di Greta Colombani
Copertina di Julio Armenante
Nelle notti d’inverno, aguzze e traforate di luci, Tori si sentiva viva come non mai.
Dai vetri appannati dei pub le insegne al neon invitavano a entrare e tutt’intorno si poteva quasi udire il lavorio della brina sul nascere. Anche contro la sua pelle il vapore cercava di farsi cristallo, minute scaglie di trasparenza da cui lasciarsi coprire ma non nascondere. A Tori piacevano le cose che diventavano altro, ciò che cambiava e non finiva mai. L’esistenza che quieta, invisibile, attraversava multiforme la notte.
Nei vicoli vuoti, sotto fili di stelle elettriche, camminava piano. Nessuno la sentiva passare. Nessuno sapeva che lei era lì, sotto le loro finestre, a qualche metro dai loro sogni.
D’altro canto, nemmeno Tori pensava a loro. Avanzava nel silenzio immacolato di dicembre e avrebbe potuto mettersi a danzare immaginandosi l’unica persona sveglia sulla faccia della terra. Infinite volte aveva vagato per quelle viuzze umide, immune alla noia. Aveva sentito tutte quelle vite palpitare vulnerabili intorno a lei, addormentate, e non gliene era importato nulla, perché l’alba era lontana e il freddo, senza odore, le dava alla testa.
Ora, però, l’aria s’era d’un tratto guastata. Il tanfo dolciastro, non del fiato né del sudore ma di qualcosa di più intimo e impalpabile, le arrivò prima dell’eco traballante dei passi. Per ultimo emerse l’uomo.
Girò l’angolo reggendosi al muro, ma non era così ubriaco da averne davvero bisogno. Il suo era un gesto pigro, come pigro era il suo sguardo quando scivolò sulla sagoma di Tori. Lei aveva smesso di respirare, ma non si era fermata. Si strinse addosso la giacca, d’istinto, il pelo sintetico che le graffiava il collo. Ogni sensazione era amplificata e opprimente mentre lottava per non farsi soffocare da quella puzza di squallore ormai penetratale nei polmoni inerti.
L’uomo era abbastanza vicino da fissarla adesso. Emise un fischio, anch’esso pigro, strascicato, e forse sarebbe potuta finire lì se solo qualcosa non avesse catturato la sua attenzione.
«Ehi, tu.»
Lei fece finta di niente, ma lui le si parò davanti. Non barcollava più.
«Dove credi di andare?»
Sebbene sentisse la saliva crescerle sulla lingua, Tori si limitò ad affondare le mani nelle tasche molli della giacca, incurante.
«Chi pensi di fregare?»
L’uomo sputò per terra. A pochi centimetri gli anfibi di Tori non si mossero.
«Quelli come voi… ve ne andate in giro così, come niente fosse.» I suoi occhi oscillavano su di lei, sul suo viso, sul suo corpo, su cose di lei che Tori cercava di indovinare, rincorrendo il suo ribrezzo. «Ma io non ci casco.»
A così poca distanza il suo cuore era frastornante.
«Io so cosa sei.»
Le pupille di Tori erano immobili e ingorde, troppo grandi per la penombra che li avvolgeva.
«Scherzo della natura.»
Con un movimento improvviso l’uomo fracassò la bottiglia che aveva in mano contro il muro, ma lei non sussultò.
«Sotto tutto quel trucco, sotto la gonna e le tette finte…» Il vetro frastagliato luccicava nei riflessi multicolori delle luci sopra le loro teste. «Rimani sempre solo uno…»
Qualcosa si sciolse nel corpo teso di Tori. «Ah, quello.» Scoppiò a ridere. «Non quello, dai.»
L’uomo tentennò, colto alla sprovvista, e in un istante il moncone di bottiglia era in mille pezzi sul selciato, e i denti di Tori affondati nella sua carne che già appassiva.
Quando la vecchia la trovò, Tori era striata di sangue, rivoli rossi nel blu della notte. Accovacciata a terra, teneva il viso distolto dall’uomo, gli occhi serrati.
«Che c’è?», domandò, senza nemmeno socchiudere le palpebre.
