Testo: Federico Zagni
Copertina: la foto e le successive rielaborazioni sono di Isabella Roma
All’epoca ero vice-capo-redattore dell’Herald da Kuala Lumpur. Non male come vita, non fosse che, da quando ci avevano delocalizzato, per tagliare i costi,i buoni pasto venivano assegnati sulla base dell’altezza, e io purtroppo ero solamente un metro e settantacinque centimetri. In realtà sarei stato un metro e settantasette, però appena mi ero trasferito in Malesia mi ero come ritirato. Forse per il caldo, o per quella sensazione schiacciante che la vita procede anche quando ti preoccupi di non invecchiare. Avevo trentasette anni, che non erano tanti, ma non erano nemmeno pochi. Erano troppi, se capite cosa intendo, e mi davano proprio quella sensazione schiacciante di essere finito fuori dalla gioventù senza possibilità di replicare, eppure senza veramente rendermene conto. Certo è che a quei tempi trentasette anni erano come oggi cinquantaquattro. Il tempo si è dilatato, con le mirabolanti progressioni dell’industria medica, il siero e quelle robe. Mai preso siero, comunque, non farebbe per me.
Mentre salivo la scaletta argentata del minuscolo Boeing supersonico, avevo capito benissimo che mi trovavo di fronte all’intervista più importante della mia vita. Lo sapevo, lo sentivo. In redazione tutti mi avevano menato grandi pacche sulle spalle, invidiosi della mia botta di fortuna. Sentivo le mani fremermi di gioia, ansiose di posarsi sulla tastiera, preoccupate solamente di non riuscire a trasmettere al documento virtuale sul mio computer tutte le parole che sarebbero scaturite dalla mente geniale di Kart Varitski, insieme a tutti i pensieri che mi passavano per la testa a velocità supersonica, come quella del gioiellino su cui stavo salendo.
E mi aggrappavo al corrimano platinato della scaletta supersonica del misterioso Boeing rombante, il Valkiria, a cui non avevano neanche fatto spegnere i motori. Non ero molto felice di dover fare quell’intervista sul jet supersonico, perché all’epoca ancora non mi piaceva ancora tanto volare, come invece adesso. Però mi rassicurava sapere che sul minuscolo Boeing ci sarebbe stato sicuramente alcoool a volontà. Sì, anche allora l’alcool era la nostra principale fonte di rassicurazione nonché, alternativamente e parallelamente, di svago. L’unica differenza è che allora l’alcool si chiamava alcoool, in omaggio ad una nota marca di alcolici dal nome, appunto, Alcoool. La “o” aggiuntiva poi venne pignorata per faccende mai chiaramente risolte sulla legislazione alimentare e sui marchi, cose che non ho mai veramente capito a fondo.
Mentre mi tenevo al corrimano platinato Kart si era affacciato sulla scaletta. Era la prima volta che lo vedevo dal vivo, e dio, se era splendido. Ho detto dio, ma all’epoca non credevamo veramente in dio come invece avviene oggi. Eppure Kart sembrava veramente un dio, la luce del sole a tre quarti lo colpiva come uno schiaffo e la sua chioma bionda sembrava bruciare di vita e di passione.
«Perdio, saliamo» mi aveva gridato, e io mi ero affrettato a completare la salita, sempre ben avvinghiato al corrimano biondo platino anche lui, per poi accomodarmi sul sedile più vicino all’ingresso dell’aeroplano. Il Valkiria era costruito con più vetro e specchi che alluminio, e mi sembrava tutto così scintillante, all’interno del jet, che mi ero dimenticato di preoccuparmi del decollo, che mi prese alla sprovvista togliendomi il fiato.
«Andiamo su, eh, andiamo su,» sghignazzò Kart, mentre si scodellava un bicchierone di vodka gelida. «Offrirei, ma ti vedo abbastanza impegnato a reggerti al sedile.»
Io non risposi, troppo preoccupato a controllare con le mani la qualità della stoffa del sedile su cui ero seduto, cercando con la forza delle dita di trovare eventuali cedimenti alle cuciture, strizzandolo forte. Il problema di avere gigantesche finestre su un jet è che ti pare di stare appeso nel cielo. Quando finalmente l’aereo si fu portato in soluzione di crociera, stabile e orizzontalizzato, mi concessi il lusso di staccare le mani dal sedile, e stringerne una al vecchio Kart.
