Testo: Barbara Guazzini
Copertina: Julio Armenante
Stamattina babbo mi ha svegliata all’ora delle galline, anche se è festa rossa. Ieri sera, a tavola, diceva a mamma che non se ne parlava nemmeno di portarmi con lui nel bosco, ma io li ho messi in croce tutto il tempo e alla fine lei ha sbuffato e ha detto sì. Si sono scambiati un’occhiata di volata. Lui, con la faccia da no secco, voleva protestare, ma lei con un’alzata di spalle ha chiuso il discorso.
Quando ho aperto gli occhi la camera sembrava il fondo cieco di una conca dentro un monte.
Sveglia Emma, è l’ora, bisogna andare, ha detto babbo. E poi ha continuato Ssshhh, fa’ piano sennò mamma si sveglia e dai berci incrina il mondo.
Allora non ho neanche acceso la luce e mi sono mossa invisibile verso il gabinetto, con le braccia stese in avanti a mosca cieca. Un po’ di volte le dita si sono impuntate sulla faccia ruvida del muro, ma è bastato spostarmi di un pelo più a sinistra per infilare il varco dell’uscio. Il vantaggio di avere il nero intorno è che nessuno ti vede e tu puoi far finta di essere andato via, anche se ci sei; lo svantaggio è che anche tu non vedi nessuno, col risultato che al buio siamo tutti orbi.
Babbo è andato nel cucinotto. Il neon si è acceso con dei singhiozzi di luce, fino a che la stanza è ingiallita e i mobili sono diventati figure di geometria che si studiano alle scuole elementari. Dal gabinetto, riuscivo a vedere il frigorifero bianco, un moncone di tavolo, una sedia di profilo e la finestra con sotto le ciotole di Diana.
Ho sentito babbo versare il tè nel thermos, che di solito porta al lavoro, e poi tagliare le fette di pane dal filo e metterci in mezzo il salame o forse la mortadella. I grasselli mi fanno dare colpi di stomaco, così anche a ricreazione devo aprire il panino e levarli uno a uno. Il ripieno diventa una sfoglia di gruviera, ma almeno le budella non mi risalgono a bussare in gola. Ho sentito il ticchettio delle unghie di Diana sulle mattonelle del pavimento e poi rumore di acqua smossa e succhiata. Babbo ha aperto il frigo e ha versato nella scodella di Diana gli avanzi – la pasta col burro e la carne in scatola che avevo lasciato ieri sera nel piatto. Lei si è accoccolata per mangiare, io vedevo solo il suo didietro e la coda che prima si è mossa di contentezza e poi è stata.
La Centoventisette verde oliva è parcheggiata sotto casa, all’incrocio fra Via Fratelli Cervi e Via Ugo Bassi. Babbo fa entrare Diana nel portabagagli, a cui ha tolto il pannello di plastica e stoffa nera da quando lei è arrivata a casa nostra. Lei inizia a mugolare perché vorrebbe stare sui sedili di dietro. Quando babbo glielo permette, le lascia aperto uno spiraglio del finestrino e lei ci infila il naso e respira il fuori. In estate il vetro è tutto abbassato e lei chiude gli occhi per proteggerli dall’aria che preme, e le orecchie si stirano all’indietro e ballano, e io rido.
La macchina non si accende al primo giro di chiave – è la batteria che dà i colpi di tosse -, i miei dicono che deve arrivare almeno fino al Natale prossimo, ma secondo me ci molla a piedi prima. Io lo spero. Quando mi accompagnano a scuola le sbollature della vernice sul cofano mi fanno sentire come se avessi la pelle scorticata, così chiedo di lasciarmi un po’ prima, ché ormai sono in seconda media. Allora babbo mette la freccia e accosta alla fermata del pullman – che nemmeno si potrebbe -, allunga il braccio per aprire la portiera dalla mia parte, e così mi porto a scuola il suo odore. Poi mi dà un bacio dei suoi, con un graffio, per via della barba matta. E dai, gli dico, mentre controllo che non stia passando qualche compagno di scuola.
