Confidenze

di Stefano Ficagna
Copertina di Titti Demi

La ragazza nuova abita in una casa in periferia, lungo una delle trasversali che portano verso la circonvallazione. Nessuno vuole andare fin là a portarle gli appunti, anche se sono ormai tre mesi che scaldano gli stessi banchi e il compito in classe sarà fra cinque giorni: non si è ancora creata quella confidenza che, di fronte alla difficoltà, porta al senso di colpa piuttosto che al sospiro di sollievo.
Lei però è spinta dalla curiosità, una leva più forte nell’adolescenza rispetto alla pietà, quando con la mano alzata interrompe il silenzio e lo trasforma nel brusio mutevole dei compagni, sussurri che analizzano le mille maldicenze con cui motiveranno questa decisione.
«Glieli porto io». La mano scende, attira su di sé gli sguardi e lei sente un brivido attraversargli il corpo, come una scossa. La scarica le dona la sensazione di aver fatto qualcosa di giusto, di buono.
L’ultimo a girarsi per ricominciare la lezione è il ragazzo alto e secco al primo banco. Continua a puntarla e viene richiamato per questo dalla professoressa, un evento degno di nota in una noiosa aula d’istituto. Lei legge malevolenza in quello sguardo, il massimo che lo spilungone possa esprimere della rabbia muta che prova di fronte all’ennesimo sopruso: la ragazza nuova lo provoca e lo addita a zimbello della classe, portarle gli appunti è come allearsi col nemico di chi già non ha amici. Questa consapevolezza non le provoca alcun rimorso.
Appena fuori dal cancello la sua compagna di banco si avvicina e le sussurra qualcosa in un orecchio, poi scappa via ridendo. Vuol sapere se davvero quella nuova abita sopra un mucchio di ruderi.

Non è come dice la compagna di banco, proprio no. Certo, la prima impressione che le dà la casa della ragazza nuova è di abbandono, degrado, ma invece di scappare via e lasciar perdere lei osserva meglio, vede le piante sul balcone al piano di sopra, le tende ricamate alle finestre. Stringe i freni della bicicletta e si ferma metà strada fra l’edificio e le pompe di un benzinaio. Due uomini la osservano per qualche secondo, seduti su sedie di plastica di fianco a un distributore di bibite e snack, poi ricominciano a parlare piano fra loro, guardando il cielo nuvoloso.
Non definirebbe il piano terra un mucchio di ruderi, ma è strano vedere un negozio abbandonato con incastrata sopra una villetta da periferia ricca. Lei non sa niente di costruzioni, ma anche al suo occhio poco attento quel binomio manca di senso: forse è il vuoto che opprime tutto quello spazio a renderlo bizzarro, forse l’assenza di metà dell’insegna al piano terra, la scritta a caratteri neri su sfondo giallo di un rivenditore di cialde di caffè che lascia spazio ai tubi al neon che una volta la illuminavano. Resta a fissarli per un po’, immaginandone la luminescenza notturna, poi una voce si fra strada fino a lei attraverso i rumori delle due corsie trafficate alla sua sinistra.
«Oh bentornata fra noi». Al piano di sopra vede spuntare da una finestra un ciuffo di capelli biondi e una mano alzata, poi la ragazza nuova si volta e le sorride sbuffando fumo dalla bocca. «Devi fare il giro da dietro. Ti apro».
«La bici dove la metto?»
«Boh, appoggiala al muro».
«E se me la rubano?»
«Ma chi vuoi che te la fotte?» Le fa segno tutto attorno, ci sono solo macchine e quel benzinaio dove i due uomini sono ancora lì a guardare in alto. Uno dei due si volta per un attimo verso la finestra, biascicando qualcosa. Lei spera che non le abbiano sentite.
All’interno del negozio abbandonato vede qualche scatola chiusa e dei fili elettrici che pendono dal soffitto. Quando arriva sul retro appoggia la bici al muro di cinta, nell’angolo più nascosto possibile, vede una robusta porta di legno appena accostata e di fianco una delle vetrate del negozio esplosa, i frammenti ancora per terra come se fosse successo da poco. Cammina attenta fra i cocci, cercando di evitarli, poi si chiude la porta alle spalle e comincia a salire le scale.

