchi – si chiamavano città.

Il fiume che sto costeggiando, passo dopo passo, attraversa proprio una di queste vecchissime città. Ne rimangono solo scheletri, colori e metallo marcito. La foresta è fitta e molti alberi si sono mangiati le strutture di metallo, nascondendole o piegandole con le radici. Il luogo m’interessa perché la terra intorno al fiume – non a riva, ma a poche decine di metri, nel sottobosco – è soffice e fresca, e cede dolcemente ai miei artigli. Per ore e ore ho cercato un posto che facesse al caso mio. L’ho trovato e ho iniziato a scavare, lenta perché mi stanco facilmente, ma inesorabile perché sono cocciuta. E vorrei vedere voi al mio posto. Ho ricavato nel terreno molle, all’ombra di un ginkgo, una vasta camera sotterranea; mi ci sono infilata di culo; e ad una ad una vi ho deposto ventotto uova.

E ora?, direte voi. E ora niente, sto qua e le bado. Non le covo, da noi non usa. Le ricopro di terra, sigillo la camera, mi appiattisco per terra sperando di confondermi con le felci che mi ricoprono, e aspetto pazientemente che passino i nove mesi dell’incubazione. Un’eternità, lo so. Mi ridurrò alla fame, disperata a tal punto da mordere una mucca, che non è la preda più amichevole del mondo, pur di mettere qualcosa sotto i denti. Ma per le uova si fa questo e altro. Mica perché l’ho deciso io. È la natura. Se non lo sapete, informatevi.

Passa il primo mese. Niente da segnalare. Dormicchio, non mi muovo, ogni tanto passa qualcuno nelle vicinanze – un cane, un gatto, persino una decina di galline – ma resto invisibile sotto le felci, e indisturbata. All’inizio del secondo mese intuisco che c’è qualcosa che non va.

È un odore diverso dal solito. Qua intorno ce ne sono altri diecimila, e il nuovo arrivato, non molto intenso, lì per lì si confonde. Ma io col naso, anzi con l’organo vomeronasale, modestamente ci so fare. Tiro fuori la lingua e pesco l’aria intorno a me per ore, finché non concludo che a una cinquantina di metri da me c’è un altro rettile, piuttosto grosso. Se si trattasse dell’ennesimo animale che passa di qui per caso e poi se ne va, non avrei problemi. Ma questo coso rimane dov’è, perché il suo odore non se ne va, per almeno una settimana, e questo mi disturba profondamente. Curioso che non si sia messo sottovento, dove non mi sarei accorta della sua presenza. Ma questo non risolve il mio problema. C’è una discreta probabilità che la bestiaccia sia lì per depredare il mio prezioso tesoro sotterraneo, e aspetti che io mi allontani o mi distragga per una rapina fulminea. Penso a un attacco a sorpresa perché se potesse sopraffarmi fisicamente lo avrebbe già fatto. Immagino quindi che non sia dell’umore o non sia in grado di combattere per le mie uova, e voglia procurarsele senza sforzarsi troppo. Oh, ma deve solo provarci. Io di qui non mi schiodo.

Curiosamente, e senza alcun preavviso, dopo altri tre giorni è lui a schiodarsi. Si alza dal suo giaciglio di felci ed erba secca, all’ombra di un eucalipto; si stiracchia; e si sposta verso una radura più o meno a metà strada tra la sua tana e la mia.

«Bella giornata oggi», mi fa.

Non gli rispondo.

«Dico: bella giornata oggi, vero?», ripete.

«Sì e no», rispondo dopo due lunghissimi minuti di silenzio.

Lui si guarda intorno, poi guarda me.

«Vedo che stai badando al nido».

Oh no. Se n’è accorto.

«Anche fosse?», gli chiedo.

«Niente. Non so cosa fare e attacco bottone. Tra un pasto e l’altro ultimamente non so mai cosa fare, e anche dormire a un certo punto stanca».

Si siede in mezzo alla radura. È molto, molto più grande di me. L’istinto che mi blocca a difesa del nido va in conflitto con quello che mi spinge a scappare. Non so cosa fare e nel dubbio, tremo.

