di Nicola De Zorzi
Copertina: Ops, I did it again – Antimonio
Mamma va in cantina ogni giorno e prepara le mele da portare alla mangiatoia. Lì arrivano i cervi: scendono dal bosco a tarda sera, quand’è tutto buio, escono dagli alberi con un fruscio di corna che sfrondano i rami, e quattano guardinghi nel nostro prato. Il prato è grande, così non li ho mai visti da vicino; anche quando la luna è piena sanno nascondersi bene, sotto il susino sterile; sono molto timidi, dice Mamma. Per questo insiste sempre per preparare le mele prima del tramonto, così non si rischia di spaventarne qualcuno che già aspetta al limitare del bosco; e per questo mi proibisce di uscire nel prato quando i cervi mangiano; scapperebbero via, e sarebbe veramente un peccato. Mamma tiene molto a loro.
Mamma prende una decina di mele da un sacco di tela. Una alla volta vi affonda il coltello, che le solca liscio cinque volte, fino a dividere ognuna in sei spicchi uguali; poi, tenendo uniti i sei spicchi già divisi, taglia in senso opposto, e gli spicchi diventano dodici. Li sparge in una grossa ciotola di legno, quindi procede con la mela successiva. Si incammina infine nel prato, raggiunge la mangiatoia seminascosta fra i rami del susino sterile, e torna con la ciotola vuota.
A volte Mamma sta male, ma insiste comunque a scendere nella cantina fredda e umida, tagliare le mele fredde e dure e uscire fino alla mangiatoia. Cerco di dissuaderla, le dico: Mamma, vuoi ammalarti sul serio?, potranno pur stare un giorno senza. Ma neanche mi dà retta, e taglia le mele in silenzio, col coltello che sibila contro la buccia e la polpa dura, ed esce.
Una volta è successo che Mamma stesse davvero male, troppo per uscire. Mi ha chiamato nella sua stanza, e mi ha detto: Oggi ti occuperai tu delle mele. Ne sei capace, vero? E aveva una punta di paura nella voce e negli occhi, così mi sono sentito in dovere di rassicurarla. Certo che sì, Mamma. Ci penso io. Sono sceso in cantina e ho preso la prima mela, fredda e liscia. Ho affondato il coltello, che si è fatto strada a fatica nella polpa dura, scricchiolando. Ho tagliato a fatica sei spicchi irregolari, e poi ho cercato di farne dodici. A quel punto tutto mi è scivolato fra le dita, ho dovuto raccogliere gli spicchi deformi, e uno alla volta smezzarli in moncherini.
Mi sono reso conto che c’era ancora molta luce, era presto rispetto all’ora in cui di solito Mamma porta le mele alla mangiatoia. Mi sono detto: Oh beh, che cambia? Se ci vado adesso meglio per me, vedrò bene i miei passi e mi leverò il pensiero.
La mangiatoia è grande, di legno sordo, vecchio e muschiato. La bacinella per le mele è coperta da una piccola tettoia. Sopra la tettoia c’è una corona di rametti, simili a corna; attorno alle corna, i rami pendenti del susino si tengono a distanza, quasi la corona li respingesse. Ho gettato le mele nella bacinella e sono tornato a casa. Sugli alberi più vicini si erano radunate delle cornacchie dal becco giallo, che fischiavano eccitate. Ho fatto loro il verso e sono corso via ridendo.
Sono andato nella stanza di Mamma, e le ho detto fiero: Ho portato le mele alla mangiatoia! Ma lei, mica contenta, è impallidita, era già pallida ma ora si era fatta perfino azzurra, e ha gridato: Ma è troppo presto! È uscita sul balcone, dove si vedeva che tutte le cornacchie erano scese alla mangiatoia. I loro becchi gialli affondavano nelle bucce rosse, sollevavano, scuotevano i bocconi troppo grossi, schizzavano briciole e succo.
Via! Via!, si è messa a gridare Mamma. È uscita nel freddo pungente, e si è sbracciata contro gli uccelli, riuscendo a scacciarli. Poi è andata in cantina, nera di rabbia (io mi facevo piccolo piccolo, non capivo ma avevo paura, non capivo e avevo paura) e ha tagliato nuove mele. Quindi è andata alla mangiatoia, ed è rimasta ad aspettare, a fare la guardia, fino al tramonto, quando le cornacchie, ancora sugli alberi vicini in arrogante attesa, se ne sono andate.
Da quel giorno Mamma ha iniziato a star male più di prima. All’inizio non voleva, ma ho insistito finché mi ha permesso di lasciare di nuovo a me il compito delle mele. Sarò bravo, ho detto; uscirò sempre e solo all’ora giusta, ho promesso.
E così è stato: sera dopo sera, per Mamma sono sceso nella cantina fredda e umida e ho tagliato le mele fredde e umide. A stento all’inizio, perdendo spicchi e spicchi, tagliandomi le dita mentre il succo appiccicoso mi bruciava zuccherino nel sangue; poi sono diventato bravo quasi quanto Mamma, preciso ma mai veloce, sempre paziente fino al tramonto.
