Periplo #7 – Di treni e solitudini, ricordo di un viaggio in Giappone.

Testo e foto di Caterina Villa

Il treno è pulito e luminoso, sembra che sia stato appena lavato da cima a fondo con acqua e sapone; non mi stupirebbe se fosse proprio così. È possibile che questa notte una squadra di addetti alle pulizie l’abbia assaltato nel suo ricovero con secchi pieni di acqua saponata, aspirapolveri, piumini. Li ho visti da altri finestrini, da altri treni, mentre attendevano ordinati alla fine del binario, nelle loro divise. La carrozza ondeggia a ogni scambio, un movimento per nulla fastidioso, ha quasi un nonsoché di organico, come se a muoversi fosse un essere vivente. All’interno del vagone si fronteggiano due file di sedili di plastica azzurra, una per lato, dal tetto dondolano le maniglie di sostegno. Ci troviamo nella carrozza di testa, dietro la porta di vetro si vede la schiena del conducente, dritta sotto la camicia  inamidata. Siamo partiti da Kyoto due ore fa e siamo rimasti in pochi a bordo. Fuori scorre una campagna irregimentata, anche le macchie di alberi sembrano disegnate per ottenere l’effetto visivamente più armonioso. A intervalli regolari i tralicci dell’alta tensione spezzano l’orizzonte, i cavi tesi sono neri contro il cielo di un azzurro profondo. Le nuvole somigliano a quei batuffoli di ovatta che ci facevano attaccare sui fogli alla scuola materna. 

Stazione del Monte Kōya

Il viaggio da Kyoto al monte Koya, nella prefettura di Wakayama, dura in tutto otto ore; è un gioco di scambi e incroci di linee ferroviarie. Prima la Tokaido-Sanyo Line e la Midosuji Line, due treni locali, poi ancora la Nankai-Koya line. Scesi dall’ultimo treno si sale su una funicolare che scala il monte e una volta arrivati in cima si attende un autobus che porta fino alla zona del santuario. I treni entrano ed escono dalle stazioni paciosi come pesci sul fondo di uno stagno. Da un certo punto in poi il tracciato della ferrovia corre per gran parte in mezzo ai boschi e i binari diventano un nastro stretto che si snoda tra pensiline in attesa e panchine vuote. In alcune stazioni graziosi amuleti si agitano nel vento appesi alle intelaiature di metallo. Appena fuori dai finestrini la vegetazione è una muraglia viva che ti guarda. I passeggeri sono tutti silenziosi e rispettosi, ciascuno chiuso nella sua bolla. Danno l’idea di essere abituati a spostarsi in treno, a condividere lo spazio e il tempo con degli sconosciuti, che rimangono sempre tali. Non varcano mai la soglia dello spazio personale, una soglia ben presidiata, fatta di ginocchia strette, mascherine e fodere con cui coprire le copertine dei libri perché gli altri non sappiano cosa stai leggendo. 

Credo che i treni più di tutto parlino del Giappone, del modo che hanno le persone di stare nello stesso luogo, di condividere lo stesso spazio, ma non insieme, come tanti microrganismi, in apparenza soddisfatti di galleggiare nel brodo primordiale dei propri pensieri e dei propri interessi. 

Il mio primo approccio ai treni giapponesi è stato attraverso gli anime e i manga, uno in particolare. Si chiamava Nabari no Ou e ricordo ancora una doppia pagina con un disegno che toglieva il fiato, un treno che solcava un cielo stellato, tra fuochi fatui di stelle e galassie. Solo svariati anni dopo ho scoperto che l’illustrazione era ispirata a un racconto dal titolo “Una notte sul treno della Via Lattea”, in giapponese Ginga tetsudo no yoru. L’autore, Miyazawa Kenji (1896-1933), iniziò a scriverlo nel 1924 e ci lavorò a più riprese per tutto il resto della sua vita. Non arrivò mai a una versione definitiva. È una sorta di fiaba o forse di sogno, la storia di un treno che parte da una stazione, la Stazione della Via Lattea, per un viaggio breve ma molto particolare. Ne riporto un paio di estratti, perché credo che evochino bene ciò che sto cercando di mettere in parole circa i treni giapponesi (e circa la mia fascinazione nei loro confronti).