Dico vecchio ma è un modo di dire, perché all’epoca il vecchio Kart aveva solamente quarantotto anni, era nel fiore degli anni. Non giovane come oggi, che ne ha solamente trentasei a dire il vero, considerata la correlazione anni / anni percepiti, ma si sa, lui il siero ha iniziato a prenderlo da subito.
«Si vola, eh,» borbottai io, più per mettermi a mio agio che per esigenze di conversazione. Di chiacchiere ne avremmo fatte tante, quel giorno, il vecchio Kart non era certo uno di poche parole, e mi ricompensò con una mano sulla schiena e una strizzatina ai testicoli, che, se mi fece male, di certo ringalluzzì la mia autostima. Negli ultimi ventun anni Kart aveva concesso solamente sedici interviste, e la mia era una di queste. C’era motivo di sentirsi orgogliosi, anche perché ero stato proprio io a trovare il contatto con il suo editore, io a insistere per l’accordo commerciale, a intercedere con il mio capo, e a trovare la finestra utile di un giorno necessaria per l’intervista.
«Per un pelo,» disse Kart osservando preoccupato il sole alle sue spalle dall’oblò posteriore dell’aereo. «E quindi, quando durerà questa nostra intervista?» mi chiese sorridendo.
«Certamente non più di un giorno,» ribattei, ridacchiando stupidamente. Certo non era una gran battuta, l’avevano fatta in molti, ma ormai era quasi obbligatorio fare un qualche riferimento al giorno Kart. Ogni intervista in pratica verteva solo su quello, sulla sua decisione di vent’anni prima. La mia sarebbe stata diversa, mi ero preparato tutte le domande in anticipo per essere sicuro di non svicolare più di tanto.
«Vado a farmi un drink, ne vuoi uno?» chiese lui, allontanandosi da me per un istante.
«Lo berrei volentieri, un old daiquiri ma senza ghiaccio,» risposi io.
«Temo che qui non ce l’abbiamo. Ti va un black russian?»
Io annuii, un po’ deluso.
«Immagino mi vorrai chiedere del mio giorno Kart,» disse poi, mentre shakerava vigorosamente, mettendo in mostra la sua muscolatura abbronzata, che brillava sudata grazie alle luminose plance trasparenti dell’aeromobile. «Mi vuoi chiedere “come è andata la tua giornata?” o forse vuoi sapere cosa farò domani,» rise compiaciuto.
Io glissai. «Beh, Kart, di quello si è parlato davvero tanto. Ne ho letto su tutti i giornali, per questo pensavo magari di iniziare con un po’ di domande sul tuo primo romanzo, e poi passare a…»
Ma Kart non mi fece terminare, e con gli occhi lucidi di gioia si mise a raccontare, versandomi un black russian più russian che black.
«Il mio primo romanzo, ah, che ricordi. Quando ho scritto Miserandia dovevo ancora iniziare il mio giorno Kart, era un periodo veramente magico. Ricordo che ancora dormivo, pensa che spreco. Per questo Miserandia è stato solo di quattrocentodiciassette cartelle. Se lo avessi scritto qui sul Valkiria, lo avrei fatto lungo almeno il doppio. No, Miserandia è stato un bel capitolo della mia vita, ma sinceramente nulla a che spartire con quanto ho fatto dopo. Il mio giorno dorato doveva ancora iniziare, quello è stato solo il propellente che ha concesso al razzo di decollare, se mi passi la metafora.»
Io annuii, e chiesi nuovamente: «C’è chi dice che Miserandia sia stato invece l’ultimo, vero romanzo del primo secolo, e che “tutta la tua opera successiva sia stata solamente un pallido riflesso del fulgore originario”. Sto citando Topazi, che dice che secondo lui il personaggio di Mickail è nato con Miserandia, ed è sopravvissuto per i successivi quattro sequel, ma che in realtà è virtualmente morto alla fine del primo romanzo, quando si separa da Alexandra e si fa praticare la lobotomia parziale per sopravvivere al dolore. Cosa risponderesti a queste critiche, se avessi Topazi qui davanti?»
