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Diorama consumistico
By Malgrado le Mosche Posted in Senza categoria on 08/05/2020 0 Comments 12 min read
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Testo: Francesco Quaranta
Copertina: Il figlio del figlio dei fiori è stato mangiato dai cani – Antimonio

Uno dei tanti annunci su Kijiji che sono salti nel buio, che sanno di atto di fede e che in fin dei conti andrebbero interpretati come richieste d’aiuto.

Lo stanzone dell’appuntamento si trova al secondo piano nel palazzo della Provincia. Qui hanno sbaraccato tutto, causa tagli al bilancio, e ora gli uffici dell’amministrazione stanno raggrumati a ridosso della facciata. Il resto dell’edificio, a cui si accede da un ingresso laterale, è abitato da un generale sentore di sconfitta; gli spazi sono distribuiti tra piccole società di dubbia costituzione, agenzie immobiliari, un CAF della CISL con il materiale promozionale vecchio di dieci anni appeso alle pareti, un centro per l’impiego dai neon morituri e uno scantinato adatto ai sequestri di persona e a ben poco altro. Lo stanzone dell’appuntamento è posizionato invece all’ultimo livello del corpo secondario di questo frutto marcio della speculazione edilizia, ha un unico finestrone panoramico stile scuola di danza newyorkese – il punto di forza su cui si concentrano i seller scafati – peccato che fuori, al posto dei grattacieli e delle immense strade a quattro corsie, si veda solo il culo di un ipermercato. Sotto, nella piazzetta a mosaico di cemento, erbacce e immondizia, ci sono un paio di mendicanti nordafricani che stanno a tanto così dal diventare spaccini. Avanzamento di carriera.
Loro sono fuori e noi siamo dentro.

Prima di farci entrare, ci fanno l’appello. Manca metà della gente che ha risposto all’annuncio, ma non sembra una cosa grave: i nomi senza volto cadono in un disinteresse virtuale. Siamo trentatré poveri cristi. Ci dicono di metterci in ordine sparso, come a scuola, e subito il nostro puzzo di sudore bagnato si sparpaglia in tutto l’ambiente: denudata dalla vicinanza al prossimo, l’inadeguatezza è soltanto nostra. È abbastanza chiaro come questo non sia l’inizio della carriera immaginata da bambini: questo è il ripiego di un ripiego; la prostrazione, non la fiducia nel futuro, ci conducono qui. Effetti collaterali di quella bella droga sballante che è il capitalismo.

Cloe lo capisci subito che tipo è. Occupa il centro del finestrone, dove il sole le posterizza la faccia e le scalda le cosce scoperte. Ha l’espressione di una che fa provini da quando aveva sei anni, poi i provini sono diventati casting per spottarelli inconsistenti, che a loro volta sono diventati candidature per andare a spacciare contratti dell’Enel porta a porta. Cose che capitano sottoponendo il corpo umano alla doccia fredda dell’età adulta: le ambizioni si ammollano, tipo grasso o pelle vecchia, un po’ di frizione e vengono via; le posture e i modi di fare invece no, quelli calcificano sulle ossa e restano lì anche quando i muscoli non ce la fanno più. Come il sorriso smagliante di Cloe e la sua schiena dritta dritta, percorsa come da un filo dell’alta tensione. Avrà sì e no ventisei anni e pare che abbia lasciato cadere anfetamine nel frappuccino: saltella sul posto, parlotta con tutti, canticchia, controlla i paraggi, marca il territorio, cerca di proiettare una buona, un’ottima, una fantastica impressione. Nessuno vuole davvero questo lavoro ma, per intenderci, lei è quella che più di tutti pare disposta a immolarsi.
La prima cosa che ci dice è che il suo ex ragazzo, un tipaccio geloso, una sera le gettò dell’acido in faccia, ma siccome pioveva a dirotto le è andata bene. Ridacchia, «acqua passata» dice con le spallucce. Ci rendiamo conto che non sappiamo il suo nome e che Cloe è solo la scritta sulla sua maglietta.