In quel momento sentì risuonare da qualche parte una strana voce che annunciava: “Stazione della Via Lattea, Stazione della Via Lattea”, e la scena davanti a lui si rischiarò di colpo, quasi il cielo fosse tutto incastonato di miliardi di seppie fosforescenti la cui luce si fosse pietrificata nello stesso istante, o come se, in una fabbrica dove migliaia di diamanti erano stati nascosti per tenere alti i prezzi sul mercato, qualcuno li avesse tirati tutti fuori di colpo sparpagliandoli da ogni parte1.

(…)

Ciuff-ciuff, ciuff-ciuff, correva il treno, lungo la riva del fiume fosforescente e radioso. Dal finestrino sul lato opposto, come in una lanterna magica filavano le praterie celesti. Si vedevano centinaia, migliaia di segnali di ogni dimensione, e sui più grandi c’erano anche delle bandierine costellate di puntini rossi. All’estremo confine delle praterie i segnali si addensavano ancora più fitti formando un pallido orizzonte di nebbia, e da laggiù, o forse da un luogo ancora più lontano, ogni tanto fuochi evanescenti e multiformi, simili a razzi di segnalazione, partivano in successione verso il cielo violetto2

I viaggi in treno che ho fatto in Giappone mi hanno affascinato profondamente, proprio come il treno stellare di Kenji, e mi hanno spinta a interrogarmi su me stessa, sugli esseri umani,  su ciò che di noi mostriamo e ciò che invece teniamo ben nascosto e al sicuro. 

A stimolarmi non sono stati solo i treni, ma anche le stazioni, perché insieme costituiscono un mondo a sé, un universo frammentato che però parla la stessa lingua, ha gli stessi equilibri interni, che in fondo poco hanno a che fare con ciò che li circonda, che si tratti di megalopoli, di cittadine o di villaggi. Sono intercapedini della quotidianità in cui tutto funziona, tutto è puntuale e ordinato. Dalle casse i treni vengono annunciati con una musichetta diversa a seconda della stazione di arrivo. Frecce e disegni ti impediscono di perderti nel senso spaventoso del termine, ti puoi affidare e lasciarti trasportare. Spazi liminali in cui puoi non essere nulla perché sei a metà strada tra ciò che eri quando sei partito e ciò che diventerai una volta arrivato. In cui nessuno chiede o pretende nulla da te se non il pagamento del biglietto e la buona educazione. Soprattutto le stazioni piccole, sperse tra le montagne o in campagna, da non luoghi per eccellenza sono invece diventati dei nodi nello spazio che mi hanno fatto venire voglia di fermarmi. Mi sono sembrati dei posti in cui fosse possibile respirare con una leggerezza preziosa soprattutto dopo il frastuono e l’abbondanza di stimoli delle grandi città. Per dare un’idea più precisa di ciò di cui sto parlando, dico solo che in Giappone hanno costruito una stazione letteralmente in mezzo al nulla; una stazione, cioè, che non porta da nessun’altra parte. Come unico scopo ha quello di consentire alle persone di fermarsi in un luogo dove possono rimanere sole e in silenzio. Si chiama stazione di Seiryu Miharashi ed è una semplice banchina di cemento che si affaccia su un fiume, una volta scesi non c’è nulla da fare se non contemplare la natura e attendere il treno successivo. Una follia, diranno senz’altro alcuni, e forse lo è, ma per me è anche il condensato di tutte le ragioni per cui ho sempre desiderato andare in Giappone almeno una volta nella vita e di tutte le forze che mi hanno fatto sentire allo stesso tempo sola e unita a persone apparentemente lontanissime da me per cultura, formazione e tradizioni, grazie a un minimo comune denominatore su cui non avevo mai riflettuto con la dovuta attenzione.