Kart appariva fremente di rabbia. Sembrava soppesare l’ipotesi di scagliare il bicchiere contro alla parete del velivolo, ma ricordo di aver pensato che non lo facesse per il tedio che gli avrebbe causato doversene versare un secondo, o forse per la paura di poter danneggiare in qualche modo la delicata struttura del gioiellino tecnologico che era quel jet a propulsione solare.
«Topazi? Topazi è uno scribacchino da strapazzo che ne capisce di libri come io ne capisco di… di…»
Nello sforzo di trovare una competenza che potesse considerarsi estranea, Kart si innervosì ancora di più, e rovesciò parte del cocktail sulla pregiata angora dello scafo.
«Topazi può anche baciarmi le chiappe, non lo scrivere questo, nell’intervista, aspetta. Topazi… Topazi…»
Kart si mise a rimuginare concentrato, in cerca di un insulto che lo facesse apparire sagace almeno quanto Topazi fosse idiota.
«Ecco. Scrivi questo. Topazi è un pennivendolo che vive alla giornata, e non può capire chi ha fatto della giornata la sua unica ragione di vita.»
Io sospirai, iniziando a sentirmi sopraffatto da tutte quelle battute sul giorno Kart e compagnia bella.
«Kart, visto che siamo arrivati in argomento, vogliamo parlare un po’ del giorno Kart, prima di passare ad analizzare i sei romanzi del ciclo della Memoria?» chiesi, più per concessione nei suoi confronti che per un reale interesse.
Kart allargò le braccia, con finta modestia, accoccolandosi sulla poltroncina di fronte a me.
«Beh, è presto detto. Dopo il mio primo romanzo, ho deciso che dormire non faceva per me. Ho capito che la notte era una stortura del creato, un’incongruenza della vita che andava risolta, e pertanto, mi sono organizzato. Come sai, le vendite di Miserandia sono andate molto, molto bene. Nel giro di un mesetto ho potuto comprare il Valkiria, e mettermi a gironzolare sul globo terracqueo. Sempre, rigorosamente, da oriente a occidente,» ammiccò.
Io annuii, fingendo di sentire queste informazioni per la prima volta.
«C’è chi dice, chi insinua, proseguii, che la vera ragione del tuo, diciamo, salto delle notti, della tua rincorsa alla luce, sia una recondita paura del buio. Cosa rispondi a…»
«Chi insinua? Topazi?» mi interruppe urlando, calmandosi subito dopo, a un mio cenno di diniego.
«Comunque, sono fandonie. Io posso facilmente resistere in condizioni di buio per diversi minuti, da sveglio o dormiente, senza alcuna difficoltà. Ho solamente deciso che non voglio più vedere un tramonto in vita mia. La vita è troppo breve per spendere tempo nelle notti buie. Io voglio fare festa, gioire, scrivere di vita, scopare, e bere. Voglio vivere una giornata di festa infinita.»
«Lo sai,» ghignò «quand’è stato che ho deciso tutto questo, e ho preso la risoluzione di non dormire mai più, e di non vedere mai più una luna?»
«Quando?» sospirai io, finto interrogativamente.
«Ieri» rispose, e rise sguaiatamente. I drink che si era versato iniziavano a fare il loro effetto.
Io ripresi subito a parlare, con una secca, incalzante domanda.
«C’è anche chi dice che quello che tu chiami il giorno kart non sia veramente un’unica giornata, perché in questo tuo viaggio la linea del cambio di data viene attraversata più volte.»
«Ma tu sei qui solo per riportarmi delle insinuazioni?» ribatté lui, improvvisamente calmo.
Lo ammetto, il mio desiderio segreto era in effetti quello di fargli perdere le staffe. Non dimentichiamo che all’epoca purtroppo la condizione economica della carta stampata era disastrosa, e per risollevare un po’ le vendite cosa c’era di meglio di una notiziola succulenta su un pestaggio giornalistico ad alta quota? Ero disposto anche a farmi spaccare due o tre denti, per la causa. Ma Kart era troppo intelligente, e aveva subito smascherato le mie intenzioni.
Kart si avvicinò alla parete ricurva di fronte a lui, indicandomi un calendario impolverato.
«Lo vedi questo? Ogni volta che vedo sorgere il sole, strappo un foglio.»
Io annuii.
«E quindi, mi vuoi dire che data segna oggi?»