«Quindi due ore a spiegare? Meno male che ho il sangue che non va in questi giorni». La ragazza sta sul letto a gambe incrociate, il portacenere sul cuscino alla sua destra. Stira le braccia come se si fosse svegliata da poco, poi appoggia i polsi sulle ginocchia in una posa che a lei ricorda le lezioni di yoga di sua madre.
«Sì ma queste cose poi ce le chiede. Ti ricordi che settimana prossima abbiamo il compito in classe, vero?»
«Va be’ ma che ci vuole». Si allunga verso la scrivania e prende in mano gli appunti che le ha portato, legge in silenzio per un minuto buono, muovendo le labbra. «Sempre la stessa roba. Se non ho capito il resto non è che ad esser lì c’avrei capito molto di più».
«E col compito come fai?»
«Improvviso. La vita è troppo breve per studiare anche quello che non ti piace». Si alza e rimette i fogli sulla scrivania. «Però grazie, eh. Vuoi qualcosa da bere?»
«Un’aranciata, grazie».
«Niente birra?»
Lei la guarda. Ha gli occhi semichiusi, le braccia un po’ cadenti. Ride e le fa segno di no con la mano.
«Fai come vuoi». Esce dalla porta e la lascia sola, ne sente i passi lungo il corridoio.
La camera della sua compagna ha le pareti tappezzate di poster, alcuni di idoli pop, altri di band metal che non ha mai sentito e di cui fatica a distinguere i nomi, ramificati in complicate composizioni post-gotiche. La finestra di fianco al letto, quella da cui si sporgeva poco prima, è l’unica fonte di luce all’interno: un’altra, che dà sulla strada, ha le persiane serrate. Lei è appoggiata su un divano letto giallognolo, l’unica goccia di colore in una tavolozza spenta: in quella penombra anche i cantanti bellocci appesi alle pareti sembrano pronti ad una svolta cupa e rumorosa della loro carriera. Su ogni ripiano di una libreria nera sono schierati modellini anatomici e action figure di qualche manga fantascientifico, androidi e robot che si mischiano alle figure senza volto che ne sono stati i modelli.
Lei si alza per curiosare fra i libri, la ragazza nuova entra nello stesso momento con il suo bicchiere d’aranciata e una birra in bottiglia. Appoggia il bicchiere sulla scrivania, poi torna a sedersi a gambe incrociate. Compie movimenti lenti e precisi che sanno di controllo e sfinimento al tempo stesso.
«Tutta roba di mio fratello. Meno male che un tecnico in famiglia ce l’abbiamo, se dovevo imparare io tutta quella roba stavamo freschi».
«Abita anche lui qui?»
«No se n’è andato, torna quando c’è bisogno di qualcosa se no è sempre in giro da qualche parte. Per lavoro».
Lei prende in mano una delle action figure, non le ricorda niente che abbia già visto. «Che lavoro fa?»
«Ah non chiederlo a me».
«Certo che avete gusti proprio diversi». Appoggia il modellino e indica le pareti coperte di poster, mischiati gli uni agli altri.
«Tutta questione di orecchie. Le distorsioni gli danno fastidio, ma più che altro gli fa schifo il growl. Dice che è gente che vomita invece di cantare».
«In che senso?»
«Ma sì, hai presente?» Si mette a fare un rumore con la bocca che sembra quello di un maiale sgozzato, lei si figura persino la ruggine che solca la carne. «Il growl, ecco».
Lei scuote la testa. «No scusa, io pensavo…»
La compagna osserva la parete. «Aspetta. Te pensavi che il metallaro fosse mio fratello?»
Lei fa una risatina nervosa, poi si mettono a ridere entrambe. La compagna si lascia andare sul letto, scivolando lentamente all’indietro fino ad appoggiare la testa sul cuscino. Emette un sospiro quando finiscono di ridere, come se lo sforzo l’avesse esaurita.
«Guarda te come sono messa, mi metterei già di nuovo a dormire».
Lei si avvicina. «Cos’è che hai?»
La compagna agita le braccia sopra la sua faccia nel primo movimento scoordinato che le abbia visto fare finora. «Roba complicata. Mi devo depurare un attimo da tutta la merda che abbiamo attorno, il mio sistema non funziona bene da qualche giorno».
«Il tuo sistema?»
«Ma sì». Con un movimento ampio delle braccia indica il proprio corpo. «Un po’ tutto qua. La circolazione, le forze».
«Hai l’influenza?»
«Se vuoi chiamarla così». Alza la testa e fa per dire qualcosa, ma in quel momento le raggiunge una voce agitata dal basso. Il traffico maschera un po’ le parole, poi arriva chiara una bestemmia gridata a gran voce. Sembra arrivare dal retro della casa, lei pensa subito alla bicicletta e serra le dita delle mani per istinto.
«Ma chi è?»
La compagna sorride, poi si alza dal letto con la consueta lentezza. «Vieni che ti faccio vedere».