Entra finalmente il nostro sacerdote: un modellozzo scodellato fuori da stampino ariano con speziatura ellenica, bello da far sfigurare il sole. Si piazza lì, in controluce, con le mani dietro la schiena a stirare il tessuto della camicia. Completo carta da zucchero e cravatta bordeaux, il piglio di chi ha fottuto davvero tanta gente nella vita per poi persuaderla ad abortire col sorriso.
«Buongiorno», dice. «Buongiorno», ripete solo a Cloe con lo stesso tono che userebbe per rivolgersi a un pincher. Una buona metà di noi ha un orgasmo, mentre il resto, sebbene provi un’istintiva repulsione, sceglie di fidarsi della presentabilità del personaggio, che non possiamo eguagliare e non possiamo smontare. Il qui presente vate dei self-made men lo sa benissimo che il fondamento dell’economia del lavoro è una sana dose di masochismo. Perciò restiamo lì, con un mezzo sorriso, da brave scimmiette che aspettano la pappa pronta o lo shock elettrico.
«Il libero mercato è la cosa più equa e democratica sotto questo cielo». Passeggia tra noi come un sergente trendy, profuma di sandalo e successo. «Devi dare tanto, è vero, ma solo così puoi ottenere qualcosa».
«Insomma… Per stare appena appena al di sopra della vita di merda tocca già farsi il culo», commenta qualcuno di noi.
«E allora fate di più», dice lui. «Siate i supereroi della carriera!»
A noi comunque risulta che pure Superman sia costretto a fare il doppio lavoro. Prima di tutto ci fa fare dei gargarismi. “Gorgheggi”, li chiama lui, però poi per spiegarceli dice anche di fare come quando ci si sciacqua la gola. Dopodiché si passa a sciogliere la lingua con sillabe libere, come fanno i cantanti, ga ga ga le le le no no no; ci dice che è fondamentale perché oggi parleremo un sacco e la nostra voce deve essere coinvolgente e piena di entusiasmo. Qualcuno chiede quando incontreremo i clienti e il ragazzotto ci guarda un po’ tutti con morbida severità: «Non siete pronti», dice. Poi passa allo stretching.

A quanto pare, le cose stanno così: ci sono dei non specificati partner commerciali che mettono a disposizione dei prodotti; i prodotti sono cose belle e dobbiamo sempre sorridere quando ne parliamo – quando parliamo della concorrenza dobbiamo invece rabbuiarci, si presume. Nostro compito è offrire i suddetti prodotti direttamente in loco al cliente, in una vendita “direct one to one straighforward”. Ignorando le nostre domande, il tizio dice che tutto ciò che serve per chiudere la vendita è una firmetta sul contrattino. «Però, mai usare la parola contrattino davanti al cliente», specifica con la voce da mezzo baritono che si ritrova. «Contrattino è un termine che usiamo solo noi insider», e qui, solo qui, fa le virgolette nell’aria.

Ci muoviamo per il quartiere come una comitiva di studenti bocciati a raffica da un decennio a questa parte. Sull’annuncio c’era scritto “lavoro d’ufficio”, ma non ha importanza: è chiaro che ormai ci troviamo in una dimensione parallela in cui a malapena reggono le leggi della fisica, figuriamoci quelle flaccidone delle leggi morali. «Limiti», direbbe il nostro Virgilio, il quale si aggira in testa al gruppo, consumato arbitro e performer. Pare non esistano altre regole o possibilità al di fuori di quelle che egli incorpora, quelle che nessuno ci ha mai giustificato perché tanto ci siamo nati dentro: non conosciamo altro, non sapremmo dove andare a rifugiarci. Rompere lo schema è fallire. Marciamo in un diorama consumistico, un sistema chiuso dove tutto torna e deve tornare, dove per mantenersi bisogna fatturare conto terzi e il valore di un individuo è misurato in base alla capacità di produrre risultati, e il risultato… Be’ il risultato sembra potersi ottenere solo facendo combaciare il concetto di servizio con quello di stupro. Il nostro sacerdote ci invita a sorridere. Cantiamo.

Davanti al primo obiettivo, il nostro duce seleziona tre del gruppo, tra cui Cloe. Li piazza davanti al portoncino della vittima mentre noi attendiamo dall’altro lato della strada. Nessuno ha idea di come si chiuda un contratto, qualcuno lo fa presente. Dio parla e dice che il prodotto non si vende da solo, dice che la determinazione è tutto e, in fin dei conti, del prodotto in sé importa ben poco. Perfetto, perché di fatto non abbiamo idea di cosa stiamo vendendo. «Attitudine», è il suo verbo. «Con l’attitudine giusta si può ottenere qualsiasi cosa, si può resistere alla fatica, si può trovare conforto nella tortura, si può amministrare ogni supplizio». Non dice che, di conseguenza, ogni qualsivoglia attitudine comporta un sacrificio di pari entità.

