di Agata Spinelli
Copertina di Alessandra Procaccio – In rovina (matrice di zinco – tecnica mista)
La conobbi una notte di San Silvestro allo Schwuz, che ero a Berlino da meno di tre mesi, e lei esordì dicendomi che andava a prostituirsi ai tavoli assieme a mio fratello; lo teneva sottobraccio, emanava aliti sulfurei e odori di fegato ingrossato e bile densa, quando mi sputò anche un po’ sul viso a dire il vero, pur di far esplodere la sua risata come fa sempre, tra i denti a tricheco larghi e tendenti al giallognolo. Poi mi ricordo che quella sera in particolare aveva gli occhi imbevuti di canne e md per l’ultimo dell’anno, sembrava avesse grinfie al posto delle mani, perché quello era il periodo in cui si faceva la french a punta nera glitterata, e con una zampa stringeva il polso di Piero – mio fratello appunto – mentre con l’altra innalzava a trofeo la dodicesima birra o giù di lì. La lasciò sul tavolino accanto a noi per un attimo e mi spalancò il palmo a pochi centimetri dal viso, perché voleva che le dessi il cinque. Dessi il cinque. Ma da quale pianeta era arrivata?
«Hey Leute, wo sind wir gelandet hier?1», ripeteva lei pure.
Fui colta da imbarazzo, risposi al suo gesto come un automa, impacciata, robotica, e lei subito dopo riagguantò il suo calice di birra, versandone almeno mezza per terra o addosso a qualcuno, e svanì tra il resto dei baccanti, trascinandosi Piero. Piero era entusiasta, era arrivato quel giorno stesso, mi disse che gli sembrava uscita da un romanzo di Bukowski e per questo già la amava; io gli dissi che non doveva fare sesso con la prima che gli capitava, che poteva avere come minimo l’epatite, non c’era fretta e lui a quel punto mi guardò facendomi segno con la mano che sembravo pazza, mentre si lasciava trascinare in pista dalla Lady Macbeth di Mehringdamm, versione cougar.
Ero molto in ansia, in verità per me stessa, perché Francesco mi aveva da poco mandato un messaggio: diceva che non mi avrebbe raggiunta, che sarebbe rimasto a festeggiare altrove, ma senza specificare dove. Volevo uscire da quel posto, ma fuori iniziavano già a incendiare le strade. Ero in gabbia: mentre fingevo di tenerli sott’occhio, venni a scoprire che era austriaca, di un paesino vicino Graz, che non lavorava da anni e che era stata arrestata qualche tempo prima per aver tentato di picchiare un poliziotto durante un’operazione di sgombero a Mitte.
Quanto sudiciume ci sarà sui marciapiedi di Friedrichshain? La scorsa settimana ho chiesto a Laura di accompagnarmi nella mia ex WG: dovevo andare a raccogliere le mie cose e soprattutto dovevo restituire una volta per tutte le chiavi. Perché nessuno mi richiama per affittarmi una stanza? Finirò sotto i ponti o a raccogliere bottiglie del vuoto a rendere nella metropolitana. Avevo un sacco di roba da riprendermi e non volevo essere da sola dinanzi a quel carico di ricordi e di sporcizia, così ho scoperto che lui invece ha già un’altra coinquilina. Non sono male a suonare la chitarra, sono pulita io, parlo pure tre lingue, sto imparando anche il tedesco, non basta questo a farsi affittare una stanza? Neanche un mese e sulla poltrona vintage anni ‘70 in velluto verde-seppia, che era stata raccattata in quanto Zu-Verschenken dall’atrio di un condominio sulla Boxhagenerstraße per essere ufficialmente regalata a me, neanche un mese dunque e sulla poltrona facevano già bella mostra di sé tanga sconosciuti di Primark e leggings a stampe fluo di Tally Weijl. E subito mi son dimenticata del motivo per cui ero lì. Devo smettere di dire che sono italiana, ci considerano un po’ rompicoglioni. Siamo troppo konservativ, dicono. O forse primitiv, non so. Non riuscivo più a identificare gli oggetti di mia proprietà. Incontravo con gli occhi in un malefico, sadico loop o gioco di attrazione, solo tutto quello che non era mio, che non avevo mai visto prima: ombretti, deo-bio, la crema vegan per le mani, lo shampo senza parabeni. Un caricatore per I-Phone, cicche col rossetto e riviste d’arti visive in lingua inglese. Io trovo molto peggio i francesi. Ma c’è minore distanza culturale per loro, non sono angosciati ad esempio dall’assenza del bidet. Chi era questa puttana? E come si lavava? Magari era pure una di quelle che non si depilano, teneva persino la coppetta mestruale sul tavolino, raccapricciante come una dentiera, abbandonata alle intemperie. Io non riuscivo a toccar nulla. Io non so perché a vivere qui sono diventata peggio di mia madre.