«Sicché, dicevamo? Ah sì. Sei a badare al nido. Immagino che noia, eh?»

«Se lo dici tu».

«Io non ne ho idea, mai fatto le uova in vita mia. Chiedevo a te».

«Ah! Boh. Non saprei».

Il coso alza il muso al cielo e poi mi fissa.

«Tu non devi essere un granché alle feste, eh?»

«Non capisco di cosa parli».

«No, ovviamente. Che ne sai tu di cos’è una festa».

«Oh insomma, piantala. Mi spieghi che vuoi da me?»

Resta come sorpreso.

«In che senso?»

«Nel senso solito. Stai lì, mi fissi, mi fai queste domande idiote sul nido. L’ho capito che vuoi le mie uova. Dillo subito e facciamola finita. Sai benissimo che puoi venire a prendertele senza che io possa oppormi. Al massimo ti farò un graffio o due. Ma per favore piantala con questa scemenza di conversazione e vieni al sodo.

Ancora più allibito, risponde:

«Ma chi le vuole, le tue uova, idiota. Ti ho appena detto che sono tra un pasto e l’altro. Ho mangiato nemmeno ieri, non lo vedi che panza che ho? Ti pare che perdo energie e tempo digestivo – e alla mia età digerire non è uno scherzo, tra l’altro – per ingollare una decina di uova della prima matta che incontro?»

«Fai poco lo stronzo, coso. Io qui sto facendo il mio dovere di madre. Altro non so. Se permetti, gli animali normali non fanno tutto questo puttanaio sulla conversazione se non cercano qualcosa di estremamente specifico».

«Non ti è nemmeno passato per l’anticamera del cervello che io potessi semplicemente voler fare due chiacchiere per ammazzare il tempo?»

«Ma tu sei pazzo. Dove hai imparato questa stronzata?»

Non risponde; arretra e fissa per terra, come colto da un pensiero. La coda frusta senza convinzione un arbusto vicino alle sue gambe.

«Usava tra gli umani. Quando vivevo con loro, lo facevo anche io».

«Chi sono gli umani?»

Mi guarda di nuovo, stavolta però come se non mi vedesse.

«I tuoi vecchi, se ci hai mai parlato, ti avranno raccontato di una specie scomparsa, che copriva tutto il mondo».

«Ah, sì. È una storia che si racconta. Erano loro?»

«A-ha».

«Ma pensa te. E tu li hai conosciuti?»

«Li ho praticamente visti nascere».

«Ma smettila. Se fosse vero saresti vecchissimo».

«Non sai quanto».

«Non so se crederti».

«Hai mai visto un varano della mia stazza?»

«No».

«Uno che cerca di fare conversazione, anziché mangiarti?»

«Quasi mai».

«Ecco. Tanto ti basti. Non sono strano. Sono semplicemente fuori tempo massimo. Sono il relitto dell’ennesima età scomparsa».

Se crede che io abbia capito cosa ha detto, auguri. Quando le cose si fanno troppo complesse per me, smetto di pensarci. Altrimenti sono solo dolori di testa. Ma non ho motivi per non credergli quando dice che conobbe gli umani. Anche da qui posso vedere chiaramente che è molto vecchio. Non debole, non moribondo – ma, non so perché, vecchissimo.

«Hai un nome?», gli chiedo.

«Samuel Bannister. Tu?»

«Hester Lewis».

«Una Lewis? Ma pensa tu».

«Conosci la mia famiglia?»

«Hai voglia se la conosco. Antichissima, me li ricordo dall’inizio. Voi venite da qui. Quando ancora gli umani non c’erano, vivevate in questa terra insieme a noi».

«Uh. Sai che in effetti è così? O almeno così mi hanno detto».

«Lo so. E finché c’erano gli umani, siete rimasti confinati su un’isoletta a nord».

«Ma tu sai proprio tutto. È così. I vecchi dicono che un tempo vivevamo su un’isola. Poi gli umani se ne sono andati, e con loro un sacco di altri carnivori col pelo, e noi abbiamo nuotato altrove, ed eccoci qua».