Uno degli uomini che guardava le nuvole ora è accanto alla vetrata esplosa. Lo osservano dalla finestra della cucina, lei timorosa e più sfacciata la ragazza nuova, che si appoggia in bella vista col culo sul davanzale. L’uomo sembra bloccato, agita le mani accanto alla testa, poi esplode in una bestemmia fragorosa quanto quella sentita poco prima e si mette a girare in cerchio.
«Ragazzini di merda, se li becco li ammazzo!» L’uomo prende una scopa e una paletta appoggiate su una colonna di fianco alla vetrata, inizia a tirar su i cocci ma poi si blocca, abbandona tutto a terra e torna ad agitare le mani accanto alla testa balbettando qualcosa di indistinto.
Lei si sporge un poco di più, spaventata e incuriosita. «Ma che cos’ha?»
«C’ha la rabbia, ecco cosa c’ha». Emette un sospiro che si confonde con l’ennesima bestemmia. «Quello è mio padre».
L’uomo torna a raccogliere i vetri, ma ci riesce solo per pochi secondi prima che un contraccolpo di rabbia torni a farlo sbottare. Sembra immerso in un loop: agitazione, bestemmia, scopa e paletta, poi ricomincia da capo.
«Da quando il negozio è fallito i ragazzini vengono a rompere le vetrate. È una cosa che lo manda fuori di testa, lui punta a rimetterlo a nuovo per farci qualcos’altro, ma quelli tornano e rovinano tutto». La ragazza nuova salta giù dal davanzale e le fa segno di seguirla, lei sporge ancora la testa e vede di nuovo quelle mani che si scuotono, il volto paonazzo e la bocca che si storce in previsione dell’ennesima invocazione blasfema.
«Ma non ti preoccupa? Sembra stia per avere un infarto».
«Ma va è fatto così. Si agita tanto, poi si resetta e torna tranquillo». La prende per mano, una stretta gelida con cui la guida verso la camera. «S’arrabbia perché sa che tanto paga tutto mamma, anche il negozio è un contentino. Per fortuna sua c’ha uno spazio limitato in testa, così fa in fretta a dimenticarsi che non conta un cazzo».
«Di che si occupa tua madre?»
«Cose varie. Cose che fanno girare un sacco di soldi, top secret. Te lo direi, ma poi dovrei ucciderti». Finge di spararle con la mano a pistola ma è la ragazza nuova che si accascia sul letto, in maniera scomposta. Lei si agita e le è subito accanto.
«Oh tutto bene?» Per istinto le tocca la fronte, lo stesso gesto che sua madre ripete ogni volta che la sente anche solo tossire. La pelle della ragazza nuova è gelida anche lì.
«Sì». Sorride, la invita con un cenno della mano ad avvicinarsi. «Hai voglia di far su una canna?»