È la ex-moglie di Tommy. Sono stati sposati per qualche mese molti anni fa. Si sono conosciuti una mattina risvegliandosi per caso nudi nello stesso letto dopo una di quelle notti in stile Berlino anni ‘90 a Schöneberg, quando il Kit-Kat era ancora il Kit-Kat; l’ho saputo da Riccardo, che lo ha saputo da Silvano, che lo ha saputo da David. Lei non si ricorda niente e non sa che noi sappiamo. Di solito, alla terza o quarta birra, intervallate da un paio di soft-drink alla vodka, Silvano comincia a farle delle domande per capire a che livello è la concentrazione alcolica nel sangue. All’inizio fa domane generiche e poi si fissa su di una che ripeterà di continuo durante la serata per mostrarci di ora in ora come i cocktails cambiano la percezione della realtà. Dedichiamo da tempo le serate al bar di Silvano a questo tipo di studi. Commentiamo gli stereotipi di questa città che lei incarna perfettamente: immigrata pre-1989, affetta da sindrome di Peter-Pan Bohemienne, o Autoparking eterno come lo definisce David; irriducibile sussidiata statale, in un difficile rapporto con l’igiene personale, vedi i denti. Domenica per un paio d’ore millantava di volersi proporre come bar-keeper al locale di fronte. E poi ripeteva: «You only need to shake, so easy. There’s nothing more to do. The whole day, just shaking and shaking and so on, you know. I like it. Or depends what you shake, come on…»
Poi la musica è sempre alta e non siamo mai centopercento sicuri di aver capito bene cosa intende dire: «Hey guys, don’t look at me like that. I’m still fuckable. Trust me!»
Che angoscia che ho sentito a vedere come il mio spazio fosse già stato riempito e colmato, che non lasciavo nessun vuoto, nessun rimpianto, che ero morta sul serio. Anzi, che non ero mai esistita.
Fa caldo a Berlino in queste ultime settimane, si sfiorano a tratti i 34 gradi, ho persino avuto un’allucinazione e mi sembrava di vedere una lucertola sui binari della metro. Per cui non si può certo stare con le finestre chiuse! In quella stanza bisognava pur far cambiare un po’ l’aria, di modo che la nuova coppia di coinquilini, di sera al rientro, avrebbe avuto ossigeno migliore per nutrire i nuovi amplessi. Un’italiana trova casa solo se si scopa il fidanzato di un’altra? Ho aperto le tende e persino nelle tende abitava un odore nuovo che non aveva più nulla di me. Occupazione di cazzo privato. Furto. Ho aperto la finestra e ridendo come un’ebete, di un sorriso tra il fatuo e il maligno, ho lanciato fuori tutte le cose che mi erano sconosciute: le sue mutande innanzitutto, le sue magliette, quella cazzo di moleskine con l’elastico arancione e pure la coppetta, e qualcuno sotto ha fischiato. Poi un registratore vocale a cassette, che si è rotto senza ferire nessuno, persino le lenzuola, i trucchi, una scatola di biscotti, e la gente incuriosita si radunava sotto la mia furia; un paio di ballerine di tela gialle e Laura, seduta per terra, era incredula, basita, mentre io ormai stavo su un altro pianeta. Ero un istante che non passava più, ferma, e tutto mi ruotava intorno luminoso come in un bellissimo open air con la techno lungo la Sprea.