«Vedi le pazzie della vita. Non mi ero minimamente reso conto che foste tornati. Ma già, negli ultimi secoli sono stato molto distratto».

«Alla faccia del distratto. In che buco ti eri rintanato?»

«Stavo qui».

«Qui sul fiume?»

«No, dico qui nei paraggi. Tra quelle montagne che vedi a ovest, le Blue Mountains, e il mare. Ho vissuto per non so quanto tempo tra le rovine di Sydney, dopo che gli umani se ne sono andati per sempre».

«Cos’è Sydney?»

«La città dove vivevo quando c’erano gli umani. Hai presente le rovine intorno a noi?»

E indica col muso un oggetto dietro di me. Ma non sono così scema da voltargli le spalle per guardare, e comunque ho presente quello di cui parla, per cui gli rispondo:

«Aha. Sì. Strane rocce colorate. Sentieri di pietra. Luoghi ombrosi. Non ci andiamo quasi mai, per questo ci ho fatto il nido – per avere un po’ di privacy. So che ci bazzicano i cervi, per stare alla larga da noi».

«Lo so, son campato praticamente solo di quelli negli ultimi dieci anni. Comunque: le rocce colorate di cui parli si chiamavano edifici. Case. Insomma, i luoghi che gli umani costruivano».

«E adesso chi ci abita?»

Rimane in silenzio, e poi:

«Le ombre. E io, fino a poco fa».

Detto questo, resta immobile. Mi sento a disagio: se si arrabbiasse perché non continuo questa sua conversazione, e mi mettesse il nido a soqquadro? Prendo coraggio e provo a dargli un po’ di corda:

«Gli volevi molto bene, a questi umani?»

Sospira.

«Ad alcuni davvero molto. Come tu alle tue uova. Ho moltissimi ricordi».

«Tipo?»

«Il mio amico Adam. I capelli rossi di Mabel. Il piccolo Samuel che correva sul prato, verso Adam che lo prendeva in braccio. A Cooktown, il Pacifico limpido come un diamante sotto il sole. Il dorso tigrato dello squalo che mi nuotò accanto quella volta. D’inverno, il caffè fumante che faceva Jane in ufficio, anche se non lo bevevo mai. L’odore tiepido della carta stampata il giovedì mattina».

«Non ho capito tre quarti delle cose che hai detto».

«Pazienza, signorina Lewis. Non è roba che tu conoscerai mai».

«Bè, senti, almeno te la sei spassata. Se ho capito bene il concetto».

«Sì. Sì, mi sono divertito. Certo dopo un po’ ti viene la malinconia, a vivere mentre i tuoi amici muoiono, uno dopo l’altro, generazione dopo generazione. Pure, sento che avrei potuto sopportarlo meglio se… se non fosse tutto finito per sempre».

«Non ci sono proprio più umani, eh?»

«No».

«Proprio nessuno nessuno?»

«Non sono andato a controllare, ma gli effetti della catastrofe erano abbastanza chiari. E io l’ho vista nel suo svolgersi, dall’inizio alla fine».

«Come è successo? Si dice che fossero potentissimi».

«Lo erano: io li ho conosciuti bene. Eppure, proprio come noialtri, han cominciato a diminuire, e poi sono spariti».

«Perché?»

«È lunga da spiegare. Non so se ne ho voglia. O se capiresti».

«I vecchi dicono che il caldo…»

«Sì, quello sicuramente ha giocato un ruolo. Ma poi… oh, ma a che serve. Si sono estinti, punto e basta».

«Dei tuoi simili, i varani grossi dico, neanche di loro c’è rimasto qualcuno?»

«No, macché. Scomparsi tutti tranne me, quando ancora gli umani erano una novità».

Qui, d’istinto, mi esce fuori:

«Ma signor Bannister. Sei proprio solo. Sei più solo dei miei figli quando usciranno dall’uovo».

Terrorizzata di averlo offeso, mi si chiude di colpo la bocca. Ma lui non sembra prendersela. Si limita a rispondere:

«Esatto».

