Testo: Flavio Torba
Copertina: Castelnovo – Andrea Herman
È successa una cosa grave e devo parlarne con Ivo. Posso sempre contarci quando ho qualcosa su cui riflettere e mi serve qualcuno che si limiti anche solo ad ascoltare. Lui lo fa, se serve, ma riesce anche a darmi qualche dritta. Di solito per pensare ho bisogno di parlare da solo, però ogni tanto un suggerimento fa bene.
La villetta che ho costruito per Alberto fa ancora vedere il grigio del cemento. Ho pensato di tinteggiarla ma finora non l’ho fatto e chissà se mai lo farò. L’unica cosa completa è il tetto, con le tegole di cotto che si ammassano le une sulle altre. Se vuoi preservare qualcosa di tuo, devi evitare che ci piova dentro.
La sala da pranzo è enorme, più grande della mia che è comunque importante. Abbiamo passato dei gran bei momenti in quella stanza – a casa mia, dico – e volevo che Alberto potesse replicarli con la sua famiglia, quando non ci sarò più. A festeggiare con i suoi figli e i suoi nipoti. Forse questo non accadrà mai, ma è bene pensarci per tempo a queste cose. Le occasioni importanti devono essere onorate e per farlo ci vuole una sala da pranzo capace di accogliere tutti.
Sul retro, inizia l’uliveto. Il fango dell’ultima pioggia inizia a risucchiarmi le scarpe. In Dicembre è capace di fregarsi uno stivale e schioccare la lingua in segno di gradimento. Dopo pochi metri, però, iniziano i teli di plastica trasparente che coprono il terreno. Si chiama solarizzazione. Con la plastica, la temperatura del suolo aumenta e fa morire il fungo. O almeno dovrebbe. Me l’ha spiegato mio figlio. Anche noi vecchi possiamo sempre imparare qualcosa.
Supero tre file di alberi, con le foglie tutte ingiallite e piegate come dita di vecchia. Più in là trovo Ivo, che sta ammirando il tramonto. Gli piace guardare il sole che se ne va a dormire dietro la Sicilia. Noi anziani siamo romantici.
«Come andiamo?» mi chiede. Sono venuto qua per lui e quasi non voglio rispondergli. Forse hanno ragione quando dicono che sono presuntuoso.
«Andiamo male, andiamo.»
«Ancora la schiena? »
«Magari. È mio figlio, che mi fa uscire pazzo.»
«Ancora non ti sei rassegnato… Lascialo campare, quel poveraccio.»
Facile per lui parlare. Alberto se n’è andato cinque anni fa ed è tornato solo in estate. Anche a Natale, a dire il vero. E a Pasqua. Ma non questa Pasqua, perché deve organizzare il matrimonio. È questa la cosa grave. Grave che non ci dormo la notte.
La ragazza si chiama Laurie. Io non ho niente contro di lei. È una ragazza che sembra un filo di paglia. Non si trucca. Non cucina. Non parla. Insomma, lei non. Abitano insieme nell’appartamento di Laurie. Alberto mi ha mandato le foto: la cucina è minuscola, sembra quella dei Puffi.
Ho spinto io Alberto a fare Agraria. Pensavo avrebbe potuto darmi una mano con l’uliveto, che avrebbe portato un po’ di scienza in mezzo a questo fango. È stato lui a effettuare la diagnosi: fungo deuteronicete. Verticillium Dhaliae Cleb.
All’inizio non voleva neanche andarci, all’università. Quando era un ragazzo voleva stare con me in campagna. Con me e con Ivo. Ma sembra che abbia dimenticato, crescendo.
Prima la laurea, poi il dottorato, e a casa ci tornava sempre meno spesso. Alla fine l’ha assunto una ditta che produce vini in Francia, per controllare la crescita delle viti. Lui, che non beve neanche.
Immagino Alberto e la ragazza che stanno insieme. Mi chiedo di cosa parlano, in francese, quando si siedono a tavola in quella cucina da nani. Cosa fanno la sera quando il giorno dopo non hanno da lavorare. Lei è bibliotecaria in un paesino che non riesco a pronunciare, così lo chiamo, il paesino. Quante possono essere le cose che hanno in comune e che hanno convinto Alberto che là è meglio di qui? Sono le domande che mi vengono la sera prima di addormentarmi. Poi, quando mi alzo, vengo nell’uliveto a guardare tutte queste siringhe che spuntano dai tronchi.
Per combattere la verticilliosi, si fanno dei buchi con il trapano sui fusti. Poi vi si inserisce una siringa e la si riempie di una soluzione di fosetyl-alluminio. Ne ho messo così tanto che ormai ricordo il nome a memoria. Con un filo di ferro poi si fa fuoriuscire l’aria dal buco, così il fungicida agisce meglio. Gli ulivi sembrano tanti San Sebastiano Martire.