La vecchia si avvicinò timidamente, fermandosi a qualche passo da lei, in attesa.
«Da quanto tempo», disse infine, quando era chiaro che Tori non avrebbe preso ulteriore atto della sua presenza. «Da quanto tempo, madre.»
«Che c’è?», ripeté lei, la voce strozzata da un conato che le fece torcere tutto il corpo. Nonostante i suoi sforzi di trattenersi, della bava traslucida di sangue le traboccò dalle labbra lungo il mento.
«Avrei bisogno del tuo aiuto, madre.»
Finalmente Tori alzò il volto verso di lei, la sua pelle scura innaturalmente lustra e quasi iridescente sotto l’occhio argenteo della luna. Sollevò il braccio moscio dell’uomo, addentò il polso e riprese a succhiare. Un gemito si levò dal corpo riverso ai suoi piedi.
«È ancora vivo.»
«Purtroppo», mugugnò Tori senza smettere, deglutendo rumorosamente, a fatica, piccoli sorsi.
Lillian si sedette di fronte a lei con un movimento più facile e fluido di quanto le sue ossa logore avrebbero dovuto permetterle. «Non lo trasformi?»
«Non se lo merita.» Tori dovette fermarsi di nuovo, la faccia contratta dalla nausea, fili densi di bava che le penzolavano dalla bocca.
«Ci penso io, madre.» Lillian tese la mano, grinzosa ma senza tremori. Tori la scrutò guardinga. «Ti aiuto se tu mi aiuti.»
La ragazza annuì appena e passò il braccio alla vecchia, lasciandosi cadere contro il muro con un fremito di spossatezza e sollievo. Non appena il sangue pulsante le scivolò sulla lingua, Lillian capì il motivo della sua ripugnanza. Il sapore dell’uomo era meschino quanto il suo mondo interiore, i suoi ultimi e più brucianti pensieri portatori di brutalità. Più trangugiava la sua vita e più si faceva chiara dentro di sé l’immagine che si era fatto di Tori nei minuti prima dell’incoscienza, i particolari che aveva gonfiato e distorto, il suo disgusto, tutti i modi in cui si era rifiutato di vederla. Persino Lillian dovette fare una pausa.
«Grazie.» Tori la fissava, giocherellando con il suo girocollo di plastica verde. «Come vuoi che ti ricambi?»
Lillian esitò, poi infilò una mano nella borsetta e tirò fuori un cellulare.
«Ti prego, non mi dire che ti sei presa un telefono.» Il silenzio della vecchia era inequivocabile. «Ti ho detto che è troppo rischioso. Manco sai come usarlo. E poi a cosa ti serve?»
Lillian si rigirò l’apparecchio tra le dita un po’ goffe. «Volevo solo vedere cosa stessero facendo i miei…»
«Quelli che si sono dimenticati di te quando eri ancora viva? Quelli che probabilmente non si sono neanche accorti che non lo sei più?» Tori aveva fuoco nero negli occhi e una voce sibilante, affilata. «Quelli che ti hanno sbattuto per strada senza pensarci due…»
«Lo so, lo so», la interruppe Lillian, sbrigativa e mesta. «Ma non è per questo che sono venuta da te, madre.»
Tori fece un sospiro, sforzandosi di lasciar andare la rabbia. «Per cosa allora?»
La vecchia le porse il cellulare. Sullo schermo c’era un’email che Tori si mise a leggere ad alta voce: «Mi chiamo Ramesh Kumar, ho otto anni e sono morto.» La ragazza lanciò un’occhiata perplessa a Lillian, che se ne stava seduta davanti a lei, le gambe sottili strette al petto, lo sguardo inquieto e inafferrabile. Nel resto dell’email, Ramesh raccontava molto brevemente la sua storia, come era stato portato a Londra dall’India nel 1839, venduto, abusato e infine ucciso. «Ora sono uno spettro, ho occhi vuoti e la faccia tutta sporca di sangue. Se non mandi questo messaggio ad almeno tredici persone…»
Tori si fermò, guardò Lillian contorcersi dall’ansia e scoppiò a ridere.