Poi si volta verso di me e mi pianta gli occhi in faccia.

«Scusa, in che senso ‘solo come i tuoi figli’? Non ci sarai tu a badarli, quando usciranno dall’uovo?»

Di tutte le scemenze che ho sentito…

«Ma scusa, non sono mica un coccodrillo. O un canguro. O un cane, o che so io. Non sono quel tipo di madre. Finché sono dentro l’uovo, ci sto attenta. Dopo, quando escono, me ne vado. Alla bisogna me ne mangio pure qualcuno, sai che fame dopo mesi a star ferma qui».

Questo sembra costringerlo a rimuginare. Ma è un’illusione, perché dopo pochi secondi, percorso da un’energia insolita, ribatte:

«Lo sai che nel momento in cui te ne vai, io potrei pure acchiapparmeli tutti e mangiarli».

«Sono trenta e sblisga. Hai voglia a beccarli tutti. Guarda che scappano».

«Scappano, ma io sono venti volte più grande di loro».

«Scappano sugli alberi».

«Te li abbatto quando vuoi, questi fuscelli».

Non sta esagerando. È grosso abbastanza. Sono sempre più nervosa.

«Te l’ho detto prima, signor Bannister. Non so a che gioco tu stia giocando, ma ti prego di farlo a carte scoperte. Vuoi le mie uova? Vieni e mangiatele».

«Non voglio le tue uova. Sto solo provando a farti riflettere su un punto».

«Che punto?»

«Io non sono interessato alle tue uova. Ma tanti altri lo saranno. Non sradicheranno alberi, ma saranno veloci, e saranno tanti. Altri varani, uccelli, cani, gatti, coccodrilli, persino granchi, se occorre. Ne sopravvivranno pochissimi, di questi tuoi figli».

«Così è la vita. Così è stato per me e per tutti noi. Da sempre».

«Vero. Ma a forza di vivere con gli umani, mi sono reso conto che ci sono tanti modi, a questo mondo, di tirar su i figli – e che non siamo obbligati a seguire quello della nostra specie. Abbiamo facoltà di inventare. Non siamo copie perfette di chi ci ha preceduto. Milioni di cambiamenti avvengono nelle tue uova quando ancora le stai duplicando nel tuo ventre, cellula dopo cellula. Col risultato che nessuno dei tuoi figli è la copia tua e dei loro padri. Tu stessa non sei identica ai tuoi genitori. Puoi inventare soluzioni nuove a problemi vecchi».

«Non capisco».

«Hester: perché quando si schiudono le tue uova, non resti qui

«A fare che?»

«A badare ai tuoi piccoli».

«Scapperanno, appena nati».

«Parlagli. Non farli scappare. Dì loro che sei qui per qualche mese, che possono seguirti, mangiare con te».

«E che faccio, mentre andiamo in giro?»

«Quello che ti pare. Principalmente tieni lontani da loro i predatori. Vedrai che te ne sopravvivono molti di più, se ci badi un pochino più di quel che fai di solito».

Ho una fitta alla testa, forse per la rabbia. La sua voce nelle mie orecchie ora suona come un artiglio sulla roccia, sottile e orrendo.

«Quello che stai dicendo non ha alcun senso».

«No?»

«No. È insensato, è osceno. I Lewis non badano ai propri figli. I Lewis non hanno mai fatto così e mai lo faranno».

«E tu?»

«Nemmeno io».

«Mai?»

«No. Mai. Le tradizioni vanno rispettate».

«Perché?»

«Perché sì.

Questa risposta pare farlo riflettere, ma non lo tranquillizza per niente, e io continuo a innervosirmi. Mi accartoccio per terra accanto al monticello di terra che chiude il nido. Colpo su colpo, strazio a frustate di coda il tronco del gingko semisommerso nell’acqua accanto a me.

«Non tormentarti, Hester. Stiamo solo parlando».

«Non mi piace parlare con te», rispondo, sempre con il muso a terra. Graffio con gli artigli la terra soffice.