Ieri Silvano le ha chiesto quanti anni avesse suo figlio. Alle nove e un quarto ha risposto che come Piero ha 20 anni. Alle dieci, alla stessa domanda, con la stessa sicurezza di un’ora prima, ci ha detto che suo figlio ha 21 anni. Alle undici e un quarto, con voce un po’ tremante e cercando qualcuno con cui battere il cinque, suo figlio era già diventato un ventitreenne. (Vite che scorrono altrove alla velocità della luce). A mezzanotte, al rimbombo di HOW OLD IS YOUR SON, con un sorriso tra il mistico e l’orgiastico, si è alzata senza risponderci, lasciando il nostro tavolo per dirigersi verso il bagno, incerta sulle gambe, come una miracolata o come Gesù Cristo che sta scoprendo di camminare sulle acque, spalancando le braccia per trovare l’equilibrio, sbattendo tra le sedie, e giunta alla porta della toilette ha battuto il cinque proprio contro la porta senza riuscire ad aprirla, per poi accasciarsi inginocchiandosi e rimettendo al mondo o al pavimento tutti i suoi debiti, fino ad arrendersi in una pozza di liquidi gastrici, amen. Abbiamo sentito Silvano bestemmiare. Lei si è voltata verso di me, intontita, senza più sorridere e mi chiamava: «Sky…»
Mi sentivo meglio? Certo che mi sentivo meglio, con quel po’ di vento che entrava, con la finestra aperta e con la luce del sole che definiva la mia figura: nera, a braccia spalancate, incorniciata di blu e di oro, mi stagliavo contro la Karl-Marx-Allee, tradita e offesa e Laura ha pensato bene di chiedermi a che cosa servisse, se mi faceva sentire più sollevata. E le ho risposto di sì. Mi ha lasciato qualche minuto, perché godessi appieno di quell’orgasmo di rabbia, del mio sputo di veleno e poi mi ha chiesto se non fosse giusto scendere giù e andare a recuperare tutti gli oggetti lanciati per riportarli sopra e, ovviamente, ho fatto anche quello: sono scesa, perché c’è redenzione in me e perdono, anche pentimento, e poi son risalita, perché non sono così cattiva, così vendicativa, ma le mutande gliele ho strofinate un bel po’ sul marciapiede, su quella pozza di sporco e pisciume, magari a presagire la minaccia di una qualche possibile infezione anale. Poi sotto la guida della mia amica son riuscita a raccogliere anche quanto era mio e ciao, tchüss, auf wiedersehen. Anzi, auf nie wiedersehen…
Il bus ci ha trasportate dall’altro lato del fiume e dopo aver lasciato quei due sacchi e una scatola di roba nel corridoio di Laura e Silvano siamo tornate al bar. E lei era già lì. Si era presa una Warsteiner in bottiglia per mantenersi leggera, ci ha salutate, ci siamo sedute, ci ha dato il cinque, abbiamo ricambiato il cinque, poi si è accorta che io ero triste e ci ha chiesto cosa fosse successo. E Laura prima non voleva rispondere, poi lei ha insistito e ha continuato a insistere, così le ha raccontato che io e Francesco ci siamo lasciati da circa un mese, che stavamo assieme da sette anni e che vivevamo anche insieme, però il contratto della casa ce l’aveva lui, così quando abbiamo litigato e io ho deciso di lasciarlo, sapevo anche che toccava a me lasciare l’appartamento. E lei annuiva e beveva. Che me ne sono andata di colpo, che non avevo avuto il tempo di portarmi via tutte le mie cose, che dovevo andarle a riprendere, che ci siamo andate insieme e che quando siamo arrivate lì c’erano indubbie tracce di una nuova presenza femminile nell’abitazione. E lei annuiva e beveva. Che io disperata ho urlato, che sono scoppiata in una crisi di pianto e che per i nervi ho gettato via dalla finestra tutte le cose di lei, e i vestiti, i cosmetici, ma che poi finito di piangere sono scesa giù a riprenderli. E lei annuiva e beveva. Che poi abbiamo preso le mie di cose, le abbiamo sistemate nelle buste, siamo uscite, ho lasciato le chiavi nella cassetta della posta e siamo tornate al bar. E lei annuiva e mi fissava.
