Periplo #2 – Tornado Postkarte

Copertina e testo di Mattia Grigolo

Davanti all’Urban Spree un uomo era caduto in una pozzanghera. Assomigliava a una blatta rovesciata. L’elegante vestito nero si era inzuppato, la camicia bianca era spacciata. Si gelava, era notte, febbraio. Mi ero avvicinato e avevo provato a sollevarlo, ma era ubriaco, un peso morto. Temevo annegasse. Lo pregavo di collaborare. Marco era venuto in mio soccorso e lo aveva messo in piedi senza grande sforzo. Io sono alto e grosso, ma Marco è una specie di gigante: però si era allontanato perché era pieno di fango. L’uomo era anziano e si era accasciato a me quasi senza peso, abbracciandomi. Eravamo rimasti così, a lungo. Lui piangeva e io lo coccolavo. Ripeteva: mein Geburtstag e piangeva. Mein Geburtstag e ripeteva anche gli stessi lamenti. Poi Chiara aveva detto ora basta ed Ercole aveva detto di lasciarlo lì. Silvia gli chiedeva dove fosse diretto, se avesse una casa, che lingua preferisse parlare. Lui aveva detto: Persisch e Silvia allora aveva risposto che il Farsi non lo conosceva, ma conosceva il numero dell’ambulanza. Lui allora se l’era presa con Marco, chissà perché, e gli aveva urlato contro che l’ambulanza non la voleva, probabilmente perché non aveva la Krankenkasse, l’assicurazione. Gegia diceva che se fosse rimasto lì sarebbe morto di freddo, bagnato com’era. Chiara aveva chiamato l’ambulanza e lui si era staccato da me, come scollato. Eravamo diventati una cosa sola di lacrime, coccole e fango. Era scappato. Fino a un attimo prima non si reggeva sulle gambe. Claudia aveva detto che se ne sarebbe andata e allora mi ero accorto che c’era anche lei, vestita con quella giacca da lupo nero, e c’era anche Teo che forse aveva bisogno di un’ambulanza. Ci eravamo spostati su Warschauer Straße. Avevo guardato nella direzione del Muro, di ciò che restava dell’East Side Gallery, e non ero riuscito a vederlo, coperto dall’Amazon Tower. Claudia mi aveva chiesto perché piangessi. Non se n’era ancora andata. Le avevo detto che era il mio compleanno. Era anche il mio compleanno.

Avevo detto a Fabrizio che non mi avrebbero fatto entrare al Lab.Oratory e lui mi aveva chiesto: warum? Avevo risposto: non posso, perché sono eterosessuale. Fabrizio aveva sorriso, aveva svitato il tappo a una boccia di Popper e l’aveva tappata con due dita. Aveva capovolto con un gesto secco e poi richiuso. Mi aveva passato le dita sul collo, dietro le orecchie, come a mettermi del profumo. Aveva detto che ora non ero più eterosessuale. Poi aveva detto: Ti devo far vedere le giumente. Il bouncer annusava la gente. Eravamo entrati. Al guardaroba mi avevano fatto spogliare nudo e avevano messo i miei vestiti in un sacco della spazzatura. Con un pennarello indelebile mi avevano scritto un numero sulla spalla. Fabrizio mi aveva detto due cose: il numero lo devi mostrare quando prendi da bere. Paghi tutto alla fine, quando recuperi i vestiti. E aveva detto anche: tu sei la mia ragazza. Mi aveva preso per mano ed eravamo entrati nel locale, nella musica, nella puzza di sperma. Mi reggevo una mano a nascondere il pene, camminavo come se avessi problemi ai menischi. Dopo un po’ non mi ero più sentito nudo. Ero vestito. Come tutti gli altri. Eravamo scesi nella Keller, la cantina. L’odore di sperma e di Popper e di feci era solido. Fabrizio aveva detto: eccole, le giumente.

Giò mi aveva detto: ma tu pensi mai a tornare in Italia? Gli avevo risposto che no, non ci pensavo mai. Mi aveva detto: certi giorni, tipo oggi, odio tutto. Poi aveva anche detto: forse ho bisogno di una fidanzata italiana.