«Dall’inizio di questa conversazione tu hai avuto una sola cosa in testa. Che io mi mangiassi le tue uova. L’istinto ti dice di sorvegliarle e l’idea che vengano divorate prima di schiudersi ti tormenta. Tutto molto normale per un varano, e d’altronde siamo varani sia io che te. C’è però un modo molto semplice perché tu smetta di tormentarti. La tua protezione, come può dissuadere me – o chiunque altro – dal venire e mangiarsi le tue uova, può funzionare altrettanto bene se la estendi a dopo la nascita. Mi spiego?»

«Da uova i figli sono una cosa, dopo le uova un’altra. Io bado alle uova. Io non bado ai figli fuori. Fine».

«Hester, lo dico per te. Pensa a quanti figli ti resteranno vivi fino a riprodursi. Sarai la madre più di successo della zona. Non t’importa di questo?»

«Io devo fare come mi dice l’istinto».

Respira a fondo. Gira su sé stesso e frusta intorno con la cosa. Ma se è nervoso anche lui, perché stiamo ancora parlando…?

«Ma certo. Tu, e i tuoi figli, e i figli dei tuoi figli, finché non vi estinguete anche voi, o finché qualcuno non nasce con un chilo di cervello in più. Accidenti a me che cerco di fare conversazione con una Lewis».

Provo ad assecondarlo:

«Sarò scema. Che ti devo dire. Non è colpa mia».

«Avevo anche io una testa piccola come la tua, prima che quarantamila anni me la spalancassero sull’infinito».

Eh?

«Hester».

«COSA».

«Non capisco».

«Cosa non capisci, signor Bannister?»

«Non capisco il senso di tutto questo. Sono quarantamila anni che assisto a questo teatrino e ancora mi sfugge dove si vada a parare. Io sono un varano gigante. Un tempo vivevamo qui, ed eravamo i padroni. Non si era mai visto in natura niente di più bello. Tutta la potenza e la grazia del mondo in un solo animale. Uccidevamo con un respiro. Ma, sorpresa, sono tutti morti tranne me. Poi arrivano gli uomini. Il capolavoro della creazione, o almeno così pensavo – e ti assicuro che mi seccava parecchio ammetterlo. Tu non sai cosa hanno fatto, le cose che hanno costruito, tutto quello che sapevano. Ma ho vissuto abbastanza da veder cadere persino loro, loro che avrei giurato avrebbero sfidato l’eternità. E cosa viene dopo questo trionfo di speranze immense, di vita, di meraviglie, di canti…? Voi, le mezze seghe dell’universo? Cosa avete voi, che noi o gli umani non avevamo? Niente. E allora che ci fate sul trono del mondo?»

E con un sibilo, si abbatte al suolo, esausto.

Ma continua a guardarmi, sicché dopo un po’, in preda all’ansia, gli rispondo con un filo di voce:

«Non lo so. Che ci facciamo?»

Per tutta risposta, il signor Bannister manda uno sbuffo e uno schiocco, che risuonano intorno alla foresta come lo spezzarsi di un tronco. Con un colpo di coda trancia via una serie di alberelli, sradica un tronco marcio e leva la corteccia a un ginkgo. Assume la posizione che tra noi varani chiama il combattimento: con un colpo di reni si mette su due zampe, agitando gli artigli, e si lascia cadere, facendo tremare la terra. Non riesco a smettere di tremare. Non ho nessuna possibilità di batterlo, è troppo grande. Dunque ci siamo. Oggi è il giorno in cui muoio.

Ma quando ormai sono pronta a vedermelo saltare addosso, fa marcia indietro e svanisce nella foresta.

Prima di perderlo di vista, gli sento dire:

«Quanto tempo perduto».

7. Finché non avrai cambiato idea

Dopo aver dato diritto di parola praticamente a tutti i coinvolti nel caso, è tempo che prenda io il timone di questa narrativa, e la porti alla sua naturale conclusione. D’altronde hanno parlato tutti tranne me. E quindi ora tocca a me, che conosco Samuel meglio di sé stesso, seguirlo in questa sua ennesima peregrinazione.