Non voglio che Alberto sia infelice con la sua nuova vita, ma neanche che si sacrifichi. Uno nasce in una certa maniera e di certo non può cambiare. Un uliveto non è una vigna, così come Armacetra non è la Côte des Blancs o come cavolo si chiama.
«Ivo, ti ricordi di quando mi hai salvato?»
«Sì.»
«Vorrei poterti salvare anche io.»
Quando ero piccolo c’era questo cane rabbioso che apparteneva ai nostri vicini. Gli Strema erano gente rabbiosa. Non per niente, già allora, che erano altri tempi, li chiamavano gli Zotici.
Ogni volta che passavo davanti casa loro, per andare alla campagna, questo cane drizzava le orecchie e scattava in avanti, tirando la catena che sembrava ogni volta che potesse romperla o staccarla dal muro. Però era sempre attaccato a quella catena.
Una volta stavo venendo proprio qui all’uliveto, perché mio padre aveva dimenticato il setaccio e mi aveva mandato a recuperarlo.
«Sennò quando torniamo ne troviamo due» aveva detto.
Si stava facendo buio e dovevo sbrigarmi, altrimenti non sarei mai riuscito a vedere l’attrezzo in mezzo all’erba.
Sono passato davanti casa degli Strema e ho sentito il rumore della catena. Era come se fosse trascinata a terra, ma il cane non c’era. Sono andato oltre, ma sentivo questo rumore dietro di me. Mi avevano detto che i fantasmi urlavano e si portavano dietro tutte queste catene, ma ero terrorizzato dall’idea che invece poteva essere quel bestione. Prima di imboccare il sentiero in discesa che portava al nostro podere, mi sono voltato e l’ho trovato lì, che mi fissava. Non riuscivo a vedere altro che la sagoma, ma sapevo che aveva la bava alla bocca. Sembrava il cane del diavolo. Avrei preferito un fantasma.
Quello che è successo dopo è tutto confuso. Ricordo solo che i muscoli delle gambe erano diventati come pappa per lo sforzo. Devo aver messo tutta l’anima nei piedi per sfuggire a quel mostro. E poi c’era la pelle delle mani che si sbucciava sul ruvido della corteccia. Il tronco era tutto nodi eppure non riuscivo a trovare un appiglio decente, e il cane mi aveva quasi raggiunto. Che io ricordi, non mi sono mai pisciato addosso. Forse l’ho fatto da poppante, forse lo farò tra qualche anno, ma quella sera ci sono andato pericolosamente vicino. Sentivo proprio una fitta alla vescica.
Poi un ramo si è abbassato verso di me e sono riuscito ad aggrapparmici come un disperato. Ivo mi ha alzato da terra e mi sono accoccolato tra due suoi rami che formavano una V. Il cane che schiumava pochi metri più giù. Abbaiava come un dannato. A un certo punto deve essersi annoiato, perché ha smesso. Io però non mi sono fidato. Era troppo facile immaginarselo nascosto in mezzo all’erba, ad aspettare che scendessi per staccarmi una gamba a morsi e mangiarsela. Mi sono addormentato, coccolato da Ivo.
Mio padre, non vedendomi tornare, è venuto a cercarmi e mi ha trovato appeso come una scimmia.
«Lo sai che Alberto ora è grande, no?» mi dice Ivo.
«Sì che lo so.»
«Ha fatto le sue scelte. Non ha bisogno che lo correggi ancora. Deve sbagliare da solo, rompersi le corna e ricominciare da capo. E bada che non sto dicendo che ha preso la decisione sbagliata. Lascialo campare.»
«Sì, forse hai ragione. È che ha la testa dura di suo padre.»
Rimaniamo un po’ in silenzio a guardare il tramonto, come due vecchi amici che si godono il tempo che resta.
«Vorrei poterti salvare anch’io» ripeto, appoggiato contro il tronco di Ivo.
«Hai fatto quello che potevi. Non puoi salvare tutti. Quello è lavoro per qualcun altro.»
«Sarebbe bello.»
«Sì, piacerebbe anche a me» dice Ivo. «Senti, mi sa che dobbiamo salutarci. Non mi sento tanto bene.»
«È ora?»
«Sì, mi sa che è il momento.»
«Vorrei poterti salvare.»
«Hai proprio la testa dura. Senti, cosa ci farai con tutto questo legno?»
Ci penso su. È un bel po’ di legno. Un tavolo, per cominciare. Bello grande. Come regalo di nozze.
Flavio Torba è anche su https://flaviotorba.wordpress.com/