«Certo Kart, capisco il tuo punto di vista, ma… devo anche ammettere che stamattina, quando mi sono svegliato, il mio calendario personale indicava il ventotto luglio del…»
«Ta, ta, ta ta ta…» mi zittì subito lui, come per non udire nemmeno le parole che stavo pronunciando.
«Non puoi parlare del giorno Kart se non l’hai vissuto. Forse è ora di farsi un drink, cosa ne dici» concluse.
Io risposi che lo avrei bevuto volentieri, tutto quel viaggio in pieno sole mi stava mettendo parecchia sete.
«Sai cosa facciamo,» sbottò. «Vediamo un po’ dove siamo, scendiamo, e andiamo a cercarci un old daiquiri come piace a te.»
Io rimasi interdetto, dopotutto non è che desiderassi quell’old daiquiri al punto da far arrestare un volo internazionale.
«Non c’è problema, non c’è problema,» disse lui, bloccando sul nascere le mie proteste.
«Vado un secondo di là a sentire dal comandante dove possiamo trovarne uno. Se non sbaglio, adesso a occhio e croce dovremmo essere sopra la Somalia.»
Io rimasi imbarazzato in attesa, mettendomi a scrutare l’interno del Valkiria. Gli altoparlanti trasmettevano ininterrottamente musica dei Depeche Mode, ma non quelli del novecento, i cloni moderni fatti in provetta. A un’occhiata più attenta mi accorsi che i fasti del passato erano ormai solamente spettri, l’aereo si mostrava con un misto di lussuoso e derelitto, come un’anziana attrice rifatta che non vuole appassire, eppure fa di tutto per spappolarsi quel poco che resta della sua faccia con il botox. All’epoca, invecchiare era una gran brutta roba, prima del siero. Eppure, anche oggi, alla fine a pensarci non è che sia molto diverso. Prima o poi si muore, che tu sia giovane o vecchio, solo che la quantità di noia che nel frattempo hai accumulato serve più o meno a farti agognare il momento del trapasso, che arriva con una sorta di felicità senza vigore, come quando dopo ore di zapping notturno ti accorgi che ti stai per addormentare, e proprio in quel momento finisci sul canale con il tuo filmogramma preferito che non vedi da undici anni.
Dopo quindici minuti passati senza veder ritornare Kart mi diressi nel disimpegno verso la cabina di pilotaggio, per capire che fine avesse fatto. Lo trovai su una poltroncina dell’equipaggio, semisdraiato e con gli occhiali da sole sulla faccia, che russacchiava con un filo di bava a colare. Ricordo di aver pensato che era un bruttissimo spettacolo, nonostante la sua bellezza e teofanica apparenza e compagnia bella, e subito dopo avevo pensato che stesse dormendo della grossa. Subito dopo ancora ero stato preso dal terrore che fosse caduto nel sonno per la prima volta dopo ventun anni, e che fosse per causa mia. Probabilmente ero la persona più noiosa di tutte le circumnavigazioni del globo in ventuno anni suonati. Solo alla fine di tutti questi pensieri Kart si scosse, asciugandosi la bocca con il dorso della mano, e riprendendo il bicchiere dalla moquette lisa, mi confermò che non stava dormendo, ovviamente, stava solo riposando gli occhi.
«Sai» mi disse, «con tutto questo volare in mezzo alla luce, gli occhi si stancano, sono importanti gli occhi, per uno scrittore.»
Io annuii, sollevato.
Alla fine tornammo nella saletta principale, dove ci riaccomodammo sulle nostre poltroncine con i nostri cocktail. Io volevo proseguire con le domande ovviamente, ma Kart mi disse che c’era tempo, e iniziammo quindi a parlare del più e del meno. Lui mi chiese cose molto personali, il mio rapporto con mia madre, quando era stata l’ultima volta che avevo fatto sesso, cosa ne pensavo delle politiche secessioniste in Argumenia. Io risposi a tutto un po’ stupito, ma in fondo in fondo felice che un personaggio così popolare come lui fosse interessato a me.
«Se dobbiamo stare insieme tutto il giorno, meglio che iniziamo a conoscerci,» concluse lui.