Povero Sam! Lui ci ha provato, a fare conversazione; ne aveva così tanto bisogno che non si è voluto arrendere all’evidenza, ossia che la sua interlocutrice – scema o meno che fosse – non ne aveva davvero mezza di parlare con lui. Eccolo che vagabonda nella foresta immersa nel tramonto. Non sa nemmeno bene dove sta andando e perché; sa solo che deve camminare, deve sentirsi la terra e le erbacce tra gli artigli, per la magra soddisfazione di graffiare e strappare ogni volta che calca il suolo con le zampe. L’aria immobile risuona del chiasso delle cicale, e nelle colonne della luce del sole, polveri e pollini galleggiano, come fossero sospesi. Al solito, il corpo di Samuel ondeggia lateralmente ad ogni passo, spazzando il suolo con la parte distale della coda; la lingua esce ed entra dalla bocca serrata, come l’archetto di un violino. Centinaia di odori si fanno largo dalle narici al cervello. Centinaia di ricordi banchettano con la carcassa della sua anima.

Di norma cammina in silenzio. L’istinto del predatore è vecchio di millenni e gli impone di non farsi notare troppo. Ma a forza di stare con gli umani, qualcosa gli è rimasto. A bassa voce, canticchia.

If I look hard enough into the setting sun,

My love will laugh with me before the morning comes.

Non sa bene perché gli arrivino i crampi un po’ dappertutto dal suo corpo; forse la fame (ma non ha fame), forse la vecchiaia (ma è vecchio ormai da millenni), forse stamattina non era nemmeno il caso di alzarsi dal letto, come quando viveva a Sydney ed era domenica. La foresta si infittisce, ma Samuel non ci fa caso e continua a procedere – scende sulla riva di un torrente, lo attraversa, risale la riva opposta, incespica sulla ghiaia e sul fango, ficca gli artigli nelle zolle e rieccolo sul terreno duro. Ricorda quando questi alberi, che ora torreggiano su di lui, erano alberelli neonati. La foresta sembra eterna a chi ci vive dentro. Samuel, che viene dal Tempo Profondo, sa che è giovanissima – un battito d’ali, ed eccola. Passa una coppia di gingko e taglia in due una radura, in mezzo all’erba secca e bassa. L’odore dei Lewis offende le sue narici. Si guarda intorno, sempre camminando nella luce radente del tramonto. Eccone uno, due, forse tre. La vista è quello che è – loro poi non si azzardano ad avvicinarsi troppo – e Samuel non distingue altro che una serie di masse grigiastre.

Gli è che gli umani, pace all’anima loro, gli mancano. Prima di conoscerli poteva pure permettersi il lusso di detestarli, ma a forza di viverci in mezzo ha finito per abituarsi ad una serie di stimoli che ora non ci sono più. Forse non è la tristezza – forse è la noia.

Se non sapesse che non vi è un architetto dietro l’evoluzione, né piani nascosti sotto la coperta dei secoli, Sam penserebbe che c’è qualcosa di ironico nei fatti della sua vita. Aveva appena finito di smaltire il trauma per la perdita irreversibile della sua specie; si era appena abituato, elaborato il lutto, ad essere a casa – per modo di dire – tra estranei; e proprio quando cominciava a farsene una ragione, ecco che i meccanismi inesorabili del clima e del tempo ancora una volta spazzano via il suo mondo e gli ridanno… la sua specie? No. Quella è andata. Gli ridanno i cugini ritardati, che sembrano compensare la sua perdita originaria, ma di fatto acuiscono ancora di più le due perdite della sua vita. Nella disgrazia, anche la beffa.

Gli gira per la mente la solita domanda, che ha dormito per tanti secoli e ora, per il tedio in cui giace tutto il resto, si è svegliata: perché sono ancora vivo?

Cosa devo fare di questi millenni?

Cosa sto a dimostrare?