Avevo messo dischi su una barca. Una specie di vascello pirata gestito da dei curdi. Era il compleanno di una tizia che non conoscevo. La proprietaria continuava a dirmi di abbassare perché la barca vibrava, la festeggiata urlava alza alza alza, la proprietaria allora ripeteva che ci avrebbe cacciati tutti e io avevo paura per i miei dischi nuovi e per il tizio a cui dovevo dare i soldi dell’mdma e che non avrei potuto saldare il debito se non fossi stato pagato o se la barca si fosse inabissata nella Spree. Facevo roteare la bottiglia da mezzo litro di minerale e parlavo con la voce di Capitan Uncino. Dicevo: Spugna, salpiamo!

Lui mi raccontava di quando era in Comunità, io gli dicevo che era un fratello per me. Non glielo dicevo con le parole, ma con gli occhi, con il fatto che, nonostante fossimo all’interno di una tempesta che stava spazzando via Friedrichshain, ero seduto al suo fianco ad ascoltarlo e a non lasciare che il tornado spazzasse anche lui. Raccontava di quando aveva festeggiato i ventitré anni in Comunità. Durante la colazione i suoi compagni gli avevano cantato tanti auguri, come lui aveva fatto con alcuni di loro in passato. Diceva: immagina di essere me, è il giorno del tuo compleanno e siedi in una stanza spoglia, davanti a una colazione misera, insieme ad altri venti tossici come te. Cantano perché è una regola, non perché lo vogliono fare. Se non cantano vengono puniti. Vivi la scena dall’alto, in terza persona, e l’unica cosa che desideri è non essere lì, non essere il festeggiato. Solo che sei sano e ti accorgi di essere un cazzo di niente. La tempesta era passata. Avevamo guardato il tornado allontanarsi, scoperchiare i tetti di Bänschstraße, diretto verso Samariterstraße e poi Rigaerstraße, dove si sarebbe arreso agli squatter. Ci eravamo alzati, allontanandomi mi ero accorto di non avere più il portafogli. Ero stato derubato. Lui aveva detto: è stato il vento. Poi avevamo sentito una voce. Qualcuno ci chiamava in tedesco. Un anziano reggeva tra le mani i miei soldi. Eccolo il vento, aveva detto Lui, che ogni cosa che nasconde, poi la libera di nuovo.

Tempelhofer Feld, Berlino.

Avevamo scopato al Berghain. C’era la gente in coda, in gruppi da tre, quattro, cinque. Aspettavano che si liberassero le celle per poter entrare e pippare, riempire le mezze minerali, scartare i francobolli acidi dai fogli di lsd, scopare anche loro. Lei mi aveva detto: vieni, entra che devo pisciare, e poi aveva sfilato le mutande e alzato la gonna. Aveva puntato le mani aperte ai lati della cabina e aveva aspettato che la prendessi. Avevamo scopato nei cessi del Berghain.

Di sopra, al Panorama Bar, c’era Sam, diceva che era andato a pisciare anche lui, dentro quei lunghi vespasiani a muro, con le pareti metalliche e senza sciacquone. Lui era da un lato, un tizio magro e a petto nudo era dall’altro. Il ragazzo era inginocchiato e raccoglieva il piscio di Sam, con le mani a conca, e ne beveva come un assetato. Diceva: ancora ancora ancora e Sam si era sforzato di averne ancora, voleva liberarsi di ogni suo liquido.

Il cimitero di St. Jacobi era immerso nella tranquillità, a parte le api che mi ronzavano attorno e a cui non badavo e delle ragazze che, al contrario, scappavano in tondo provando a scacciarle dai loro Schorle urlando Scheiße! e Oh Gott! C’era un bel sole e anche gli alberi erano belli. Il collettivo che si occupava delle attività del cimitero aveva accatastato delle vecchie lapidi in un angolo. Il marmo spezzato a dividere i nomi dalle date. Avevo scritto la parte finale del mio primo libro.