«Vai avanti», la incalzò l’altra e lei obbedì:
«A mezzanotte verrò da te e ti strapperò l’anima.» Sotto a un paio di spazi vuoti il messaggio si concludeva con un ultimo avvertimento: «Stanotte sarà l’ultima. Se queste parole saranno lette da tre persone, ti uccido e basta; sette, ne esci con una bruttissima ferita; dieci, ti becchi lo spavento più grande della tua vita; tredici o più, la scampi e avrai tante buone…» Ma a questo punto Tori non ce la fece più e le ultime parole si persero nella sua risata gorgogliante.
Lillian era sbigottita, quasi allarmata. Dal corpo esanime tra di loro emerse un grugnito, ma nessuna delle due ci fece caso.
«Non pensavo queste catene esistessero ancora», ansimò infine Tori. «Ti rendi conto che non è vero, no? Che è roba inventata, forse anche un po’ razzista, col nome più genericamente indiano che hanno trovato.» Di nuovo un eloquente silenzio. «Te l’ho detto che non sai come funzionano queste cose.»
«Ma quindi cosa devo fare?»
«Niente, è tutto finto.»
«E tu come fai a saperlo?»
Tori inarcò un sopracciglio. «Ma l’hai letto? Un fantasma che manda email?»
«Se è per questo, io sono un vampiro con un telefono.»
«Un fantasma che negozia le sue maledizioni? Se lo mandi a otto persone invece di tredici, ti rompo solo una gamba, guarda che affare?»
Lillian abbassò lo sguardo. Era tutta bianca, i capelli vaporosi, la pelle ruvida, gli occhi slavati. A differenza di Tori, si era subito asciugata la bocca con un tovagliolo, anch’esso stupidamente bianco, e ora le rimanevano soltanto le più fini venature di rosso tra le grinze delle labbra. Bofonchiò qualcosa, continuando a fissare i ciottoli lucidi e il suo riflesso a brandelli.
«Come?»
«Non posso rischiarla.»
«Cosa non puoi rischiare?»
«La mia anima.»
Tori sarebbe potuta riscoppiare a ridere, ma qualcosa nella curva delle spalle di Lillian la bloccò. «Comunque non darei per scontato che ne abbiamo una», replicò con leggerezza, tutta intenta a grattarsi via lo smalto nero dall’unghia del pollice.
La vecchia non disse nulla per qualche istante. Quando parlò, la sua voce era fioca ma ferma, stranamente priva di profondità. «Hai promesso.»
Tecnicamente no», ribatté Tori. «E poi non dici sul serio, dai. È una cosa talmente stupida.»
Lillian fece cenno col mento all’uomo a bocconi, le gambe un po’ troppo rigide, le dita accartocciate ad aggrapparsi al nulla. «Non è ancora morto», osservò con quello stesso tono esile e piatto, quasi stanco.
Il ricatto implicito nelle sue parole colse Tori di sorpresa. Non era da Lillian, sempre mite, sempre remissiva, anche solo insinuare qualcosa del genere, ma il modo in cui i suoi occhi evitavano di incrociare quelli della ragazza non lasciava dubbi sulla serietà delle sue intenzioni. Tori studiò le piccole lacerazioni nel polso e nel collo dell’uomo, le gocce di sangue che ne imperlavano i bordi, e subito il ricordo del suo sapore le stritolò lo stomaco, evocando l’immagine di quel ragazzo sotto travestimento che lei non era ma che l’uomo aveva imposto su di lei e tanto odiato. Non poteva sopportare di più, ma non poteva nemmeno permettergli una seconda, segreta, infinita vita.
«Va bene.» Riportò la sua attenzione sul cellulare e iniziò a digitare qualcosa. «È stupido ma molto semplice. Inoltriamo questa email a tredici indirizzi a caso ed è fatta.»
«No!» L’inconsueta foga di Lillian la spiazzò e sembrò spiazzare anche Lillian stessa, che aggiunse in modo più forzatamente composto: «Dobbiamo essere sicure che la leggano in tempo.»
«Non è così che funziona. E poi dice solo di mandarla.»
