Testo e immagini di Silvia Tebaldi
Da un’ora siamo a Bologna, Silvia cara. Bice torna a Ravenna domattina; le ho fatto il letto nello studio, forse dorme già.
Grazie per le risate di ringhiera, la stanza assieme come da studenti. E i bicerìn, e il cielo bianco tra Vanchiglia e il Po. Grazie per averci accolte, Silvia mia. Vorrei dirti che è andato tutto bene, invece no.
Dunque da Torino a Parma un’allegria, Bice e io un gran parlare, treno in orario e semivuoto. Di fronte uno che ci guarda troppo, uno con IPad IPhone e incredibile cravatta paisley, il disegno della goccia ma in realtà è la figa, figa in magenta e blu tono su tono. Ci guarda troppo, ma noi non ci spostiamo: studialo scrivilo buttalo dentro, dentro la storia, come ci hanno insegnato alla scuola di scrittura. Beatrice e io con borse piene di libri, souvenir e reliquie del Salone, le foto, le risate di noi ragazze indomite, Beatrice Laura Silvia cantate dai poeti Dante Petrarca Leopardi, nell’ordine, Beatrice Laura Silvia pellegrine a Torino. Nel tempio. Nel Salone. Tra stand disguidi ressa spritz e talk, le firme prestigiose, la gente della scuola di scrittura. Le cattedrali dell’editoria, i suoi vicoli i bar e l’euforia. E ogni sera a Vanchiglia assieme a te: la sola festa vera, essere noi tre. E il gorgo fondo quando hai in mano il plot, la fabula l’intreccio la follia – autrice, strega sapiente, tessitrice – tu io voi noi dall’era del lockdown, tu a Torino Bice a Ravenna io a Bologna, chiacchiere ogni giorno come da studentesse in via Valdonica, ora invece via Zoom o Skype o Meet, e poi scrivere assieme. E poi boom!, l’idea, il corso annuale, tutta la ferramenta per narrare. Tu Beatrice e io – il potere del trio – felici anche in questo mondo orrendo, fiere di non arrenderci, felici nonostante, e il treno andava. Poi.
Poi il treno fermo. Mezz’ora in mezzo al nulla, fuori solo la nebbia. E dentro muto l’audio e cieco il video, nessun segnale a bordo treno e il tipo che sbuffa e digita, con l’orrenda cravatta sussultante.
Io e Bice, neppure una parola. Solo guardare fuori, solo ipnotizzate dalla nebbia.
Poi Italo riparte. Eravamo alle porte di Reggio Emilia Alta Velocità, cattedrale di aria e vele, di pieni e vuoti, ma in quella nebbia che ne sapevamo. Ed eccoci in stazione, fermata Reggio AV, c’è chi scende e chi sale.
E l’uomo con cravatta ficomorfa, sparito. Dematerializzato.
Il treno si muove, esce dall’origami gigantesco. E di là non c’è nebbia. C’è la pianura come è sempre stata, ruderi e pioppe, le sette della sera a metà maggio.
E Bice da allora è quasi muta.
Come altrove, come non fosse qui.
No. Nemmeno io ho visto il tizio andarsene, Laurina. No, sono un po’ stanca ma sto bene. Sì, grazie se mi ospiti stanotte (Stai da me, le ho detto, riparti domattina). Sì, no, punto.
Non mi sembrava triste. Né offesa, né seccata, solo altrove. Forse pura stanchezza, ma non so. Qualcosa è accaduto.
13 maggio, il giorno dopo. Bice è partita, baci e a presto. Sembra altrove, sorride ma non c’è.
Silvia, vedo che Bice ha scritto a me e a te: due righe, grazie e a presto, e il Meet tra un mese come da programma.
