di Edoardo Occhionero
Copertina: Ottavia Marchiori – Waiting in vain
“Su pei monti, su pei monti che noi saremo”
Sprizza l’aria nella carrozza centrale del treno dicendomi che è ancora mattina presto. Mi alzo per chiudere il finestrino, chiedo ai posti vicino se non c’è problema. L’aria stride, il rumore ricopre il paesaggio veloce che studio a malapena con gli occhi. Poi anche gli alberi delle cascine intorno si silenziano, la carreggiata dell’autostrada a fianco tirata come uno spago.
Una volta ho imparato questa parola in un corso di economia e politica agraria: “esternalità positiva”. Da allora tutti i campi che vedo dalle vetrate dei convogli ferroviari mi si fronteggiano con la loro esternalità positiva. Si riferisce cioè alla cura con cui i contadini dispongono le coltivazioni e pure i terreni lasciati a riposo con le infestazioni di erbe; dove è stata piantata una quercia indica che è avvenuto per un motivo di abbellimento della veduta circostante.
Anche il nonno ha piantato gli alberi nel giardino grande della casa. Ha detto di averli raccolti quando erano ancora arbusti nel bosco di fronte, dove passava la roggia ora diventata una gola rinsecchita. Ha aggiunto che si usava così, che doveva servire a dare un’aria bella alla casa. Ora si sono estesi in fusto e verzura, io quando li guardo penso alla cinquantina d’anni che trasmettono. Se sottraggo i miei avanza molto delle estati su cui non ho mai respirato, i mesi della crisi energetica, i giorni del muro di Berlino, il primo governo Berlusconi.
Il nonno ci ha lasciato come ci lasceranno questi alberi.
Sto seduto nel treno poche ore dopo il suo funerale. Faccio ritorno nella città dove ho l’università, studio per diventare veterinario. Mentre sono seduto mi viene in mente la canzone degli alpini che ascoltavamo insieme quando mi portava in giro in macchina. Spesso si fermava a fare benzina col cd acceso e venivo distratto in positivo dai loro vocalizzi. Allora risaliva coi leggeri grugniti che esprimono gli sforzi difficili, le mani intrise di gasolio e ripartivamo. In tante gite andavamo a comprare il mangime per le galline.
Scaricavamo i sacchi da venti chili nel pollaio. Ci arriva una strada in salita, il pollaio ha un cancello sul retro. Apertolo bisogna stare attenti che non escano, perciò io strappavo qualche lattuga selvatica da lanciare così si distraevano.
Le braccia del nonno legnamè si sono svuotate dei muscoli proprio come questo pollaio, ora che le galline sono state abbattute e i muri conservano solo i mattoni grigi e i mosaici abbozzati delle ragnatele.
«Portatemi a vedere le montagne, su allo Stelvio dove ho fatto il militare» ripeteva di continuo nei giorni prima che una tremenda polmonite lo sedasse per sempre, «se arriviamo su allo Stelvio poi possiamo scendere e andare verso Bolzano» e gesticolava con le mani mimando la serie di tornanti, le braccia si muovevano nell’aria come un’anguilla. Ha parlato anche di altre cose in quel periodo, spesso erano frasi sconnesse che confessavano a noi che lo circondavamo impietositi l’inevitabile deterioramento del suo giudizio. Esempio tra queste: «Quando torna la mamma? Mia mamma?» e io come potevo rispondergli col cuore saldo che la “mamma” era morta nel ’95 quando non ero ancora nato?
Sosta a Piacenza, poco dopo l’immagine violacea del Po che si trascina verso la sua foce. Rallento lo sguardo sul circondario industriale e sulla signora di fronte che apre un pacchetto monoporzione di biscotti.
«Che belle scarpe, sono nuove?» detto da lui con la luce nella bocca come la felicità mal repressa dei bambini. «No, sono dell’anno scorso». E il mio sorrisetto misero sbiadiva nel ricordo di quando mi chiedeva di portagli il calzascarpe.
Passo la tratta parzialmente interrata tra Anzola dell’Emilia fino a Bologna. Il treno indugia poco prima del capolinea anche se il mio sentimento è rimasto stanziato al feretro, al gruppo di persone che si disperdevano all’esterno della chiesa, e alla locuzione “raggiungere il cimitero con mezzi propri”.
Infraregionale per Ozzano. Venti minuti di altri appezzamenti coltivabili e infine arrivo. Mi preparo col borsone dei vestiti sulle spalle, tirando una boccata aspra abbandono il primo piede sulla banchina, raccolgo i miei brevi appunti dell’addio.