Ho calpestato per lei decine e decine di volte i lillà e l’erba fresca, poi i tarassachi e l’erba morente, quindi l’erba bruciata e la terra nera. Quindi la neve, prima sottile e poi alta alle caviglie, alle ginocchia. Sono scivolato nella neve farinosa tutta denti, sono affondato nella neve bagnata e pesante. Quando poi la neve è ghiacciata, ho percorso la scia sottile delle mie impronte. Mi sono incastrato, ho spaccato tutte le scarpe che avevo, mi sono graffiato le caviglie e tagliato i polpacci, sempre per lei, sempre perché i cervi potessero avere le loro mele, scendere con calma e trovare la pappa pronta, sempre dopo che me n’ero andato, come se gli facesse schifo mangiare alla presenza di chi li nutriva. Trovavo irritante il loro sdegno, e stupida la loro paura. E Mamma a letto, mi pareva se la prendesse bella comoda. Anche se ormai stava meglio, era comodo che ci fossi io, ormai bravo, ormai affidabile. Nel fango, sotto la pioggia, nella neve tutta denti, per lei, solo per lei. Così un giorno ho deciso di finirla.
In cantina teniamo il veleno per topi. I topi non ci sono più da un pezzo, ma il veleno è rimasto. Ho tagliato le mele con enorme cura e le ho disposte perfino con eleganza nella ciotola. E ho versato il liquido trasparente e inodore, ho condito le mele come fosse sciroppo.
Era un po’ troppo presto, ma non ci ho fatto caso, eccitato com’ero, spaventato e libero com’ero. Ho versato le mele nella bacinella con un tintinnio pastoso, e sono corso via. Mamma dormiva, e io mi sono affacciato al balcone. Avrei aspettato l’arrivo dei cervi, e mi sarei goduto lo spettacolo. Ma sono arrivate prima le cornacchie. Non potevo urlare davanti a quegli uccelli idioti, idioti d’ingordigia anche a costo della vita. Sono dovuto correre di nuovo fuori, per spaventarle come aveva fatto Mamma. Ma non ha funzionato. Forse perché ero troppo piccolo, o forse perché il veleno aveva scatenato la loro fame. Quando le ho attaccate loro si sono ribellate, tutte un frullare di penne negli occhi, artigli sulle guance; ho sentito le ossa dei loro becchi sulle ossa del mio cranio. Avevo ancora in tasca il coltello; cieco, ho colpito qualcosa di leggero. Sono scappato via e, l’unica volta che mi sono voltato, ho visto le cornacchie beccare le mele e il corpo della loro compagna caduta.
Sono tornato sul balcone, deciso a guardare con pura soddisfazione le cornacchie che mangiavano la loro stessa morte. E così è stato. Hanno iniziato a gracchiare secco, a guaire al cielo e a stramazzare. Sapevo che avrei dovuto portarle via, il giorno dopo, ma intanto potevano farmi buon gioco. Chissà che spavento, i cervi, quando si sarebbero trovati la mangiatoia piena di uccelli morti! Non ci avrebbero capito più nulla, e a quel punto – mi è venuto in mente – chissà come l’avrebbero presa se io, nascosto, fossi uscito con un BUH!, a cacciarli via. Non sarebbero tornati più, e io mi sarei risparmiato la coscienza da un altro assassinio.
Ho controllato che Mamma stesse ancora dormendo; il suo sonno non sembrava sereno, ma era profondo. Nel prato, ho aspettato dove lo spicchio dell’inutile luna di quella notte non mi avrebbe raggiunto.
Sono usciti dagli alberi con un fruscio di corna che sfrondano i rami e hanno quattato guardinghi nel nostro prato. Non li ho visti bene all’ombra del susino sterile, ma erano certo grandi, e quando un numero irregolare d’occhi ha riflettuto la luna in un baluginio verdognolo, ho cercato di nascondermi meglio. La neve attorno alle mie gambe scricchiolava, e non mi sono più mosso.
I cervi si sono radunati attorno alla mangiatoia, attorno alla strana costruzione sormontata da una corona che ricorda la forma delle loro corna, la costruzione che ricorda un altare, e hanno guardato dentro. Confusi, dapprima, se non spaventati – e io intanto non avevo più voglia di uscire allo scoperto – hanno poi annusato. E hanno poi affondato il muso, uno alla volta, poi due, poi tre, nella bacinella. Hanno tossito e mugghiato e ringhiato, le corna gli si sono aggrovigliate mentre facevano a gara per prendersi il boccone migliore. E i loro denti, denti che credevo fatti per masticare erba e frutta, hanno dilaniato le carcasse delle cornacchie, con gran piacere, con gran strappare e schioccare e lappare, con suono rivoltante di stivali nel fango. Quando ho emesso un gemito si sono voltati tutti, il loro numero impossibile d’occhi color anice, impossibile rispetto al numero di teste, e io sono scappato. Mi avessero almeno inseguito, mi avessero preso in tanta considerazione. E invece ho continuato a sentire, sopra il suono dei miei passi scricchiolanti sulla neve ghiacciata, l’orchestra maciullata del loro pasto.