Al citofono risponde una voce di vecchina non identificata.
«Salve signora», strombazza il nostro re. «Sono il dott. Foresti», mente. «Avrei bisogno di una firmettina per l’adeguamento del supporto fornitura luce e gas in ottemperanza alle norme sette tre dieci e ventuno comma quattro in relazione alle utenze private». Dall’altra parte della strada sentiamo tutto, ci vengono gambe di gelatina e visceri di piombo: siamo un gruppo di beta tester per uno snuff movie, un plotone di soldati nazisti che assistono alle prove tecniche dei lager, testimoni laici di un sacrificio di bestiame umano.
«Signora, mi servirebbe una copia dei suoi contratti di fornitura per verificare se sono stati aggiornati». La vecchina esita, nell’indugio della voce dentro il citofono ci sono tutti i ritardi non ammessi nel mondo veloce, ci sono tutte le sacche di non mercato, di non domanda. «L’indugio è decrescita, è fine», aveva detto il nostro sacerdote nello stanzone, quel mattino.
«Signora, ho qui una mia collega esperta in questo genere di transazioni che gradirebbe parlarle». Fa poi cenno a Cloe di avvicinarsi al citofono. Siamo certi che la ragazza, pur di sentirsi dire che ha fatto un ottimo lavoro, farebbe a pezzi il proprio gatto e lo venderebbe in pratici pacchetti di carta per alimenti, per poi piangere da sola a casa la sera. Ce la mette tutta, ma la signora non apre: vuole sapere per conto di quale azienda lavorano. Anche volendo non lo abbiamo capito. Il nostro boss ci lancia un’occhiata come se fossimo un branco di cuccioli di coglione.

«È una cosa del Ministero, signora», prova allora Cloe. «Ci mandano loro».
È lì che il nostro boss le molla un ceffone: una cinquina di palmo pieno che le solleva la mascella con lei tutta attaccata a peso morto. Non appena Cloe si accartoccia su sé stessa, lui le appoggia l’indice ben disteso sotto l’occhio, come per zittirle tutta la faccia. «L’acido nel cervello ti dovevano mettere!»
Tutti noi capiamo che è giusto così, che ci sono conseguenze per chi tira in ballo lo Stato: Lui che è così benevolo con noi formichine, ci fa giocare sulla nostra rotellina dell’economia, senza intromettersi, e in cambio vuole solo essere lasciato il più possibile in pace.

L’uomo adesso preme con forza il pollice sul citofono. Ci guarda tutti, cerca paio a paio i nostri occhi e quando sputa a terra è come se lo facesse nel nostro cristallino. Per tutto il tempo non stacca il dito dal tasto e dietro la porta si eleva come il grido di una zanzara gigantesca: il buzzer è una tromba 8-bit, non per questo meno solenne, che infonde di epica ispirazione le parole dell’uomo.
«PORCA MADONNA LA CRISI È FINITA», sbraita. «Volete andare a casa eh? Volete tornare a letto, volete vagare questo pianeta senza sporcarvi le mani? Parassiti di merda!»
La donnina si presenta sulla soglia, arriva a malapena alla cinta del nostro eroe. «Lasciatemi stare», vorrebbe intimare. «Cosa devo fare per essere lasciata in pace», dicono invece i suoi gesti. «Qualsiasi cosa».
«SIGNORA ABBIAMO IN CUSTODIA SUO FIGLIO! FIRMI QUESTO BENEDETTISSIMO CONTRATTO E NESSUNO SI FARÀ MALE!»
Si apre una finestra sopra la scena, un uomo si affaccia e chiede perplesso cosa stia succedendo. Il nostro idol lo guarda sistemandosi la cravatta: «Stiamo solo lavorando», risponde. «Che cazzo vuole?»
«Sì, infatti, si faccia gli affari suoi», rincara la vecchia. L’uomo si scusa e torna alla sua not so bad miseria.
Segue un silenzio in cui il mondo è completamente ridefinito. Qualcuno di noi comincia già ad andarsene. Cloe si ricorda di essere una di noi e noi facciamo altrettanto: non avremmo mai dovuto lasciarla andare da sola.

«Pausa sushino», decreta il boss che si è riaggiustato e pettinato a modo. Samurai moderno, così gli piace vedersi, osserva compiaciuto i cartigli posti in calce al contratto. «Questo è solo il primo! La giornata è ancora lunga. Stiamo andando bene ragazzi, ci vuole solo un po’ di sprint, di effort, di locura. Dai su crediamoci!».

Lo immaginiamo così mentre torniamo a casa, chi sul treno, chi in bici, chi a piedi, chi col vomito in gola e chi con gli occhi lucidi. Lo sogneremo spesso nel momento in cui si rende conto di essere rimasto solo, in un mondo in cui abbiamo vinto noi.
China la testa nel brodino del ramen e giura di rovinarci le vite, non appena avrà finito con la sua.

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