Testo: Daria Tombolelli
Immagine: La strada di casa – Julio Armenante
Sbattono leggere le foglie una sull’altra sotto questo cielo e dentro questo vento di agosto – un brivido increspa la pelle. Oggi non è solo l’ultimo giorno d’estate. Oggi è anche il giorno in cui finiamo questa cosa piccola che ci giriamo tra le mani da un po’.
Il finestrino è aperto mentre attraversiamo la città. Infilo la testa fuori e allora togli una mano dal volante e mi tiri dentro prendendomi per un lembo della maglia. Nel farlo sbandi un poco ma riprendi subito il controllo. Hai la faccia seria di quando sei impegnata a fare una cosa importante. La stessa che avrai questa sera quando ti dirò che per me è finita qua. Questa è la fine, la vedi la fine? Solo che quella di stasera sarà rigata da piccole gocce di pianto che scenderanno dagli occhi seguendo la linea del tuo bel naso grande, uno scherzo al centro del viso, fino alla metà increspata delle labbra. Perché io lo so che le lacrime su di te prendono una direzione tutta storta e inaspettata.
Intanto però siamo qui. Con un colpo secco mi tolgo le scarpe e metto i piedi nudi sul cruscotto. Non stacchi lo sguardo dalla strada ma sento che mi guardi con la stessa tenerezza con cui avanzi pretese su di me, sulla mia educazione alla vita, “allo stare al mondo”, come diresti tu.
Il tabacco si è aperto nello zaino e allora ne tiro fuori dei grumi uno alla volta e li butto dal finestrino. Poi con dei movimenti circolari della mano cerco le cartine e i filtri e giro due sigarette. Te ne passo una e ti avvicino l’accendino quando l’hai messa tra le labbra. Allunghi il collo verso di me e alcuni fili di tabacco rimasti penzolanti si infiammano, producendo piccole braci che si liberano nell’aria e cadono piano sospinte dalle correnti. Poi accendo la mia e prendo dentro dei pezzi di aria inspirando forte come se stessi tirando via del veleno dal morso di un serpente. Penso che se fossi tu ad essere stata morsa io avvicinerei le labbra alla pelle malata, al punto dove i denti hanno lasciato il segno, e aspirerei prendendomi il veleno.
Superiamo le vie del centro e attraversiamo la zona industriale con i suoi negozi chiusi per sempre e le sue insegne al neon. Poi imbocchi la strada che porta in collina, scali la marcia alla prima salita ma ne metti una troppo bassa e la macchina tossisce, allora premi la frizione di nuovo e spingi un po’ sull’acceleratore. Vedo i muscoli della tua coscia tirarsi e ci metto una mano sopra, distrattamente, dando dei piccoli colpi come si incoraggia un cavallo a ripartire più veloce. Dopo qualche chilometro in silenzio arriviamo al belvedere. Parcheggi di lato alla strada nel buio e dici che così non la vedono, la macchina, e non vengono a romperci i coglioni.
Da quassù la città ci sembra una New York sgualcita che si stende ai nostri piedi docile e addormentata. Allora allarghi le braccia e me le passi intorno alla vita e appoggi la testa sulla mia spalla. È come se sentissi dei pezzi del mio corpo cadere e tu li raccogliessi uno ad uno porgendomeli con grazia perché io possa ricompormi piano e tornare intera. Ora le nostre guance si toccano e gli occhi guardano nella stessa direzione giù, in fondo, dove finisce tutto. Percorriamo planando i cinque chilometri che ci separano in linea d’aria dalla casa. Passiamo sopra la piazzetta, sopra le teste degli altri fermi in posa fuori dal bar, con le birre in mano e i sorrisi di chi ha tutto anche se non ha niente. Passiamo sopra a quel che rimane della cabina telefonica. Passiamo sopra il tetto della scuola elementare, della scuola media, della fermata dell’autobus che abbiamo preso ogni mattina per andare a scuola quando ci nascondevamo all’ultima fila dietro i sedili di formica a sobbalzare ad ogni curva e scambiarci le mani. Poi, quando arriviamo alla casa, entriamo dalla finestra del soggiorno e siamo sopra la testa di mio padre e mia madre. Allungo un braccio e te li indico. Questo è il motivo per cui questa cosa deve finire. Questa è la fine. Cate, la vedi, la fine?