Io non reagivo, non parlavo, ma la guardavo: ero assorta, immobile, assuefatta o anestetizzata dalla sorpresa. Lei mi ha osservata a lungo, senza dire una parola, oltre il vetro della bottiglia, ci scrutavamo e credevo potesse fingere comprensione o silenzio, invece ad un certo punto è esplosa:
«Hey girls, you had such a wonderful day, full of emotions. That’s gorgeous. I just spent my afternoon look at TV, getting bored and bored, listening to nonsense, while your life is so cool, so amazing. I love you. I love you so much. What’s your name?»
Was? Che ha detto? Come ti chiami. E mi porgeva la mano, questa volta come in una presentazione.
«I’m Susanne.»
Mi ha svegliata. Sono tornata alla realtà, abbandonando i miei incubi. Dopo sette mesi non aveva ancora capito il mio nome. Dopo sette anni che stavamo insieme non avevo capito che aveva un’altra. Le ho stretto la mano sudaticcia, molliccia.
«I’m Azzurra.»
Riccardo dice che è tutto normale: sono frequentazioni da bar. Lui con certa gente si incontra tutte le sere da anni negli stessi locali e ci parla e ci scherza, ma non sa mica come si chiamano. Io con Francesco cagavo e pisciavo senza vergogna, mentre lui con me si docciava e sbarbava anche senza vergogna, mentre io mi truccavo, però non c’era bisogno di dirmi che si stava innamorando di un’altra, è tutto talmente normale, pare. Riccardo aggiunge inoltre che tutto questo cagare insieme e mangiare nello stesso piatto allenta la tensione erotica. È tutto ok, tutto sotto controllo: io ho un lavoro, faccio un sacco di mance, ho la Krankenkasse, però mi devo anmeldare da qualche altra parte, quindi perché cazzo nessuno risponde per darmi una stanza? Nemmeno puzza troppo la mia merda, sul serio, sono vegetariana.
«Atzura? Like Atzuro…. Atzuro la la la la…»
Oh my God.
«Was heißt das? What does it mean?»
«What?»
«Your name, the song?»
«Sky Blue.»
«Sky Blue? Really. Oh beautiful… Sky blue, like the sky. Oh you are my sky…»
E si è spalmata contro di me abbracciandomi, chiamando il cameriere alle mie spalle, ordinandosi un white russian. Se il dolore non mi avesse stordita l’avrei massacrata di botte, l’avrei impalata, martire sullo steccato attorno all’albero di fronte, ma ero sedata ed ero persino diventata il suo cielo, un’unica metà del cielo, cielo solo mio. O solo suo. Un altro cielo parcheggiato sopra Berlino.
Ieri sera, dopo essersi imbrattata del suo stesso vomito come una bambina, l’abbiamo trascinata a casa. Classica Einzimmerwohnung, Altbau, soppalcabile ma in questo caso non soppalcata. Un rettangolo di territorio senza cambi di traiettoria, noioso come una cella. Lei dorme sul divano, e nonostante questo biascicava che se voglio posso andare a vivere con lei, che mi subaffitta l’appartamento, che ha un materassino da campeggio, poi con il tempo possiamo trovare un altro divano più comodo.
«Don’t worry, Sky… kein Panik. Everything will be alright. Look at me.»
E sorrideva. Non riusciva a sollevare il polso. David ha aperto la finestra, per lasciarci respirare; sulla Simon-Dach-Straße stava per liberarsi il temporale. Ho avuto paura per un attimo che possa succedere anche a me, tanto lo so che finirò a vivere qui con lei.
Non so dove andare e così è vivere nell’occhio del ciclone: qui tutto sembra lentissimo, da qui tutto si irradia. La vita nasce, vibra e si propaga altrove. La violenza implode, ancora sottace, poi fugge e raggiunge l’esplosione a molti chilometri da qui. Come il tuono, la distanza tra la luce e quello che sentiamo. Sprecarsi languidi e consumare il meno possibile, fare finta di essere fuori dal tempo il più possibile. No panic.
Così davvero in certi momenti mi chiedo, seriously io che cazzo sono venuta a fare a Berlino?
1Hey gente, dove siamo atterrati qui?
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Splendido e amaro quadro di una precarietà e della ricerca di un senso esistenziale. Efficace la contaminazione di più lingue e l’uso di riferimenti locali. Bello bello bello. Anche se non si è mai stati a Berlino e poco si conosce il tedesco cattura e immerge in una atmosfera locale e generazionale.