Dal quarto beverone che ci sparammo non ricordo più distintamente gli eventi, tutto precipitò in una spirale luminosa fatta di noi che ci facevamo beveroni, mescolando rimasugli dai bicchieri, noi che correvamo per il corridoio dell’aereo ridacchiando come bambini e noi che tiravamo spallate in simultanea alla coda dell’aereo per vedere se ci riusciva di farlo inclinare (cosa che per inciso sono certo siamo riusciti a fare, e difatti il comandante era venuto di dietro a dirci di piantarla di fare i coglioni). A un certo punto, mentre eravamo passati anche a robine più pesanti, e Kart riposava gli occhi sdraiato sul pavimento, osservando la mappa digitale sul monitor dell’aereo mi accorsi che eravamo nuovamente su Kuala Lumpur. Era arrivato momento di scendere, eppure sarei rimasto per giorni. Senza contare che non avevo praticamente nulla da scrivere per il mio articolo. Avrei fatto come sempre la figura dell’idiota.
Allertai Kart, che si alzò di scatto barcollando e dicendo, con la bocca impastata, «solo riposando gli occhi, riposando gli occhi.»
Gli spiegai che era stato un piacere ma che dovevo scendere, perché eravamo di nuovo nei pressi di casa mia.
«Non se ne parla» disse lui, stropicciandosi gli occhi. «E poi non abbiamo neanche iniziato a parlare veramente. Non ci siamo neanche conosciuti bene, si stava creando un certo legame» mi disse anche.
Io annuii con aria grave, dentro di me saltavo di gioia.
«Dai, rimani fino al tramonto, mi disse con una strizzatina d’occhi.»
Così io scrissi al mio capo capo-redattore, informandolo che urgenti novità mi trattenevano sul Valkiria ancora per un giorno almeno.
E noi proseguimmo il nostro viaggio intorno al mondo, tra beveroni e domande.
§
Da allora risuperammo Kuala Lumpur diverse volte, nel nostro viaggio liminale da alcooolisti ipnotizzati. Scendemmo sulle piste di Bogotà, Fortaleza, Mombasa. Partecipammo a feste sulla spiagge brasiliane, aperitivi su palazzi messicani, e ogni tanto deviavamo dalla linea equatoriale per andare a vedere le rovine americane, o scendevamo sull’Euroanglia, quando c’era qualcuno di quei famigerati Brexit rave party che duravano fino al mattino ed oltre.
Lentamente la luce solare battente mi era penetrata nel cervello, e non avrei saputo dire veramente da quanto eravamo in viaggio. I miei sonni si erano fatti rarefatti, come l’aria d’alta quota, e i miei sogni si erano sfilacciati al punto che ormai rappresentavano solamente immagini pubblicitarie e lisergici fotogrammi di film porno d’antan. Quando il sogno era sul più bello, e stavano per rivelarmi qual era il prodotto della réclame, oppure quando l’idraulico forzuto aveva finito di stringere la vite sotto al lavandino della casalinga annoiata e ansiosa di ricompensarlo, mi svegliavo di soprassalto, come per un vuoto d’aria. Anche io avevo iniziato a non dormire più, o a non riuscire a ricordare di averlo fatto, che in fondo era la stessa cosa. Mi tornava sempre in mente quella frase di Kart, lo sai, per davvero, perché non dormo mai? Dopo vent’anni che non dormi, se ti addormenti probabilmente non ti sveglierai più.
Poi Kart si era progressivamente disinteressato a me, ogni tanto scriveva ossessivamente sul suo fonologramma, ogni tanto si riposava gli occhi, ma non parlava quasi più. Nel giro di poche rotazioni sul globo terrestre eravamo diventati due estranei, ognuno vagante nel suo angolino del Valkiria, e non ci incontravamo ormai che davanti al frigobar, salutandoci con un distratto “ehi”.
§
Alla fine decisi che dovevo fare qualcosa. Avevo architettato un espediente che mi aveva fatto sentire astuto come Ulisse, e organizzato una festa clamorosa in piena repubblica cinese, sul palazzo più alto di New Tokyo.
Kart inizialmente era restio, iniziava ad averne abbastanza di tutte le feste, dopo vent’anni, sai, anche le feste iniziano a venire un po’ a noia. Feci di tutto per impedire che si riposasse gli occhi durante il viaggio, e quando finalmente fummo sulla penisola giapponese, Kart era distrutto.
«Vai tu» mi disse, «io proprio non me la sento.»
Ma io fui persuasivo, e lo trascinai giù.