Appena saliti in macchina, babbo mette una cassetta nel mangianastri. A lui piacciono le canzoni della festa del primo maggio unitario, che organizzano i sindacati al Prato della Contessa. A me danno il magone in gola e il vuoto nello stomaco di quando si diventa tristi – che sei indeciso tra lo sprofondare nel sonno o il metterti a piangere per bene. Spero ogni volta che il nastro si annodi, si allunghi fuori dalle rotelle e rifiuti di rientrarci. Una volta è anche successo. Cerca la penna nel cruscotto, mi ha detto lui. Non c’è, ho risposto, facendo finta di cercare per davvero. Guarda bene, ha insistito. Ho affondato la mano e ho sentito la bacchetta a prisma. Era senza il tappo e aveva la punta sporca di inchiostro secco. Babbo ha premuto il tasto e la musicassetta è spuntata fuori dal cruscotto come una linguaccia. L’ho tirata in avanti e, non so che mi è preso, ho stretto il nastro tra pollice e indice, poi l’ho avvolto tra le altre dita ed è diventato sottile che sembrava potesse tagliarmi. Che ti salta in mente, mi ha detto lui. Me l’ha levata di mano e mi ha proibito di toccarle ancora. Il fatto è che vorrei per miracolo trovare nel cruscotto una musicassetta con le sigle dei cartoni, o anche le canzoni di Renato Zero, quelle che canta con le piume di struzzo al collo, invece niente.
Babbo mette il lato b della cassetta e fa scorrere veloce il nastro in avanti, poi un pochino indietro, perché non riesce ad azzeccare subito il punto in cui inizia la canzone che sta cercando. Tanto io lo so già, qual è. Racconta di un padre che si vergogna di essere stato licenziato, sarà la centesima volta che la ascoltiamo. Lui la canta sempre concentrato, e mi pare che la voce si stringa come in una pressa quando il testo dice ‘povera gente’, ‘operaio’ e ‘padrone’. Io non avevo capito perché, fino a che, l’anno scorso, mamma mi ha portata dal dentista a chiedere quanto sarebbe costato l’apparecchio per raddrizzarmi i denti di sotto ma poi non l’abbiamo comprato. Due mesi di paga, ti rendi conto? Alla povera gente dovrebbe passarlo la mutua!, ho sentito che diceva a mamma. Poi è venuto in camera mia, mi ha detto che gli dispiaceva e mi ha chiesto anche scusa con gli occhi lustri, ma lo so che dovrei chiedergliela io, scusa, che mi sono fatta crescere i denti storti. Comunque, ho pensato che essere la povera gente non è poi così male, se puoi evitare di farti mettere quei ferri in bocca, che quando ridi sembra che hai messo il sorriso in gabbia. La mia compagna di banco dice che da grande avrò i denti brutti e lei no. Io le rispondo che non so neanche se ci diventerò, grande, e a quel punto lei mi pianta in asso, come se avessi detto chissà che. Intanto, a me i denti storti fanno compagnia, quando non so che fare ripasso con la punta della lingua tutti gli scalini tra canini, incisivi e così via, e ormai ce li ho a memoria come fosse una strada coi lastroni smossi che mi riporta a casa. Certe volte mi immagino anche di sentire tutta una linea curva senza scosse, come un arcobaleno bianco, ma capita solo quando sono arrabbiata con mamma.
Babbo parcheggia nello spiazzo che costeggia il bosco, dove inizia il sentiero segnato, che sale dritto fino al Prato della Contessa. Il giorno si è accomodato tra gli alberi e in cielo, piano piano, senza che me ne accorgessi. Diana scende di corsa e scodinzola che pare ammattita, poi inizia a tirare e soffiare il terriccio col naso, tanto che fa qualche starnuto. Si infila nel fitto ma rispunta subito, si accuccia ai nostri piedi e si rovescia da sotto in su. Babbo stamani non le massaggia la pancia come fa quando torna alle sei del pomeriggio dalla fabbrica. Credo che sia ancora arrabbiato perché, ieri, è entrata in bagno e ha grattato il rotolo della carta igienica e l’ha fatto tutto a strisce e coriandoli e mamma ha detto Ora basta, ci mancavi solo tu.