Stazione Monte Kōya – Esterno

Il mio treno per il Koya-san si ferma in molte stazioni che potrebbero tranquillamente essere come quella di Seiryu Miharashi, semplici, senza apparente connessione con il mondo circostante. Salvo, a farci caso, un passaggio a livello, una signora delle pulizie che fa capolino dalla toilette, i tetti delle case appena oltre il pendio. C’è qualcosa in tutto questo che ti illude che regni l’armonia, dentro di te e nel resto del mondo. Che le persone trovino il modo di essere in equilibrio e appagate anche nelle vite più semplici, come nel film di Wim Wenders Perfect Days, in cui il protagonista, Hirayama, pulisce le toilette pubbliche di Tokyo e conduce una vita di piccole gioie e soddisfazioni, di contatti minimi con le persone che incrocia sulla sua traiettoria. Come nel caso di Perfect Days, però, il desiderio di cercare rifugio nella quiete, nella luce perfetta, nell’ordine, a volte inciampa nella sensazione di artificio che tutto questo si porta dietro o comunque nella sensazione che appena sotto, appena dietro, ci sia dell’altro. A un certo punto viene spontaneo farsi una domanda: quanto è vera la serenità e quando non è invece un costrutto messo in piedi perché non si può mostrare ciò che si prova o ciò che si è realmente? Quanto è una difesa, una distanza di sicurezza tra sé e il mondo?

A Kyoto ho incontrato il cugino di un mio caro amico; è italiano, ma vive in Giappone da più di dieci anni. Mi ha detto, parafraso ma il succo è questo, “qui tutti hanno una maschera, c’è il volto che mostri in pubblico e quello che sei dentro e che non fai vedere mai”. Io non conosco a sufficienza il popolo giapponese per esprimere un giudizio in questo senso, ovviamente, e nemmeno mi interessa farlo. Mi sembra, però, che questa riflessione mi sia rimasta impressa per un altro motivo, ovvero perché dentro ci ho visto qualcosa che faccio anche io, da sempre per quanto ne so. Prendere una piccola porzione di me, quella più vicina al nocciolo di ciò che sono, e non mostrarla. Nemmeno alle persone a cui voglio più bene. Certo, c’è chi si avvicina più degli altri, chi può riuscire a intuirne i contorni, ma a vederla chiaramente sono solo io. Mi chiedo se non lo fanno forse tutti. Se per sentirsi sicuri, per appartenersi non sia inevitabile. O forse è un riflesso dettato dalla paura, paura che quella parte di noi vicina al centro possa non piacere o peggio possa rimanere incompresa. 

In un interessante pezzo pubblicato da Internazionale il 15 novembre 2024 e intitolato “La gioia del disordine”, Matt Alt, traduttore e scrittore che vive a Tokyo, parla di come in occidente si sia travisato l’approccio che i giapponesi hanno al disordine. Secondo Alt, non è che l’altra faccia della medaglia del minimalismo e dell’ordine che per altri versi caratterizza le città e le vite dei giapponesi. Leggere questo pezzo mi ha fatto ancora pensare a questo scarto tra il dentro e il fuori. Tra ciò che siamo e ciò che mostriamo seduti nei treni che ci portano in giro per le nostre vite attraverso gli anni. A come ci si concede di essere sé stessi, nel proprio magma creativo ma anche nel proprio smarrimento, solo in luoghi a cui non tutti hanno accesso, spazi di cui solo noi abbiamo la chiave. Mi sono venuti in mente gli interni dei film di Hirokazu Kore’eda, gli appartamenti minuscoli e riempiti fino al soffitto di oggetti, quasi tutti vecchi, accumulati, residui che però non è pensabile gettare via. Dico di questa distanza tra dentro e fuori, perché mi sembra di poter ravvedere una somiglianza con gli organi che se ne stanno acquattati nel nostro corpo o con i pensieri che ci teniamo stretti, incatenati all’orizzonte degli eventi del buco nero che ognuno di noi ha dentro. Quei pensieri che formano la nebulosa del nostro isolamento, il bozzolo in cui le persone in treno con me sono ben avvolte. Mi sembra che tutto faccia parte di questa danza di solitudini. 