«No, dopo dice che deve essere letta.»
Tori alzò le mani e gli occhi al cielo. Sarebbe stata una notte molto lunga, persino per lei che non aveva mai fretta e sapeva aspettare. Già troppe cose erano andate storte. Se solo fosse stata davvero l’unica persona sveglia sulla faccia della terra, come aveva fantasticato di essere per un attimo di fragile gioia. Se solo avesse potuto avere la sua solitudine, il suo inverno inodore e cristallino, il suo caro buio che smussava i contorni e s’infilava a capofitto in ogni fessura, impaziente di perdersi.
«E va bene, allora facciamo così.» Tori ruotò verso di sé l’uomo, che nel frattempo aveva ripreso i sensi ma non le forze o la lucidità di fare alcunché. Gli fece un paio di domande per appurare che la capiva, o meglio darne prova a Lillian, e poi gli mise il telefono a pochi centimetri dalla faccia, mentre leggeva ad alta voce l’email. «Uno è andato.» Mollò di colpo la presa su di lui, che si rovesciò sulla schiena, gli occhi spauriti e immensi. «Ora fai la tua parte.»
Sui tetti ghiacciati la luna era vicina e abnorme, fin troppo lucente per i gusti di Tori.
Avanzavano svelte sopra la città sognante, senza paura di scivolare, senza esitazione, due sagome sfuggenti contro il cielo immobile. La vecchia teneva il passo, ma più per cieco riflesso del suo corpo. Non era abituata a questo genere di cose. Preferiva la vita a terra, tra le ombre e le persone ignare, al sicuro nella loro noncuranza.
Alla vista di una finestra fievolmente illuminata, Tori si fermò. All’interno un uomo e una donna stavano sotto le coperte fiorate di un grosso letto. Avevano entrambi un libro tra le mani, ma lui ogni tanto se lo lasciava scappare, la testa che cadeva a ciondoloni sul petto, e lei gli tirava una gomitata sorridendo. La stanza era soffusamente dorata dal bagliore delle lampade sui comodini e il rumore cadenzato delle pagine trapelava fino a Tori e Lillian, sedute sulle tegole gelide, assorte. Dalla finestra accanto s’intravedeva una luce più debole e fredda, quasi subacquea. Due bambine, anche loro a letto, si mostravano reciprocamente i cellulari, ridacchiando furtive sotto lo sguardo vacuo dei pupazzi.
Quando si voltò verso Tori per domandarle cosa ci facessero lì, Lillian fu sorpresa di trovarle gli occhi lucidi come i propri. «Quindi manca anche a te?»
La ragazza si riscosse con un brivido e la guardò confusa. «Cosa?»
Lillian indicò le scene di quotidianità a qualche metro da loro. «La vita.»
«La vita umana è così sopravvalutata.» Tori si stropicciò gli occhi, asciugandoli. «E così triste.»
Avviluppata nella sua nebbia di nostalgia e rimpianti, Lillian non poteva capire cosa gravasse sul cuore inerte di Tori, il modo in cui la profonda tristezza della vita umana la prendeva alla gola, ed era una fortuna che non avesse bisogno di respirare, altrimenti avrebbe boccheggiato. Si rintanò nella quiete della sua carne sempre uguale, sempre nuova, senza fine, e nel conforto di questa sua esistenza strana e innaturale, nell’esaltazione che le dava il suo essere qui e ora, dove solo gli incubi sapevano trovarla.
Nel frattempo le due finestre si erano fatte buie. Tori saltò sul davanzale della camera delle bambine. Reggendosi alla grondaia, avvicinò la bocca al vetro e vi fiatò contro. Sulla grande chiazza appannata si mise a scrivere qualcosa al contrario con l’unghia, poi bussò seccamente sull’altra anta e sparì. Svegliatesi di soprassalto, le bambine non ci misero molto a notare la scritta. Non gridarono, ma si strinsero istintivamente l’una all’altra.
«Perché l’hai fatto?» Sul tetto, fuori dalla loro visuale, Lillian la guardava di sbieco, tenendosi scrupolosamente lontana dal bordo.