Claudia era partita per l’Italia perché la nonna era morta. Mi ha cresciuto lei, aveva detto. Io avevo cercato di ricordare cosa fosse successo la notte prima. Avevo sul telefono dei messaggi che raccontavano di un vecchio che avevo salvato dalle pozzanghere e dal freddo e dall’ambulanza. Allora avevo ricordato: ero sicuro di odiarlo, perché mi aveva tradito. Non era il nostro compleanno. Era soltanto il mio, ma nessuno se n’era ricordato. Invece qualcuno mi aveva mandato un messaggio dicendomi che ero stato carino, che passare un compleanno da soli, per giunta ubriachi, era una cosa deprimente. Per quel vecchio le tue coccole sono state importanti, anche se è un vecchio stronzo. Avevo scritto un messaggio e lo avevo copia-incollato a Gegia, Chiara, Marco, Silvia, Ercole e persino Teo che forse era in ospedale. Diceva: è deprimente non ricordare i compleanni. Ero andato al Tierpark Zoo Berlin. Nonostante fossi più vicino allo Zoologischer Garten. Ero andato fin laggiù perché Christiane F. mi è sempre stata sul cazzo. Una notte l’avevo incrociata in un bar sulla Weserstraße: aveva una tale faccia di cazzo. Gli animali dello zoo erano quasi tutti all’interno delle strutture, perché faceva troppo freddo. Ero rimasto per ore seduto su una panchina, guardavo uno scimpanzé semisdraiato su un tronco, mangiava qualcosa che pescava dal pelo. In quel momento mi era venuta in mente l’idea per un racconto.

Giò era stato a Londra per due anni, era andato in burnout ed era tornato a Berlino, si era tranquillizzato e aveva ripreso a respirare fuori dai sacchetti di carta, ma con l’inverno aveva cominciato a dire che voleva andare a vivere in un bosco, in Italia.

Avevo scritto un articolo per una rivista. Raccontavo la mia esperienza al Lab.Oratory: «La cantina era uno stagno. Lo immagino e lo rivedo così. Uno stagno grigio di notte, nel centro di un canneto di cemento armato. Quello che stava succedendo in quel luogo era molto di più di quello che conoscevo e di cui avevo sentito parlare. Era come scoprire l’enorme mostro che viveva nel fondale dello stagno. C’erano due file di una decina di ragazzi che partivano da un angolo dello stanzone e arrivano all’altro, dove poi, se la memoria non m’inganna, erano posizionati i neon che illuminavano l’intera stanza. Sotto a ciascuno dei due neon c’era un ragazzo di spalle che si faceva penetrare da uno dei ragazzi in fila. Quelli dietro aspettavano il loro turno, composti, in coda come a Gardaland. Questo per entrambe le file. I due ragazzi si facevano penetrare per trenta, quaranta minuti, forse di più, e non si voltavano mai, con le mani e gli avambracci poggiati al muro che trasudava. Quando il ragazzo di turno terminava il suo lavoro, quello immediatamente dopo di lui in coda prendeva il suo posto e ricominciava da dove l’altro aveva finito. Il ragazzo al muro continuava a non voltarsi anche al cambio del partner.»

A casa di Gegia, quando fumavo, aprivo la finestra che dava sull’Hinterhof. Restavo a guardare le finestre degli altri appartamenti, senza tende o persiane, senza alcuna protezione. Guardavo la porta che immetteva alle Keller del palazzo. Qualcuno, con una Montana rossa, aveva scritto: Fuck Fuck Fuck. Continuavo a guardarlo ogni volta che fumavo e alla fine mi era venuta in mente l’idea per un racconto. Sergio lo aveva letto pubblicamente durante un evento letterario a Roma e poi io lo avevo letto pubblicamente durante un evento letterario a Padova.

Al Renate c’è una stanza minuscola. La luce è un neon blu, il divano è bianco, ma grazie al neon anche il divano è blu. Dentro c’è una tastiera elettrica appoggiata su un cavalletto. I tasti neri sono neri, i tasti bianchi sono blu. Chiunque la può utilizzare. La stava suonando un ragazzo alto e bellissimo, con le dita lunghe e nodose. Era un ragazzo albero. Non sapeva niente di tastiere, ma ciò che ne usciva era psichedelico, splendido. Io ero sdraiato sulle gambe di Hennie e piangevo, continuavo a piangere ed Hennie non diceva niente. Aspettava.