Babbo mi dà il paniere per i funghi e si mette a tracolla la borsa di plastica con dentro i panini e l’acqua liscia. Quella con le bolle la beviamo solo a cena, la faccio io. Prendo la bustina di carta lucida e la agito tenendola per un lato, poi la strappo nell’angolo, verso il contenuto nella bocca della bottiglia e l’acqua da trasparente diventa bianca e sembra che voglia essere latte. Io sto attenta a non far scivolare fuori dal buco la polvere, immaginando che sia la sabbia che scende in una clessidra, sennò anche il tempo va perso. Ci impiego dieci secondi, se voglio farlo senza sbagli, li ho contati. Quando la bustina è vuota faccio ruotare il tappo sulle braccia di fil di ferro e chiudo con forza, stando attenta che il disco di gomma sia dritto. Allora afferro la bottiglia con tutte e due le mani, la agito, e le bolle diventano a migliaia che credo nessuno potrebbe contarle, nemmeno la professoressa di matematica. Quando ero più piccola capitò che la aprissi troppo presto e uscì una schiuma che scoppiettava e l’acqua sembrava moltiplicata come in un miracolo di Gesù. Ci risi tanto, mamma invece no, ma tanto lei non ride nemmeno se le fai il solletico vero sotto le braccia.
Diana è sparita tra gli alberi. Babbo prende dal portabagagli una corda sfilacciata ai capi e se la mette a cavallo delle spalle. Poi chiude a chiave tutti gli sportelli e ci incamminiamo per il sentiero. Lui davanti, io dietro di qualche passo. Il bosco è di faggi secchi e lunghi. Babbo conosce tutto di questi giganti fronzosi, mi fa vedere anche le piantine appena nate. Sono così striminzite che, se non ti dicessero che saranno alberi, potresti pensare che siano erbacce da tirare via e buttare. I nostri passi sono croccanti. Io guardo poco verso l’alto, perché ho paura di inciampare nelle radici bitorzolute che spuntano qua e là, o di scivolare sulle foglie lisce e umide, a meno che babbo non mi indichi qualcosa, tipo il volo improvviso di una ghiandaia, o il tronco con incise delle croci e il numero milleottocentonovantasei, che ancora ci chiediamo che cosa voglia dire. Lo vedi il colore della corteccia quando la luce ci passa sopra? È verde salvia, mi ha detto una volta. Babbo mi fa sempre notare i colori delle cose, come anche le sfumature e i miscugli. Penso che senza di lui, forse avrei visto solo un mondo di grigi.
Diana ancora non si vede e nemmeno si sente. Chiedo a babbo di andare a cercarla. Lui dice Non serve, gli animali sanno fare tutto da soli, partorire, trovare da mangiare e tornare, se vogliono. Infatti Diana rispunta e ha delle foglie attaccate sul pelo ispido del dorso e delle orecchie, si vede che si è rotolata a fare festa sul tappeto di sottobosco. Allora babbo le dice, Vai, vai, Diana, e la spinge per il didietro. Lei guaisce, fa qualche passo con la testa che guarda verso di noi. Vai Diana, vai, continua a ordinarle babbo. Lei sembra impuntarsi ma poi riprende a correre in avanti, e io penso che se i cani potessero essere felici diresti che oggi Diana lo sia.
Noi continuiamo a camminare per un altro po’ di tempo, che senza orologio non so misurare, e poi ci fermiamo perché mi è venuta fame. Babbo tira fuori un panino e me lo dà. È col salame toscano affettato in casa, con i grasselli spessi accidentati. Stende a terra il plaid a quadri e mi dice Tu resta qui, non ti muovere sennò ti perdi, intesi? Io gli faccio cenno di sì con la testa e non mi par vero che si allontani così posso ripulire la fetta di salame dai grasselli e mangiare il resto, senza che lui mi rimproveri. Lui non prende per il sentiero e lo vedo che a ogni passo che fa è costretto ad alzare le gambe col ginocchio piegato, per domare gli sterpi e andare avanti, finché scompare. Sento che schiocca la lingua sul palato come fa quando vuol richiamare l’attenzione di Diana e farla andare da lui.