Quando iniziammo a scrivere davvero – un romanzo a tre mani, gioia azzardo e follia – ci era già chiaro il punto. Che quando scrivi lasci fuori tutto. E stai lì, nella stanza tutta per te: ma quella stanza è piccola, se cazzeggi non scrivi. Così un Meet ogni mese – l’archetipo del ciclo, a ripensarci! – poi lavoriamo ognuna la sua parte. Qualche messaggio senza impegno, e cazzeggiare meno che si può.
Sì, ma ora? Da qui al tredici giugno è un secolo: che le sarà successo, a Bice? Starà bene?
Scrivo, siamo a buon punto, ma intanto mi preoccupo un bel po’. Vado al lavoro, a presto, amica mia.
16 maggio. Bice non si fa viva, non risponde. Telefoniamo, aspettiamo? Okay, ma mi preoccupo davvero: se sta male, o chissà che le succede.
Quella sera. Il ficoforo, la sosta nella nebbia. Un sortilegio.
E poi il pensiero brutto. E se Bice ci pianta? Se si è messa d’accordo con qualcuno? Se vuole continuare da sola, uscire con il romanzo senza di noi? Che pensieri soavi, Silvia mia. Che brutto, parlar male degli assenti: ma scrivere, in fondo, che altro è?
Ho deciso, la invito.
C’è una presentazione sabato prossimo, un posto in Riva Reno, libreria indipendente vino e cibo, un romanzo che dicono spaziale: venerdì giro in centro aperitivo cena cinema stare da me a Bologna, se vuole, oppure solo sabato se venerdì non può e pranzetto, presentazione di cui sopra, ape cinema cena insomma le scrivo. E se non mi risponde le telefono. So già che non potrai: ma se mai tu potessi, Silvia mia.
E Bice mi risponde quasi subito. Grazie Laurina, ma sono incasinata. Mi faccio viva presto, grazie e baci.
Speriamo bene, Silvina. Io scrivo e vado avanti. Avanti con il plot, il bon mot, il what if, il why not.
22 maggio, torno ora dalla presentazione. Che bello, Silvia mia. Romanzi, narrativa, la lettura immersiva. Il mondo lucente degli autori, di editori e lettori. La giostra degli eventi, i booktoker, le zine. E Anna e Jani, le nostre eroine.
26 maggio. Il lavoro della mente è parlar sempre, sempre e continuamente. Per questo noi parliamo, per zittire il pensiero. Invano. Il resto viene dopo, incluso scrivere. Cerchiamo il bon mot, il bel plot, lo sviluppo della trama e il colpo di scena: ma scrivere non ci salva, anzi. Non vedi mai la fine. Molto meglio il ricamo, il macramè. La ceramica.
Lo so che sei in Francia con l’azienda, scusami per lo sfogo. Vado al lavoro. Che ansia, Silvia mia.
E poi Bice mi scrive, dice se ci sentiamo. La chiamo.
Vuoi venire con me a Ferrara, Laurina? Bene, scegli tu quando, due tre giorni. Ho ferie a iosa. Andiamo in treno, poi giriamo a piedi.
Ottimo.
E un bel posto dove stare a dormire. Gratis. Casa Idobro, mi ha detto.
Ma certo, Silvia, che ti tengo informata.
Ci vediamo a Bologna di mattina, ore otto binario dieci. Bice arriva in treno da Ravenna. Sta bene, anche un po’ dimagrita.
E in treno verso Ferrara mi racconta. Non di sé, non di noi, non del romanzo.
Salvi, il papà di Bice, aveva trovato una compagna. Entrambi erano vedovi da anni. Poi questa Lia si ammala, lui l’ha assistita fino all’ultimo e alla fine si sposano. Era la vedova di un artista, un tal Huidobro, con lo studio a Ferrara. Senza figli. Hai già capito, Silvia mia. Salvi e Lia sono morti e Bice ha ereditato casa Huidobro. Huidobro, come il poeta.
A Ferrara ci siamo stati tutti, Silvia mia: ma come ora me nessuno mai.
