di Caterina Bonetti
Copertina: Senza titolo – Chiara Casetta
Il carro funebre semplicemente non si era aperto. Un guasto alla chiusura centralizzata e nessuno era stato in grado di sbloccarlo.
Nella cappella la gente si sventagliava, la cantante aveva ormai perso la voce intonando senza fine Ricordati di me signore e i chierichetti sedevano sui gradini dell’altare, il cellulare in mano.
“Provare dall’interno è impossibile” l’autista, dopo una lunga telefonata con l’officina, era stato lapidario “non riusciremmo ad arrivare al portellone, nemmeno salendo sulla cassa”.
Nessuno, in ogni caso, si era offerto di tentare.
“Bisognerà aspettare il meccanico”.
Così il parroco ha benedetto la salma dal sedile passeggero e svolto un funerale veloce sul sagrato.
Quando è scesa dall’auto, nel piazzale non era rimasto nessuno: solo il carro funebre parcheggiato all’ombra di un larice e l’autista, impegnato al telefono.
Sono convinta che l’abbia voluta aspettare.
Paola l’ho conosciuta che ormai non c’era più. Della ragazza che aveva sfidato in bicicletta i fascisti durante la Resistenza, della donna che, sempre da sola, aveva studiato, lavorato, curato la famiglia non era rimasto niente. Non fosse stato per un vecchio album di fotografie e la memoria tenace di Rocco, suo marito che, mostrandogliele, cercava di trascinarla fuori dal suo mondo.
Si erano conosciuti già avanti negli anni.
“Sono vedova” gli aveva detto durante una pausa, appena usciti dalla pista del liscio “vedova di famiglia” aveva aggiunto. “Ho passato una vita a prendermi cura di tutti, ogni volta che c’era bisogno e ora, che potrei aver bisogno io, non è rimasto nessuno”.
Non aveva figli Paola, non ne aveva nemmeno Rocco. Lei, ultima di cinque sorelle, era rimasta a casa a curare i vecchi, come si usava, finiti i soldi per la dote. Insegnava alle scuole elementari, quando poteva prendeva l’auto e andava al mare. La patente l’aveva presa, come la macchina, coi suoi soldi che “una volta guadagnati non sarò mica matta a metterli via per darli poi al primo che passa”. Si era anche innamorata da giovane, aveva ricevuto baci e promesse, ma i soldi, allora come ora, facevano la differenza. A Rocco invece i figli non erano capitati, anche se era stato sposato e, forse proprio per questo, passato qualche anno tutto era finito.
“Un po’ mi dispiace di essere divorziato” le aveva detto poco prima di riprendere a ballare.
“Perché?” gli aveva chiesto.
“Perché non potremo sposarci in chiesa” aveva risposto con aria seria e lei era scoppiata a ridere.
Si erano rivisti al ballo la settimana dopo e quella dopo ancora. Paola era bella, ballava solo con Rocco e gli altri ballerini, invidiosi, a un certo punto le avevano messo in testa un tarlo: “Dice così a tutte, ma la fede la tiene in auto, se la sfila per il ballo”. Lei non si fidava delle malelingue, ma nemmeno dell’amore, così aveva fatto una cosa che nessuno fa mai: aveva chiesto.
“Certo che sono divorziato! Ma cosa gli viene in mente a quei cretini? Invidiosi, ecco cosa sono! Farebbero meglio a occuparsi delle loro vite al posto di ciarlare su quelle degli altri”. Paola però non era convinta e non lo era stata per settimane, fino a quando un giorno Rocco, impensierito dalla stretta, sempre più leggera, intorno alle sue spalle durante il valzer, si era presentato sotto casa sua con una busta: “Tieni, controlla pure”.
Lei era rimasta ferma, la busta fra le mani e l’aria stranita.
“Sono i documenti del mio divorzio. Firmati, s’intende. Metterci d’accordo su questa cosa: uno dei più bei regali che ci siamo fatti con mia moglie. Mai avrei pensato che oltre che bello sarebbe stato anche utile un giorno”.
Si erano guardati per un istante, come se fosse una prova, lui aveva trattenuto il respiro.
Mi raccontava spesso di quella giornata: “Quel giorno mi son detto: O la va o la spacca. Potrebbe prendermi per matto, ma la vera follia sarebbe rovinare tutto per una sciocchezza. Così ho provato”. Alla fine aveva sorriso e non aveva nemmeno guardato quei fogli: “Peccato per la chiesa”, gli aveva detto. Era andata bene.
La prima volta Rocco non c’era. I vicini l’avevano chiamato dicendo che Paola stava poco bene. L’avevano trovata seduta su una panchina, a pochi metri da casa, in pantofole. Vicino a lei il sacchetto della spazzatura.
“Per fortuna vi ho incontrati! Mi devo essere persa in questa zona nuova del quartiere”. Sulle ginocchia frammenti di una lista della spesa.
Il dottore non aveva lasciato molte speranze, le stesse che, qualche anno dopo, non aveva dato a lui, quando si era presentato sperando in una diagnosi clemente per il suo costante mal di testa. Nemmeno Paola c’era quella volta, era già da noi, già lontana.
Lui è venuto a trovarla ogni giorno finché ha potuto. Ogni volta, andandosene con un nome diverso, ripeteva “Oggi non è una buona giornata, ma non si è mica dimenticata del suo Rocco. Lo sa, lo sa”.
Paola si è avvicinata al carro funebre, i fiori appoggiati alla portiera, insieme alla lapide provvisoria. Osservava la foto, a fianco il nome e le due date.
“È una bella foto” le ho detto “vero?”.
Un bisbiglio, un filo di voce.
“Cosa dici Paola?”
“Guardalo, il mio bel ragazzo…” ha sospirato, appoggiando la mano sul portellone. Era lì, di nuovo in quella voce, con lui. Poi il carroattrezzi è entrato nel piazzale e lei se n’è andata.
“Domani andiamo a trovare la mia mamma?” mi ha chiesto sorridendo.
“Andiamo anche subito Paola. Ormai è ora di salutare”.
Quando il dolore “come la neve non fa rumore”, ma il freddo lo senti fin dentro le ossa.
Brava Caterina.