di Carmine Pignata
Copertina: Col mio nome (colorazione da foto d’epoca) – Marta Di Giovanni
Questo mio amico mi giura che una così non l’ho mai vista. Poi mi dice di aspettare un paio di minuti prima di seguirlo, perché anche se hanno tutte gli occhi piccoli e sono mezze cecate le suore si accorgono di qualsiasi cosa. Così quando esce dalla mensa io rimango un po’ a schiacciare i piselli e i bastoncini di pesce che ho nel piatto, poi alzo la mano e chiedo di andare al bagno. Classe nostra è dall’altro lato dell’edificio, al secondo piano. Il palazzo all’interno è un quadrato con un grande cortile al centro, e invece di attraversalo di corsa, come tutte le altre volte, cammino strisciando lungo i muri, come fanno i topi quando non vogliono farsi prendere con la mazza. Quando arrivo in aula questo mio amico è seduto con le gambe incrociate sul banco e ha la testa quasi tutta infilata nella cartella. Mi dice: Chiudi la porta che ti faccio vedere una cosa. Mentre tiro la maniglia guardo se ce n’è qualcuna in giro, perché anche se sono mezze cecate, quelle si accorgono sempre di tutto. Faccio il giro del banco e mi metto davanti a lui. Questa è di mio papà, dice, a casa ne ha tante altre. La tira fuori con la lentezza delle cose importanti. È bella vero? Se la passa da una mano all’altra e io penso che sia la cosa più meravigliosa che abbia mai visto. È grossa, cromata come la marmitta di una moto e ha l’impugnatura nera. Questo mio amico mi dice: Tieni, e me la passa per la canna. La stringo forte con entrambe le mani. È pesante. L’avvicino alla faccia per guardarla meglio ed è così lucente che ci vedo sopra il riflesso della montatura dei miei occhiali. Col dito sfioro il grilletto. È duro. Tutta la pistola è dura, compatta, non come nei film che sembra essere la cosa più leggera di questo mondo. Sono tutte di mio papà, ma questa è la mia preferita. Mia mamma dice che per ora lui non può tornare, quindi tocca a me… Non finisce la frase, resta fisso sulla pistola che ho tra le mani. Io non dico nulla. Mi vedo sorridere nella cromatura della canna. Allungo le braccia e la punto davanti a me. Faccio il giro dell’aula mirando prima al cartellone con le lettere dell’alfabeto corsivo maiuscolo e poi alla cartina geografica dell’Europa. Quando arrivo alla fotografia della madre superiora appesa accanto al crocefisso dietro la cattedra chiudo un occhio, miro al centro della fronte e dico: Bang e poi soffio sulla canna. Dammi qua che ti faccio vedere come si apre. Questo mio amico preme un pulsante, sfiora una levetta sul manico e il caricatore scivola via dall’impugnatura. Qui si mettono i colpi, vedi? Ne toglie uno: è dorato e assomiglia a un confetto, lo tiene per le estremità, col pollice e l’indice e poi subito lo rinfila. Me lo ha insegnato mio padre. Se vieni a casa mia qualche volta, ce ne andiamo in campagna, ti dico come sparare ai cani, devi vedere come esplodono se li prendi in testa.
Quando suona la campanella mi afferra forte per un braccio e mi dice: Non lo devi dire a nessuno, mi raccomando. Poi la rimette di corsa nella cartella. Usciamo sul ballatoio e ci guardiamo intorno, mi sporgo alla ringhiera e vedo gli altri salire le scale: una schiera di grembiuli bianchi e blu che ondeggiano e pestano rumorosamente i gradini di metallo. Facciamo qualche passo e ci mischiamo con loro. Da lontano il velo nero di una suora ci urla di camminare in fila per due e di stare zitti che è quasi l’ora della preghiera, e il Signore ama la calma e il silenzio.