Durante il viaggio dall’aeroporto alla festa, Kart era svogliato e preoccupato. Temeva di poter rimanere solo poche ore, il sole era già abbastanza basso sull’orizzonte, e quelle situazioni serali, lontane dall’aeroplano, lo mettevano sempre in difficoltà. Ma appena arrivammo alla festa, il vecchio, leonino Kart si ridestò, e si mise a mescere bevande e scherzare con le dolci cinesi dagli occhi sottili come se non ci fosse stato un domani. E in effetti.
«Una di queste ce la portiamo anche sul Valkiria,» mi disse ammiccando alla fine.
Poi, come previsto, il buon vecchio Kart iniziò ad accusare il colpo. Diede un’occhiata all’orologio, una meraviglia eurosvizzera che si auto sincronizzava sul fuso orario in cui si trovava, constatò che avevamo ancora un’oretta scarsa prima di dover ripartire per l’aeroporto, e mi disse «me ne vado in camera con questa Chun Ling, a farmi riposare gli occhi da lei.
Io lo attesi una mezz’oretta prima di salire in camera. Chun Ling non c’era più, il buon vecchio Kart riposava gli occhi ronfando della grossa. E invece di scuoterlo e riportarlo in aeroporto, portai a compimento la mia vigliacca idea malsana. Mi sentivo spregevole, ma tutto quello che ha un inizio ha anche una fine, le cose belle non durano per sempre, un bel gioco dura poco e compagnia bella.
Insomma, misi su silenzioso il suo fonologramma spegnendo la sveglia, misi il mio alla finestra che si ricaricasse al sole calante quel tanto che bastava per fare qualche ologramma di qualità, e con il gelo codardo nel cuore mi misi ad aspettare. Ci volle una mezz’ora. Una mezz’ora in cui la luce si sciolse lentamente come marea calante, la luna salì luminosa e bicolore come sempre, con la sua bella pubblicità della Pepsi a farci compagnia da trecento ottantamila chilometri spaziali di distanza, e la mia mente mi convinceva sempre di più che avevo fatto una cazzata.
Quando Kart aprì gli occhi, sputacchiando un “ehi, come butta ragazze, mi ero solo messo a ripensare a ricordi passati con gli occhi chiusi” mi alzai in piedi di scatto, spaventato dalla resa dei conti.
Kart, allarmato, capendo che qualcosa non andava, si alzò anche lui, e sotto alla sua abbronzatura da troposfera vidi affiorare il pallore malaticcio del panico.
«Che ore sono, che cazzo di ore sono. Perché non mi hai svegliato.»
Io mi sforzai di rimanere calmo, gli dissi che ormai tra di noi le cose non funzionavano più, e che era ora di dare una scossa alla nostra giornata sul Valkiria.
Mi ero preparato un complicatissimo discorso fatto di desideri, responsabilità, di piaceri del sonno e sospiri del vento di notte. Ma Kart mi scansò con il suo braccio muscoloso, «e levati dalle palle.»
Questo mi ferì. Ma comunque lo inseguii gridandogli di fermarsi per favore, lungo tutto il corridoio dell’attico, e poi giù per i centoventotto piani del palazzo. Fu un po’ imbarazzante in ascensore, dove non potevo inseguirlo drammaticamente, per cui ognuno di noi si mise distrattamente a scrutare sul proprio fonologramma. Poi, in strada, mi aspettavo vederlo chiamare un taxi per fiondarsi all’aeroporto, ma lo vidi invece correre nella direzione contraria, verso il sole ormai a metà sull’orizzonte, nel tramonto più luminoso che avessi mai visto.
Lo ripresi con il mio fonologramma con una splendida sequenza tridimensionale, che il mio capo capo-redattore mi avrebbe lodato e che mi avrebbe fruttato almeno un migliaio di sterlidollari, oltre alla notorietà nazionale. Ero stato un codardo, ma almeno avrei avuto qualcosa di più di trenta denari. «Mio caro Kart» pensai, «a questo mondo c’è ancora qualcuno che deve lavorare, per vivere.»
Intanto che pensavo lo riprendevo, zoomandolo, sempre più piccolo all’orizzonte, che si allontanava verso il sole correndo a perdifiato e urlando «aspettami, perdio, aspettami, e risali che sto arrivando.»
E questo, miei cari, è stato quel giorno migliore della mia vita di cui vi avevo accennato in passato.