Per il nervoso, Samuel sradica con gli artigli un vecchio tronco ormai marcio, e lo scaraventa a metri e metri da lui. Si è ricordato di quel coccodrillo, tanto tempo prima – come si chiamava? Merryweather. Merryweather glielo aveva detto chiaro e tondo: non sei perfetto, nessuno lo è, siamo tutti di passaggio, belli o brutti che siamo – e gli aveva augurato di vivere finché non avesse cambiato idea. Chissà se è cominciato lì, quel disastro che è stato la sua esistenza. I coccodrilli possono maledire? Ma se nessun altro animale sul pianeta può farlo, perché proprio Merryweather? O Merryweather è stato lo strumento di qualcosa di più grande di lui – o di tutti i viventi? Ma Samuel, poverino, cose ultraterrene non ne ha mai concepite: nihil in terra non organicum est, gli ha spiegato una volta un biologo, e guardando al cielo Samuel ha sempre visto solo nuvole.

Certo l’assenza di senso, il vuoto indifferente dell’universo – questo sì che è sfiancante. Bello o brutto che fosse, nulla è durato per sempre sinora. Il mondo è grande, pensa Samuel, e io ne ho visto solo una parte: ma in questa parte tutti eravamo perfetti… e siamo tutti morti. Ci siamo estinti tutti quanti, milioni di esseri viventi, senza un miserabile motivo, senza che nulla o quasi di questo processo fosse in nostro potere. Tutto era fuori controllo fin dall’inizio. Anche i Lewis non dureranno per sempre. Sono qui per caso, e altrettanto per caso scompariranno, un giorno – e non gliene importerà un bel niente. Non sono perfetti, e non dureranno per sempre. Niente è perfetto e niente dura per sempre. Basta un gene copiato male, un po’ di fortuna, e quello che è un mostro in un nido, diventa re in un altro nido, in un altro tempo.

Si ferma in una radura, ormai immerso nelle tenebre. I suoi pensieri sono così forti che gli sembra di sentirli. O forse è solo il rumore delle foglie secche e dei rami che il suo passo da rettile gigante calpesta. La testa gli scotta. La coda ondeggia e frusta il terreno con sempre maggior fatica. Samuel continua a pensare. Non sembra poter fare altro. Ma a forza di pensare, è esausto. Non vede quasi più niente, ormai è scesa la notte. Dov’è andato a finire? Un angolo buio della foresta, un piccolo angolo caldo dove passare la notte. A mangiare penseremo domani. Domani penseremo a sopravvivere. Ecco uno spiazzo libero alla base di un tronco, dove Samuel può accucciarsi. Per tenersi più caldo, si preme contro un cespuglio disseccato dal sole, e arrotola la coda attorno al suo corpo.

Non si accorge di ragionare ad alta voce:

«Vivere, e non pensarci. Se guardo con tutta la forza che posso il sole che tramonta, forse il mio amore riderà con me, prima che venga il mattino».

Samuel posa la testa sul terreno, in direzione dell’ultima linea di luce. Gli occhi, indeboliti, riescono solo a distinguere un lucore soffuso. Anche il terreno è caldo, e vibra piano, come se respirasse. Samuel chiude gli occhi. A premerseli con le palpebre, gli sembra che l’oscurità sia tappezzata di luci. Da dove viene questo caldo improvviso? Samuel ha sonno. Gli sembra di avere più sonno di quanto ne abbia mai avuto.

«Le uova della signorina Hester presto si schiuderanno, mormora. – Tanti piccoli Lewis. E io? Quando sono uscito dall’uovo, io? Non lo so più. Ma ricordo bene il momento, quando misi fuori la testa dal guscio, per la prima volta – che fatica, rompere quel guscio bianco e molle – la luce mi tagliò gli occhi

   così

li avevo appena aperti

e sentivo fortissimo il chioccolio del ruscello lì vicino…

(come lo sento ora)

scorreva, scorreva…

(la luce, l’acqua)

sgattaiolai fuori dal nido – e vissi

e allora non pensavo che alla luce, e all’acqua, e al vento sugli occhi

e poi vennero gli anni

gli anni».

All’alba, l’ultimo Varanus priscus, o Megalania (Owen, 1859) è ormai morto. La testa, con gli occhi chiusi, è l’ultima ad essere incorniciata dal sorgere del sole.


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