Testo: Massimiliano Piccolo
Copertina: Bosco – Julio Armenante
Mentre se ne sta sereno in mezzo alla folla, pensa che sono già passati dodici anni.
È stato tutto così fulmineo ed istintivo. Un attimo prima se ne stavano tutti chiusi in casa, qualche ora dopo riempivano le piazze.
Il più grande raduno di sempre, la più sterminata manifestazione di ogni epoca avvenuta in piazza Duomo a Milano, a Piazza San Giovanni a Roma e a cascata ovunque, sino alle minuscole piazzette dei paesini di montagna; dalle Alpi alle spiagge gridava qualcuno.
La miccia che ha innescato la rivoluzione non è mai stata chiara, però tutti ricordano cosa accadde.
Prima uno, poi due, poi un altro ancora e in breve, brevissimo tempo, il fulcro di ogni piazza cominciò a riempirsi degli altissimi totem elettronici costituiti da smartphone. Scagliati con rabbia, oppure appoggiati con la più quieta delicatezza, poco cambiava.
In mezzo a tanti dispositivi, i più emotivi avevano scagliarono anche i caricabatterie che erano da subito apparsi un groviglio di serpenti neri in cima al capo. Una sorta di testa di medusa 2.0.
In quei totem ci finirono quasi tutti i telefonini. E quello rappresentò il momento del vero cambiamento. Oltre a questi enormi simboli di origine elettronica, nacquero assemblee di piazza e tutti provarono a rimanere concentrati. La gente iniziò a parlare, di nuovo, come aveva disimparato a fare qualche decennio prima.
Le assemblee, prima ad alzata di mano, poi attrezzate con un bastone o con qualche altro oggetto definito “della parola” cominciarono a pensare a come disegnare il prossimo, nuovo futuro. C’era chi ipotizzava svolta epocale, in quella piovosa giornata di inizio dicembre.
Le idee furono tante, forse troppe. Iniziarono a scorrere come un fiume in piena di parole e pensieri che ripresero a sgorgare da cervelli liberati dalle briglie di schede elettroniche e display illuminati di vite fittizie.
La gente si sentì di nuovo viva, libera. Avvertì la bellezza del contatto e la gioia del cambiamento.
Molti litigarono e poi fecero pace. Altri litigarono e se ne andarono in un’altra piazza.
Le assemblee avevano optato per lasciare i totem elettronici in mezzo alle piazze, di fianco alle statue e alle fontane per ricordare il momento della liberazione. Le riunioni spontanee duravano ore, giorni, in alcuni casi settimane. Qualcuno si era portato addirittura la tenda per riposare e accogliere a turno tutti gli altri, in attesa che si definisse qualcosa per il nuovo domani.
Non era facile riprendere a pensare e prendere decisioni. E molti si erano impauriti per la sensazione del troppo tempo disponibile. Parecchi avevano colto l’occasione per lasciare la schiavitù dell’impiego e il finto agio delle città.
Mandrie di persone avevano cominciato a dirigersi, a piedi, ognuno al suo passo ingobbito da anni di dipendenza digitale, verso gli antichi borghi disabitati, senza avvertire il bisogno di portarsi gli oggetti della vecchia vita appresso.
Tutti sapevano che si era perduto troppo tempo nella finzione. Si trattava di un nuovo inizio. Dovevano ripartire da zero e presero a costruirsi nuove esistenze senza che nessuno li comandasse, senza nessuno che indicasse, da quei malvagi sistemi elettronici, come odiare il prossimo per stare un po’ meno male.
Stavano riscoprendo la passione per la condivisione e la magia dell’autarchia. Stavano constatando che non necessitavano di massimi sistemi, di grandi istituzioni politiche o di imperi multinazionali per riuscire a stare bene, per tornare a essere liberi.
A lui sembra fosse accaduto ieri, anche se sono trascorsi dodici anni. In quell’istante di apparente follia collettiva aveva avvertito una strana sensazione che oggi non riesce più ad identificare. Gli pare si chiamasse scetticismo. Una parola strana, che nessuno utilizza più.