Tolgo la carta stagnola e appoggio una delle fette di pane sulle ginocchia. Levo i dischetti bianchi dal salame, uno a uno, e li metto in fila sul plaid perché mi immagino che, quando babbo e Diana torneranno, lei se li mangerà in un boccone veloce e poi mi avvicinerà il naso umido al collo per dirmi grazie. Quando babbo si allontana senza di me è per raggiungere una fungaia infrattata che conosce solo lui, oppure per fare la pipì, anche se non me lo dice. Fa sempre presto e mentre è via grida Uhu!, e il patto è che io devo rispondergli Aha!, così lui è sicuro che io ci sono e io che lui c’è. Potrebbe essermi sfuggito un Uhu! per via dei grasselli che stavolta sono tanti e tanto grossi, fatto sta che babbo non lo sento, e la voce degli alberi e degli uccelli mi arriva avvolta nell’ovatta per via dell’aria che ha riempito lo spazio dentro le orecchie. Trattengo il respiro ma la voce di babbo non arriva, così inizio a chiamarlo, e chiamo anche Diana che di solito si scapicolla per venirmi incontro. Quando sento rumore di frasche smosse mi prende il terrore che sia un cinghiale o un cane selvatico. Allora mi metto i palmi delle mani sugli occhi e le lacrime rimangono schiacciate. Invece è babbo che ritorna, senza funghi e con una faccia diversa che non saprei definire. Io faccio finta che non è successo niente, Babbo hai perso la corda, gli dico soltanto, e lui mi risponde che va bene così.
Nel viaggio di ritorno in macchina, babbo non mi parla. Ora che ci penso, aveva la stessa faccia quella volta che un suo compagno a lavoro si era portato via tre dita alla catena di montaggio.
Alle undici e mezza arriviamo a casa. Fino all’ultimo ho sperato che tornassimo indietro, invece niente. Babbo ha detto che ci farà un salto lui, subito dopo mangiato.
Mamma ci apre la porta, e gli dice, piano, Fatto? Lui oscilla la testa come per dire tante volte sì, continuando a guardarsi la punta delle scarpe sporche di terriccio. Poi lei aggiunge Usate le pattine, ho dato la cera. Di solito metto le pattine e scivolo fino al tavolo rotondo che sta in mezzo al salotto, continuo fino alla finestra di cucina, facendo attenzione alle ciotole di Diana, ma oggi mi sembra tutto diverso. Controllo se mamma mi stia guardando, per farle cenno che sta succedendo qualcosa che non so, invece lei niente. Fila a lavarti le mani, si mangia, dice seria.
Babbo ha appoggiato le pupille sul piatto e non le alza mai, nemmeno quando mamma gli chiede se ne vuole ancora. La tv è spenta, eppure è l’ora sacra del telegiornale. Si sente soltanto il tic tac della sveglia che sta sulla madia e i rintocchi delle forchette sulle stoviglie. Lascio nel piatto i bordi della fetta di carne, tutto il grasso e anche un po’ di magro. A Diana piace quando glieli riduco a dadini e li mescolo insieme a una fetta di pane che inzuppo nell’acqua. Inizio, come sempre, a tagliare, ma mamma mi tira via il piatto, butta gli scarti nel secchio della spazzatura e mi dice Vai a fare la lezione, che fra poco dobbiamo uscire tutti a fare la spesa. Guardo babbo, aspetto che dica qualcosa, ma rimane in silenzio. Io continuo a masticare l’ultimo boccone senza riuscire a ingoiarlo – proprio non ci riesco – così lo lascio cadere a piombo sulla tovaglia di plastica con le fragole e i buchetti qua e là. Mamma fa per avvicinarsi col braccio già caricato in aria, urla Che diamine ti prende, e la voce le esce come un cigolio che incrina i timpani. Babbo la ferma, non mi guarda nemmeno, e dice Vai di là.