Il fumo sale in piccoli mulinelli mentre lei fa un tiro esitante. Sta in piedi accanto alla finestra, un po’ discosta per non essere vista da fuori anche se qui nessuno la conosce, nessuno racconterà quel che di proibito si sta concedendo. La ragazza nuova resta seduta sul letto, dopo i primi tre tiri le ha passato la canna e ha chiuso gli occhi. Trasmette una calma innaturale, da quei pochi passi di distanza sembra che nemmeno stia respirando.
«Non hai paura che i tuoi se ne accorgano?»
Riapre gli occhi di scatto, come una bambola rimessa in posizione di veglia. «Ma di chi? Quelli manco ci sono mai in casa». La invita con un gesto della mano a restituirle la canna, fa un tiro e soffia il fumo verso l’esterno. «Mi preoccupa mio fratello semmai, con tutti gli sbattimenti che si fa per far funzionare tutto al meglio. Sta cosa di fumare mica gli piacerebbe, soprattutto se la faccio mentre mi dovrei ricaricare».
«Sembra molto dolce».
«Eh, dolce. Sembra che gli stai dando del gay». Lei arrossisce e la ragazza nuova, quando torno a fissarla, non può non accorgersene.
«Ma davvero? Uno non si può ascoltare la musica che vuole che tutti lo etichettano? Certo che ce ne hai di stereotipi in testa eh».
Lei arrossisce ancora di più e si volta a guardare il cielo per non incrociare i suoi occhi. «Scusa. Non ci ho pensato».
«Ma va dai». Si allunga per toccarle il braccio e passarle la canna. «A me che mi frega? Non so neanche se si incazzerebbe, qui in famiglia non ci facciamo troppi problemi di genere».
Fumano in silenzio, lentamente lei torna al colore originale ma ha paura di dire ancora qualcosa di sbagliato. C’è qualcosa, nella ragazza nuova, che la mette a disagio, ma non sa dire cosa. Forse è solo la canna che comincia a fare effetto.
«Dì, visto che si parla di ragazzi ce n’è qualcuno che ti piace in classe?»
Lei pensa al biondino col ghigno sempre stampato in faccia che gioca nella squadra di pallacanestro. Alto, agile, mani grosse che le provocano un brivido ogni volta che le vede stringersi sulla palla prima di un tiro. «Nessuno in particolare. Cioè, ce ne sono di belli, ma sembrano tutti cretini».
La ragazza nuova sorride. «Io farei la festa allo spilungone. Mi fa un sesso che non ti dico». Si passa la lingua sulle labbra a rimarcare il concetto. «Hai capito chi dico, no?»
«Sì ho capito». Sente un tuffo al cuore, sentendosi inferiore alla sua avversaria senza un reale motivo. «Ha un bel fisico, ma mi sa che è tutto lì».
«Se per te è un bel fisico quello. A me sembra tutto pelle e ossa». Risucchia le guance e allunga il mento, strappandole una risata. «Ma tanto è la testa che conta».
«Ma di chi è che stai parlando?»
«Di quello che sta sempre davanti. Me lo sto lavorando da un po’, ma c’ha cervello solo per i libri. C’è da dargli una svegliata mi sa».
«Lui?»
«Perché, te a chi pensavi? Al mangiamerda?»
Lei alza un sopracciglio. «Chi sarebbe il mangiamerda?»
«Ma sì dai. Il biondo che gioca a basket. Gli hai visto le mani?»
Lei pensa a quelle mani, alla sensazione che le danno. «Sì. E allora?»
«Mani grosse, mangiamerda. Me lo diceva mio fratello da piccola». Fa il gesto di arraffare qualcosa dal culo e ficcarselo in bocca, lei ride anche se si sente offesa. Comincia a sentirsi la testa leggera e le rimane stampato sulla bocca un sorrisino idiota.
«Sarà, ma almeno non ha un palo nel culo. Il tuo bel cervellone sembra che guardi tutti dall’alto in basso».
«E fa bene». Si avvicina a lei con aria seria, come se dovesse confidarle un segreto. «Quello ha un cervello che è tre volte i nostri messi insieme, se si fa un po’ furbo lo vedi come diventa. Gli altri c’hanno solo i muscoli, e bisogna vedere fino a quando».
«Sì ma io penso anche al cazzo». Si mette una mano sulla bocca subito dopo averlo detto, poi inizia a ridere a più non posso, come se avesse detto la cosa più divertente del mondo. Ride anche la ragazza nuova, con meno trasporto però.
«Il cazzo è sopravvalutato. Fra un po’ non ci servirà più per riprodurci e allora inizieremo a farne a meno».
«Parla per te». Lei chiude gli occhi e fa un paio di respiri profondi, una lacrima le scende lungo la guancia. Si sente oscillare mentre il mondo è solo buio. «Mi sa che sono un po’ fatta».
«Sarà la circolazione». Si sposta con lentezza, lasciandole spazio sul letto. «Mettiti qua, ti ficco un cuscino sotto i piedi e vedrai che ti riprendi subito».
Lei si sdraia nel poco spazio rimasto sul materasso, chiudendo gli occhi. Il mondo continua a vorticare, il cervello manda segnali confusi di luci, acciaio, nuvole, le immagini della giornata mescolate alla rinfusa.
«Mi sa che non sei mica abituata a fumare te, eh?» Sente la mano della ragazza nuova che le sfiora la guancia, un contatto freddo che le provoca un brivido. Come quando si è offerta volontaria a scuola, come quando vede le mani del biondo mangiamerda, eppure diverso. Le fa tornare in mente l’immagine dell’insegna, giù al negozio abbandonato, tutti quei cavi e quei neon spenti che normalmente sono nascosti alla vista.
«M’è venuta un’idea cretina».
«Spara». La ragazza nuova continua ad accarezzarle la guancia, quando apre gli occhi i loro volti sono vicini. Se si alzasse anche di poco potrebbero toccarsi, ma non si fida a muoversi e forse nemmeno ci riuscirebbe.
«Ci pensi se sotto… Sotto la pelle, fossimo come le macchine? Con tutti dei cavi, dei neon, e roba simile?» Fa una risatina, poi agita la mano fra i loro volti come a cancellare quanto appena detto. «Oddio mi sa che sono proprio fatta».
La ragazza nuova la guarda, sorride con aria dolce. «Posso confidarti un segreto?»
«Certo». Arrossisce nel dirle quella parola, senza un perché, sente il volto avvampare ancora di più mentre l’altra annulla lo spazio fra i loro volti, quasi sfiora le sue labbra prima di avvicinarsi all’orecchio e sussurrarle qualcosa.
«Noi siamo già così. Presto saremo tutti così».


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