Entrata della U-Bahn, Kottbusser Tor. Berlino.

Avevo incontrato Vincenzo Latronico in una libreria nei pressi di Rosenthaler Platz in occasione della presentazione di un libro di Francesco Pacifico. La proprietaria aveva provato a presentarci, ma lui aveva finto di dover correre alla Toilette e non era più uscito.

Facevo i check-in e i check-out per un’agenzia di affitto appartamenti. Durante un check-in in un monolocale a Prenzlauer Berg, una ragazza – una ballerina, mi avevano detto – si era messa a piangere mentre le spiegavo che per poter guardare la TV doveva prima collegare il decoder. Si era portata le mani al volto e si era nascosta, minuscola come una pochette. Durante un check-out a Moabit, avevo trovato il frigorifero incrostato da mesi di sporco e di cibo scaduto, sciolto e colato sugli scaffali, il pelo della muffa come un cuscino grigio sul gouda aperto. Mi ero arrabbiato molto e l’affittuario, a sua volta, si era infuriato con la fidanzata. Lei era curva sulle piastrelle, grattava macchie dal parquet con uno straccio devastato. Le aveva urlato contro che il frigo era una merda, poi le si era avvicinato e l’aveva afferrata per le spalle, sollevandola con violenza, dicendole che doveva andare a pulire quel cazzo di frigorifero. Le aveva fatto male. Lo avevo bloccato e gli avevo detto di non provarci più e lui mi aveva detto di farmi gli affari miei, che non sapevo niente di lui, di lei, di loro. Io non ho mai saputo niente. Gli avevo detto di lasciare tutto com’era e di andarsene fuori, sparire da lì. Una volta solo nell’appartamento, avevo tirato forti pugni al divano, soffocando le urla tra il bicipite e l’avambraccio.

Avevo scritto un reportage sull’hip hop in Germania. Cercando informazioni ero finito in un bar di Neukölln dove facevano battle di freestyle. Ero riuscito a convincerli a farmi mettere basi per chi rappava. Avevo passato una notte intera a mettere beat e campionamenti, mentre ragazzi e ragazze rappavano in tedesco oppure in turco. Molti mi chiedevano di mettere basi trap, ma non ne avevo. A volte mi sfottevano in rima, credendo non capissi una parola. Alla fine, non mi avevano pagato, perché dicevano che avevo bevuto troppe birre. Avevo scritto anche un reportage per una rivista svizzera sul turismo della droga a Berlino da parte degli italiani. Avevo intervistato un ragazzo che, ogni week end, prendeva un volo di andata il venerdì sera e uno di ritorno il lunedì all’alba. Alle nove era in ufficio, dopo aver passato praticamente tre giorni dentro il Panorama Bar o il Tresor, l’Hoppetosse, lo SchwuZ. Diceva che le compagnie low cost ci facevano i soldi veri con quella tratta.  Avevo intervistato un ragazzo che era a Berlino da otto mesi e aveva finito nei club tutti i soldi con cui era arrivato e ora stava cercando di tornare in Italia. Diceva che il suo week end iniziava il giovedì e terminava il lunedì mattina. Il giovedì faceva la spesa, ma non riusciva mai a conservare qualcosa per la Klubnacht della domenica pomeriggio, così doveva rifare la spesa al Berghain. Avevo intervistato un ragazzo italiano che spacciava dentro. Mi aveva portato nei bagni insieme ad altri cinque sconosciuti. Eravamo talmente pressati nella cabina, che lui doveva stare in piedi sulla tazza. Sembrava un totem e noi sotto a venerarlo. Mentre distribuiva buste di keta e recuperava coca sulla punta della chiave di casa, mi spiegava come riusciva a portare dentro la roba. Non è che riesco, me lo lasciano fare, aveva detto. Devi fare in modo che si fidino di te. Non deve morire nessuno, in pratica. Però questo non scriverlo nel tuo articolo. Avevo intervistato anche me stesso, ma usando un nome falso. Sarebbe stato buffo trovarmi sia come autore che tra gli intervistati.