Tori, invece, era seduta proprio là, le gambe a penzoloni sul vuoto. «Forse perché me l’hai chiesto?»
«Ma non a dei bambini!»
«Che differenza fa?», sbottò la ragazza, esasperata.
«Dovrebbe farla. Ma a te non importa niente, madre, di nessuno, né tantomeno delle conseguenze delle tue azioni.» Le ciglia di Lillian tremolavano, una vibrazione che sembrava nascere da qualcosa nel profondo di lei, qualcosa di inaspettato e virulento, a lungo covato. «Te ne vai in giro facendo quello che ti pare,» deglutì, «trasformando chi ti pare, e non ci pensi due volte.»
«Che c’entra questo adesso? E poi a cosa dovrei pensare?» Tori si girò verso di lei, inchiodandola coi suoi occhi di pece. «Allo squallore delle vostre vite? A come vi hanno scartati, gettati via, dimenticati? A quanto foste soli al mondo?»
«Perché ora non lo siamo? Soli?» Lillian teneva gli occhi bassi, ma quell’intimo tremore la scuoteva sempre di più. «Ci rendi come te e poi ci abbandoni. Ci getti via anche tu, madre.»
«Non sapevo fosse un crimine aspirare a una vita tutta mia», sibilò Tori a mezza voce.
«Sì, ma non ti degni nemmeno di chiederci se noi la vogliamo, questa sottospecie di vita.»
«Scusami se non ho chiesto il vostro consenso prima di darvi l’unica esistenza dignitosa che avreste mai avuto l’opportunità di avere.» Le voltò le spalle e le sue parole si fecero più pesanti. «Forse avrei dovuto aspettare che qualcuno ti lasciasse mezza morta su un marciapiede a contare gli ultimi battiti del tuo cuore.»
Tutt’un tratto quella cosa convulsa al centro di Lillian si placò. «Chi è stato, madre?»
«Un uomo, non so.» Tori fissava la casa addormentata di fronte a lei, la scritta ancora visibile ma non per molto. «Avrebbe potuto essere chiunque.»
Rimasero per qualche minuto in silenzio, Lillian a osservare la sua schiena dritta nell’appariscente giaccone bianco, Tori a ricordare. Il picchiettio della pioggia sull’asfalto, qualcuno che si allontanava di corsa, qualcun altro che si avvicinava con passi troppo silenziosi. Poi si alzò.
«Con questi tre direi che siamo a posto.» Si stiracchiò le braccia, aprendo le dita scarne come lo scheletro di un fiore. «La tua anima è salva e quanto a morire, sei già morta, quindi nessun pericolo.»
Con sua sorpresa, Lillian annuì senza protestare.
Tori amava la neve perché era l’unica cosa più fredda della sua pelle. Grossi fiocchi avevano iniziato a cadere, così lenti, quasi fossero grumi di niente, e subito avevano attecchito ai bordi delle strade, alle macchine parcheggiate, ai lampioni ricurvi e solitari. Nel parco che stavano attraversando, gli alberi erano già contornati di bianco, i rami non più nudi, e l’erba scricchiolava sotto i loro passi. Frammenti di acqua e ghiaccio le piovevano sul viso e lì restavano, senza sciogliersi. Mentre intorno i colori venivano risucchiati in un luccicante candore, Tori ripensava alle sue metamorfosi. Alla prima, nella pubertà, quando il suo corpo era diventato alieno in un modo che non le apparteneva, allo sgomento di quel cambiare sotterraneo fino a farsi, senza preavviso, irriconoscibile. Alla seconda, quando aveva cercato di riplasmarsi, alle iniezioni, alle scartoffie, all’euforia di vedere l’immagine nello specchio ricongiungersi a quella che si era sempre sognata. Alla terza, su un marciapiede sotto la pioggia vent’anni prima, quando il suo corpo era diventato alieno in un modo che l’aveva fatta sentire a casa. Quel corpo altro e perenne che ora si era messo a volteggiare sotto la neve, quasi a imitarne la danza ma più scompostamente, seguendo un ritmo diverso, tutto suo.