Bice mi guida lungo un viale alberato, i resti delle mura, un verde folto. L’imbocco del Capo delle volte. Gli archi, un cielo chiaro, odore d’acqua marcia. Tra i vicoli qualcosa di autunnale, squarci di luce e parietarie.
Bice non ha né fretta né obiettivi. Guarda attorno e cammina: parla poco, solo mi chiede se sono stanca, se ho fame o sete, e di dirle che cosa voglio fare. Tiene il mio passo, mi guida dentro un silenzio.
Camminiamo in via Volte fino in fondo. Se non hai fretta, dice, a casa andiamo dopo.
Lasciamo gli zaini da una parrucchiera, una certa Marghe, che mi fa festa come a una cugina. Un giorno ci veniamo tutte e tre, a fare taglio e piega dalla Marghe: Silvia tu e io, ha detto Bice.
Magari.
Mi era sembrata assente, invece no. Quel silenzio è realtà aumentata, non lo so dire meglio di così.
Abbiamo camminato tutto il giorno. Vicoli, voltini bui, una piazzetta con un’abside e un pozzo come un campiello veneziano; spigoli di pietra bianca, chiese con un prato davanti. Epigrafi e rovine. Abbiamo mangiato qualcosa in un posto piccolo, con un giardino all’ombra.
Nessun obiettivo, nessuna direzione; nessun bisogno di collezionare mostre, monumenti, nomi. Bice non parla molto né io chiedo, non è un giro turistico, non è un giro di chiacchiere. Sai quanto sono curiosa, quanto vorrei sapere che succede: se sta bene, se scrive, se ci vuole mollare. E curiosa di Huidobro, di questa eredità. Ma c’è una strana quiete, e proprio nessun bisogno di parlare.
E per dirti la quiete, io di parole adatte non ne ho.
Poi un aperitivo con la Marghe, quando ha chiuso il negozio. C’è abbastanza pastura da far cena, ma Bice mi rassicura: l’altroieri è stata dalla Marghe e ha rifatto pixie e gloss, ma prima ha pulito casa e riempito il frigo.
Poi Marghe ci saluta e andiamo via.
C’è ancora luce nella città vecchia, in quello che fu il castrum bizantino. Casa Huidobro è sul margine del tracciato, poco lontano c’è una casa con un portale gotico e sopra un tondo di marmo bianco, enorme, vuoto, e si chiama Stella dell’Assassino.
Bice apre un portone, attraversiamo un portico e un cortile. In fondo c’è una porta che Bice apre con la chiave, poi accende la luce e c’è lo studio: un lungo piano di legno, mensole con vasi di colori. Pennelli, tele, lastre di metallo. Pezzi in ceramica finiti e non. C’è come un vuoto, un fluido che si spande, che odora di terra e di coppale.
L’invenduto, l’incompiuto, ha detto Bice: quel che Huidobro ha lasciato. Che nessuno ha toccato. L’imperduto.
Al piano di sopra c’è la casa. Un bagno bianco, spartano, rifatto quando Lia stava con Salvi: nient’altro so, Silvia mia, né domando. La cucina, con la stufa economica e un camino, e un odore di canapa e di salvia. E alla parete una mappa ingiallita, meandri, una cartografia vertiginosa.
Scegli il tuo letto, mi ha detto Bice.
I letti sono due, ognuno ha una tenda bianca tutto attorno. È tela di canapa da lenzuola, percorsa da ricami color ruggine.
Guardo meglio il ricamo. Credo che si chiami punto erba, o punto indietro. Linee ondulate color ruggine. Sono mappe: opera di Lia, ha detto Bice. Meandri, fiumi. Strade o confini senza nome.
Quanto ho dormito, Silvia, tra quei meandri. Del sogno ricordo solo rose, un cespuglio di rose e un’epigrafe, e mi sveglia il profumo del caffè.
Bice apre la finestra, da fuori una luce color sabbia.