Avevamo trovato un Pitone Tigre nel parco dell’Hasenheide, a pochi metri da uno Spielplatz. Giulia aveva visto una macchia gialla in un basso cespuglio seccato dal freddo. Si era avvicinata. Pensava fosse una sciarpa, una corda, una di quelle cose per fare giocoleria. Invece era la carcassa di un Pitone Tigre di quattro metri. Prima di chiamare la Polizei, eravamo rimasti a guardarlo, tenendoci per la mano. Poteva sembrare il suo funerale, oppure il nostro. Gli agenti avevano detto: La gente non si rende conto di quanto sia difficile allevare serpenti. Colpa di Tik Tok. Giulia aveva risposto: Amen.

Avevo ricevuto una telefonata da mia madre mentre ero al bar, dietro il bancone; maneggiavo un Moscow Mule. Cercavo di creare il muso di un porcellino utilizzando un pezzo di zenzero. Lo avevo appoggiato davanti al cliente e gli avevo detto che non era riuscito particolarmente bene, ma quello era un porcellino. Avevo preso la chiamata e mia madre mi aveva chiesto se stessi bene. Aveva la voce tagliata dall’ansia, respirava a fatica. Mi aveva chiesto se Giulia fosse con me, se i miei amici fossero vivi. Avevo chiesto cosa intendesse dire. Lei mi aveva detto: Ma non hai visto cos’è appena successo? Sono entrati in un mercatino di Natale con un camion. Le avevo domandato dove e mi aveva risposto a Charlottenburg. Avevo chiuso la comunicazione e avevo aperto sullo smartphone le pagine dei notiziari. Erano morte dodici persone. Il giorno dopo Mauro era entrato nel bar, era piegato su se stesso, dilaniato. Credo volesse sparire, cancellarsi dalla disperazione che stava provando e ridisegnarsi nel passato o in un futuro già elaborato. Mi aveva guardato e aveva detto: È morta Fabrizia.

Io, Marica, Giulia, Lui e Saretta eravamo seduti in riva alla Spree. C’è una zona bellissima che non conosce quasi nessuno. È per andare a Möckernbrücke. Marica non aveva mai freddo. Noi stavamo stretti l’uno all’altro anche se eravamo gente schiva, a parte Giulia. Ci rubavamo calore a vicenda. Era l’alba e Marica ci aveva detto che doveva tornare in Italia. Guardava il sole gelido nascere da dietro i palazzi DDR e diceva che non voleva, ma che doveva. Avevo pensato che Berlino fosse il mio posto, perché era così triste e così senza pretese. Avevo giurato, in silenzio, senza dirlo nemmeno a Giulia, che non mi sarebbe mancato nessuno, che poteva andarsene chiunque e me ne sarei fatto una ragione. Fuck fuck fuck. Però quando Giò si è trasferito a Londra e quando Gil è tornato a Fucecchio, io sono stato male.

Lui, alla fine, aveva avuto un figlio. Anche lui. Non stava più con Saretta, che ora era fidanzata con un tedesco di Amburgo e, diceva lei, si sarebbero sposati nel giro di un paio di anni. Non ero nemmeno sicuro che Lui volesse davvero un figlio. Non ci vedevamo quasi più. Gli avevo assicurato che un giorno avrei scritto di lui e della Comunità, degli Emù di cui si prendeva cura e della fatica che aveva fatto per uscirne. Lui era la prima persona che avevo conosciuto a Berlino. Un giorno, urlandoglielo nell’orecchio mentre ballavamo un set di Tommy Four Seven sul fondo della piscina dello Stattbad sulla Gerichtstraße, gli avevo detto che io per lui ci sarei sempre stato e mi sarei occupato della sua rabbia, del fatto che, quando beve, diventa violento. Allora lui aveva pianto, forse perché in fondo sapeva che non era vero, sapeva che la piscina avrebbe chiuso da lì a meno di un anno e che al suo posto sarebbero sorti degli uffici, sapeva che ci sono mostri che nemmeno un fratello può battere. Oppure aveva pianto perché mi voleva bene. L’avevo stretto a me e avevo pensato: sono io il tornado. Che si esaurisce.


Periplo è una rubrica curata da Silvia Penso.
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