Interno vagone

Scendiamo dal treno in una stazione addossata ai piedi della montagna; mi volto un’ultima volta verso i binari. Sono silenziosi, curvano leggermente prima di uscire dalla stazione che di fatto è costituita da due banchine coperte da pensili; le travi sono dipinte di rosso, delle strisce di carta argentata bisbigliano nel vento. È una vista molto bella e molto inquietante allo stesso tempo. Ti dà l’idea che non visto, nascosto nell’aria che ti circonda, ci sia sempre qualcosa in agguato. Ci mettiamo in fila per la funicolare e continuo a pensare ai binari, al modo in cui curvavano con grazia prima di sparire. Mi tornano in mente le piattaforme bianchissime e drittissime della stazione di Tokyo, il binario dello Shinkansen, il muso dei treni come un missile. Adesso che ho messo un poco di distanza tra me e la metropoli mi rendo conto di quanto mi abbia dato l’idea di un formicaio. Penso con insistenza alla parola brulicare. Che non ha di per sé una connotazione positiva o negativa. Brulicare è gli impiegati per strada in marcia verso la metro vestiti tutti uguali anche se lavorano in luoghi diversi – pantaloni neri, camicia bianca a maniche corte (è estate), zainetto nero compatto – ma è anche i ragazzi che cantano per strada con addosso qualsiasi tipo di vestito e di acconciatura vogliano e nessuno che li guardi male. Brulicare è le strade che risuonano del calpestio di migliaia di piedi e il richiamo ritmico del semaforo a sovrastare il rumore. I templi nascosti tra i grattacieli, le persone in attesa del proprio turno per tirare la fune che fa suonare il gong, lo schiaffeggiare delle mani che si uniscono in preghiera. Brulicare è anche le file di cassettini numerati che contengono pronostici per il futuro. Se si estrae la cattiva sorte, non la si porta a casa ma la si lascia al santuario, annodata a uno degli appositi pannelli. 

Only if you drew a bad fortune, please tie it to a rack3.

Sono tanti a farlo, mi chiedo da dove abbia origine quella che al mio sguardo parziale di occidentale appare come superstizione. Sembra esserci una preghiera, un kami4 a cui raccomandarsi per ogni cosa, dalla fertilità ai risultati degli esami. Eppure, la società giapponese mi sembra imperniata su un certo razionalismo. Mi domando allora se non sia ancora la solitudine a essere il minimo comune denominatore. Se non sia la possibilità di scivolare, singoli, in un mare di tanti, nei nodi di carta, nelle mani sbattute, negli incensi che bruciano a mazzi nei bracieri. Di unire i propri piccoli, parcellizzati desideri in un flusso che dalla terra sale verso il cielo. Una volta ho parlato con una persona sopravvissuta a un disastro aereo, mi ha detto una cosa che parafrasando potrebbe suonare così: “non è che ci abbia unito, eravamo tutte monadi, semplicemente eravamo lì insieme”. Ecco, credo che sia questo il seme più duraturo che mi ha lasciato il Giappone, quello che a un anno di distanza mi sento di condividere.

