Testo: Riccardo Sapia
Copertina: Casa – Julio Armenante
Mi svegliai in piena notte. Sentivo i piedi congelati. Era la prima notte veramente fredda di quell’anno, a dire il vero erano anni che non faceva un freddo simile. I gatti erano tutti arrotolati sul lettone, e da lì non si mossero nonostante mi apprestassi a fare visita al bagno. Rituale notturno al quale non riuscivo più a sottrarmi ormai da un bel po’ di tempo.
A volte penso che invecchiare sia più che altro una condanna, una sorta di espiazione per una colpa: avere avuto il privilegio di avere vissuto e di persistere a vivere ancora adesso. Come se a scegliere di vivere questa cazzo di vita fossimo stati noi! Questi sono pensieri, anzi domande che mi faccio sin da giovane e alle quali non sono mai riuscito a dare una risposta. Ma di risposte molto probabilmente non ne hanno e non ne avranno mai.
In bagno mi accorsi che la finestra era inspiegabilmente aperta. Fui investito da un vento gelido che mi costrinse in una smorfia del volto accompagnata da una contrazione di tutto il corpo all’altezza del ventre. Dall’apertura entrava, al contempo, una luce straordinaria. La luna era luminosa in modo sorprendente, tanto da imporre sul pavimento le ombre degli alberi sbattuti dal vento sino al corridoio. Quella luce era magica, me ne sentivo attratto e quasi ipnotizzato. Mi invitava a uscire fuori.
Una volta in giardino, mi allontanai dagli alberi per avere sulla testa il cielo aperto, e una volta lì, in basso alla mia destra scorsi la luna che ingombrava l’orizzonte, circondata da aloni concentrici sempre più grandi. Era un freddo umido che non avevo mai provato prima in quel posto, ma che avvolgeva il giardino conferendogli un’atmosfera suggestiva e cristallizzata. Il vento si era calmato e così decisi di raggiungere la vetta della collinetta che saliva alla destra della casa. Da lì la luna sembrava ancora più grande. Senz’altro per effetto dell’aria calda che emanava la terra e che, in netto contrasto col freddo in atmosfera, funge sempre da lente di ingrandimento. Volgendomi indietro vidi il tetto della casa illuminato come uno spot fotografico, e tagliava di netto l’orizzonte nero tanto da percepirne perfettamente la sagoma. Ad un tratto mi resi conto che era il caso di tornare a casa, se non altro per evitare di dovere, l’indomani, pagarne eventuali conseguenze sulla mia salute. Raggiunta la porta-finestra del bagno mi accorsi, però, che era chiusa dall’interno. Mi sentii perso. L’ingresso principale si trovava al di là del muro di cinta alto più di due metri, invalicabile come quello di un penitenziario – così l’aveva voluto Giulia, a garanzia dei bambini che spesso giocano in giardino. E quello, la porta del bagno, era l’unico accesso alla casa dalla parte posteriore. Accanto c’era il grande finestrone della cucina, perfettamente chiuso, con la serranda tutta abbassata.
Non mi resta che dare colpi al battente, certamente qualcuno mi sentirà e correrà ad aprirmi.
Niente! Provo più forte, forse con l’aiuto di un bastone? Chissà perché, ma quando cerchi qualcosa che fa parte del tuo quotidiano non la trovi mai. Aspetta! Ieri ne ho usato uno per avvicinare il ramo alto del mandorlo là dietro. Ecco, infatti, meno male! Adesso basteranno due colpi secchi e mi sentiranno senz’altro.
Il freddo sta cominciando a diventare insopportabile. Non so neanche che ore possano essere. Forse è l’una? O le due? Non mi sembra sia passato molto tempo da quando siamo andati a letto. Sento che il respiro sta diventando pesante per la forte umidità. Non mi resta che sistemarmi nel casotto degli attrezzi fino a domattina. Posso infilarmi un sacco nero, di quelli che uso per raccogliere le frasche secche. Con quello addosso sentirò meno freddo. Posso anche mettere dei fogli di giornale sotto al pigiama, all’altezza del petto. È un escamotage che mi aveva insegnato Sergio, il mio amico compagno di liceo. Li indossavamo ogni volta che rientravamo tardi la notte con la vespa dalla campagna di Cosimo. Un metodo molto efficace per ripararsi dal vento gelido della notte.
Aprii gli occhi, la luce filtrava da sotto la porta di ferro del casotto. Mi ero sistemato per terra sopra delle tavole, avvolto anche con dei sacchi di iuta, di quelli che usavo per la raccolta delle olive. Sentivo di avere gli occhi impastati. I ginocchi, soprattutto quello destro, mi dolevano come non mai.