Lillian si era fermata a guardarla, non sorpresa da questo slancio, solo un po’ disorientata. Quando Tori le afferrò la mano per trascinarla con sé, si ritrasse atterrita, ma l’altra non demorse finché, forse per sfinimento o forse no, Lillian smise di opporre resistenza. La ragazza la tirò nel cerchio magico delle sue impronte, le fece fare un paio di giravolte impacciate, poi la lasciò andare. Anche se la vecchia, al confronto, sembrava muoversi appena, i suoi piedi scavavano timidi vortici, mentre le sue braccia pian piano si spalancavano, fiduciose e vuote. Ballavano, vicine ma senza toccarsi. E più ballavano, più Lillian vedeva nella ferocia di Tori tutto il fiammeggiante incanto della sua fierezza, più Tori scopriva nella ritrosia di Lillian la meraviglia della sua incrollabile gentilezza.
Ai rintocchi di un campanile non troppo lontano, Lillian s’immobilizzò di colpo. Li lasciò echeggiare tutti e dodici con impenetrabile pazienza e gli occhi chiusi. Quando tornò il silenzio, li riaprì, smarriti, e mormorò d’impulso: «Non è successo niente.»
«Cosa ti aspettavi?» Tori, che nel frattempo si era anche lei fermata, la osservava a metà tra il corrucciato e il divertito. «Te l’avevo detto che è tutto inventato, e che in ogni caso non saresti morta dato che tecnicamente lo sei già.»
Lillian abbozzò uno dei suoi sorrisi imbarazzati ed evasivi, ma Tori fece in tempo a vederlo, qualcosa di cocente che non era riuscita subito a soffocare: delusione.
Quella vista la scosse. Rimase a fissare Lillian, Lillian che lei aveva trovato dormire su una panchina con tutti i suoi averi in una borsa di plastica malconcia e giudicato meritevole di nuova vita, Lillian che ora desiderava un improbabile bambino fantasma indiano la facesse sparire.
Con un moto di tristezza e rassegnazione, Tori pensò che, nonostante tutto, ancora non poteva permettersi il lusso dell’egoismo.
Si buttò a terra, la schiena sulla neve pungente, e fece segno a Lillian di sdraiarsi accanto a lei. Per un po’ contemplarono il lento migrare delle nubi in silenzio, poi Tori parlò:
«Stasera completiamo le istruzioni di Ramesh. E non dirmi che è troppo tardi. Se era pronto a negoziare sulle punizioni, sono certa che sarà anche disposto a chiudere un occhio sulle tempistiche. Faremo così. Dopo il tramonto, prima che i negozi chiudano, andiamo al centro commerciale. Ti piacerà. Solo in questa stagione la nostra vita può sovrapporsi così al mondo diurno. Noi comunque non ci andiamo per piacere ma con una missione. Vicino alle scale mobili c’è un enorme dinosauro…»
«Cosa ci fa un dinosauro in un centro commerciale a Natale?»
«Non ne ho idea, bambina, ma è fuori luogo e maestoso. Mentre tu dai un’occhiata in giro, io salgo al piano superiore e appendo alla ringhiera un telo bianco con sopra, a grandi lettere rosse, il messaggio di Ramesh. Lo srotolo, senza farmi vedere, e tutti sotto si fermano a guardarlo, a leggerlo. Non sono dieci, né tredici, ma molti di più. Alcuni ridono, altri pensano qualcuno abbia fatto casino con le installazioni di Halloween, altri ancora sono più inquieti ma non vogliono darlo a vedere. Poi una goccia cade dalla bocca del dinosauro. È anch’essa rossa, viscosa, pesante. Alzano gli occhi e vedono un braccio tra le sue zanne. Cala il silenzio. Qualcuno si avvicina, tocca la macchia che si spande lenta sul pavimento e grida. È sangue vero. Il braccio è quello dell’uomo che mi hai aiutato a finire, ma questo probabilmente tu l’hai già indovinato. In un attimo tutto sprofonda in urla e panico.»
«E poi, madre?»
«Poi, in mezzo all’orrore, per te, solo per te, tante buone…»
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