Poi le racconterò del sogno, del roseto, e Bice mi dirà: So cos’è, ti ci porto.
Ma ora facciamo colazione. Fuori piove leggero, dalla finestra guardo i tetti e il fogliame lucido di un leccio.
Ti va se scriviamo un poco, se lavoriamo sul romanzo?
Io non chiedo di meglio, Silvia mia. Lo so, è tutto così strano: casa Huidobro, l’eredità di cui non sapevamo, Bice con la sua calma. Calma contagiosa, e qui è la location che cercavamo: per la scena di Jani che va via, Jani che molla tutto, la scena dello specchio e del serpente.
Scendiamo con Bice nello studio, ci sediamo ai due estremi del bancone, e scriviamo. Ognuna la sua parte. Io su un file nuovo di BlocNotes, offline, ché qui non c’è il wifi e non mi importa. Bice con carta e penna, su un quaderno.
Luce da una finestra sul cortile. Piove, del passare del tempo non mi accorgo. Ogni tanto alzo gli occhi, guardo lastre e ceramiche e scrivo.
Poi Bice si alza in piedi: Sono le undici, usciamo?
Ma prima guarda qui, Laurina.
C’è una tenda in un angolo, tela tra rosso e ruggine, la tela delle tende bolognesi. Oltre la tenda c’è una nicchia: un vecchio lavabo, uno specchio ossidato appeso sopra. Poco più su, una piccola finestra e fuori il cielo limpido.
Bice resta di là, io mi lavo il viso e le mani.
Vedo il mio viso, un’immagine vaga, dentro lo specchio scheggiato e scuro.
Poi vedo.
Lia e Huidobro, la mamma di Bice da ragazza. Mia madre, il mio ex faccia-di-merda, la ringhiera di casa tua a Vanchiglia. Il muro con l’epigrafe e il roseto. Il lavoro di scrivere, di vivere, di non scrivere. Jani e Anna nel tempo, la storia che stiamo raccontando. I meandri impensabili del testo, il narrare, un brusio sterminato nello specchio. Vedo i libri mai scritti, la raccolta della canapa e la carta, la tessitura e la tela, un lento ricamo a punto erba. Il nostro romanzo fatto libro – l’identità al frontespizio, al colophon l’obsolescenza – e il forno, il pane e la ceramica.
Sembra uno specchio come tanti, Silvia mia. E la mia faccia, e io che mi ostino a scrivere, eppure penso al ricamo e al macramè.
Nota dell’autrice.
Come le persone che vi compaiono, Casa Huidobro è frutto di fantasia: eventuali somiglianze con luoghi o persone reali sono frutto del caso.
Invece il rosaio e l’epigrafe, che spesso sognai mentre scrivevo questo racconto, si trovano in via dell’Ippodromo a Ferrara e ricordano che in una notte di ormai venti anni fa, durante quello che avrebbe dovuto essere un normale controllo, proprio in quel luogo quattro agenti di polizia pestarono a morte un diciottenne inerme, di nome Federico Aldrovandi.
Nota della curatrice
Casa Huidobro è un Periplo speciale. Potremmo definirlo un Periplo off. Nasce, infatti, a partire da un’idea e un contributo che l’autrice, Silvia Tebaldi, stava scrivendo per la rubrica Periplo ma che è poi diventata un’altra idea, un futuro romanzo di Silvia che la rubrica le ha ispirato e al quale sta attualmente lavorando; questo che oggi pubblichiamo altro non è che uno spin-off di quello. Esula dalla rubrica e allo stesso tempo è dalla rubrica che proviene. Inutile dire che questo fatto ci ha reso molto felici, che Periplo sia stato il ponte per una creazione nuova, di un’autrice, Silvia, che amiamo, lei, e la sua scrittura, e non vediamo l’ora di leggere anche il romanzo, il genitore, o quel che ne verrà.
Periplo è una rubrica curata da Silvia Penso.
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