A fatica ripresi la posizione in piedi e con altrettanta fatica raggiunsi la maniglia della porta. La scena che mi trovai davanti avrebbe dovuto appartenere alla mia consuetudine, ma era come se l’immagine, che avevo visto e guardato centinaia o migliaia di volte, avesse modificato il suo aspetto. I due peri ai lati della scala che porta all’ingresso del bagno erano sorprendentemente fioriti. Anche la temperatura era cambiata: adesso era amabile e tiepida. L’erba sotto i piedi era cresciuta. Provavo in gola un retrogusto amaro che non riuscivo a spiegarmi. C’era nell’aria una strana atmosfera, come di separazione, di distanza da ciò che mi era sempre appartenuto. Mi sentivo un estraneo di fronte all’immagine di quella casa che era come se avesse una luce nuova. Non ero più certo che fossero passate solamente delle ore da quando era rimasto chiuso fuori dalla porta-finestra del bagno. Era come se giorni, addirittura mesi fossero trascorsi da quella notte. Tutto mi sembrava avvolto da un’aurea misteriosa, di totale cambiamento. Provai una fitta tra il petto e lo stomaco, la stessa che avevo provato la notte in cui ero stato colpito da quel vento gelido.
Mi avvicinai sempre di più e scorsi la luce accesa in cucina. Da dove mi trovavo non c’era il pericolo che mi potessero vedere, era l’ultima cosa che desideravo in quel momento. Attorno al tavolo intravidi i nostri figli seduti che facevano colazione, non che li riuscissi a vedere perfettamente, ma da alcuni piccoli particolari, come il fiocco in testa alla piccola, ne immaginavo la presenza. Mia moglie andava e tornava dai fornelli, una volta col latte riscaldato dentro al bric rosso che avevamo comprato a Rovereto durante una vacanza di alcuni anni fa, quando ancora non c’erano i nostri figli, la volta successiva ripassava col cestino pieno di fette di pane tostato. Il tutto in una routine che mi era appartenuta, e che adesso mi era estranea, come se non mi appartenesse più.
In tutto ciò, però, non intravedevo niente nei loro gesti e nel movimento delle labbra che lasciasse presagire una seppur temporanea mia assenza. Niente nei loro volti che assomigliasse nemmeno lontanamente a una qualche preoccupazione. IO ero scomparso ed era come se nulla fosse accaduto. Com’era possibile?
Scorgo il grande dei miei figli con lo zaino in spalla in cucina, pronto a essere accompagnato a scuola da Giulia, insieme alla sorellina. La premura che ho avuto ad avvicinarmi alla casa dopo questa, chiamiamola, avventura, è improvvisamente svanita, scomparsa, e percepisco anche quanto ciò possa essere strano. Quella distanza tra me e la mia famiglia sembra essersi fissata. Non riesco a rompere questa lastra di ghiaccio che mi separa da tutti loro. Ho l’impressione di avere preso improvvisamente coscienza della vacuità della mia esistenza, dell’inconsistenza dei miei rapporti in famiglia. L’esserci o il non esserci non cambia il risultato, non sembra incidere sul normale corso di ciò cui stavo assistendo.
Rimasi lì per un bel po’, in attesa che accadesse qualcosa che mi aiutasse a capire. E qualcosa accadde. Sentii avviare il motore dell’auto e, allo stesso tempo, sbattere la porta di casa. Tornai con lo sguardo alla cucina e mi accorsi che la luce era ancora accesa. Ma era altrettanto vero che a mia moglie, avendo avuto modo e tempo per conoscerla bene, non sarebbe mai accaduto di lasciarla accesa, se non nei rari casi in cui io mi intrattenevo dopo che loro, lei coi bambini, se ne erano andati via. Non arrivai a terminare queste moleste considerazioni che mi accorsi di alcuni movimenti in cucina, i quali, non appena finirono sotto la luce del lume sulla tavola, si materializzarono in una persona di sesso evidentemente maschile che si muoveva con estreme sicurezza e disinvoltura tra quegli oggetti a me familiari. Il tipo si avvicinò alla macchinetta del caffè, posta tra il lavello e la macchina del gas, poi tornò indietro verso il finestrone e aprì il congelatore del frigo. Una volta chiuso tornò alla macchinetta col pacco del caffè nelle mani. Mi chiedo come facesse a conoscere la nostra abitudine di riporre in freezer la rimanente polvere di caffè una volta riempito il barattolo. Sono quei piccoli rituali ai quali si può essere abituati solo se si è della famiglia. Ciò mi fece riflettere sul fatto che il tipo in questione doveva essere lì già da un bel po’, e io, naturalmente, assente da parecchio tempo.
Non riesco a pensare a nulla, a mettere a fuoco un pensiero coerente. Provo un calore improvviso che partendo dai lobi occipitali si irradia su tutta la testa, sul viso, trovando sulla punta delle orecchie la loro estrema collocazione. Avverto che il mio volto si muove a scatti improvvisi, dettati da una collera che riesco a stento a contenere. Ciò nonostante, solo dopo un tempo inquantificabile, mi accorgo di stare gridando, di stare finalmente sfogando la rabbia repressa, una sola frase di quattro parole: “MA LUI CHI È?”