La funicolare sale lenta lungo il suo tracciato; una volta uscita dal folto degli alberi è possibile intravedere parte della ferrovia che ci ha portato fino a qui. L’aria è piena del frinire ossessivo delle cicale. So che è sciocco, ma mi stupisco del suono che fanno, diverso da quelle che conosco. È lo stesso che fa da sottofondo alle scene dei film d’animazione giapponesi in cui si vedono i cortili delle scuole vuoti durante i pomeriggi d’estate, le gocce d’acqua che si staccano dalle lunghe file di rubinetti. Ancora una quarantina di minuti di autobus e siamo arrivati. Quassù ci sono solo monasteri e templi (ben 117). C’è un silenzio spesso, che ti si posa addosso come una grossa falena. C’è un motivo specifico per cui ho voluto aggiungere il monte Koya al nostro itinerario ed è il cimitero di Okuno-in. Non mi ha deluso, è uno dei luoghi che ho avuto la fortuna di visitare che mi ha più emozionato. Forse partiva avvantaggiato dal fatto che i cimiteri mi sono sempre piaciuti, ma è inutile dire che questo cimitero buddista, in cui sono sepolti monaci, shogun, poeti e anche politici e attori, non ha niente a che vedere con i cimiteri che ho frequentato nelle varie città occidentali in cui ho vissuto o in cui sono capitata come turista. Innanzitutto, è una foresta di cedri altissimi e nella mia memoria verdissimi; le tombe sono steli di pietra ricoperte quasi interamente da uno strato di muschio. Ci si potrebbe camminare dentro per ore, c’è chi lo fa anche di notte, ma io ho una immaginazione troppo bizzosa per permettermi di farlo. Meglio il giorno allora e la luce che scende morbida e bacia me e bacia i morti. Nascoste tra le radici degli alberi, di fianco alle scale, appollaiate sui traballanti muretti di pietra ci sono centinaia, forse migliaia, di statuette votive. Piccole come un mandarino o grandi come un neonato. Spesso indossano cappellini o bavaglioli rossi fatti a maglia o in tessuto. Qualcuna ha davanti delle piccole offerte, una bottiglietta di Pocari5, una manciata di caramelle. Non ho idea di cosa siano, così, nonostante mi sembri in contrasto con la sacralità del luogo, tiro fuori il cellulare e digito poche parole chiave. Statua, cappello rosso, Giappone. Scopro che sono tutte riproduzioni di Jizo, una divinità che protegge bambini e viaggiatori. I cappelli e i vestiti che indossano vengono spesso donati da genitori che hanno perso i loro bambini. Una volta riposto il telefono, ci faccio ancora più caso. Mi pare che siano più loro che le tombe, le macchioline rosse punteggiano il tappeto verde steso sul terreno e sui tronchi degli alberi. Sotto le loro chiome è fresco; cammino con il mio nocciolo di solitudine in mezzo alle solitudini di tutti gli altri che non mi conoscono e che io non conoscerò. Esattamente come faccio in Italia, come tutti fanno in ogni parte del mondo. Semplicemente, qui nel silenzio e nel groviglio di natura rigogliosa e morte, mi sembra un poco più dolce. Come se la mia solitudine sfiorasse le altre. 

Okuno-In

Il nostro Hirayama, verso la fine di Perfect Days, gioca a calpestare l’ombra di un uomo che ha appena conosciuto. È stato l’unico momento del film in cui ho pianto. Per la delicatezza, per l’impossibilità di un reale contatto che però viene smussata dalla temporanea vicinanza, dai sussurri di solitudini che condividono lo stesso spazio, magari il vagone di un treno, e poi passano oltre, un po’ più leggere.

Jizo

Periplo è una rubrica curata da Silvia Penso e mariel.
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  1.  M. Kenji, Una notte sul treno della Via Lattea e altri racconti, Letteratura Universale Marsilio, 2001, pag. 55 ↩︎
  2.  Ibidem, pag. 77 ↩︎
  3. Solo se pescate una cattiva previsione, per cortesia legatela alle sbarre. ↩︎
  4. Divinità dello scintoismo. Numerosissime, rappresentano tutto ciò che ispira timore o rispetto e che si richiama al senso del mistero, sia essere animato, sia cosa (fonte: Treccani) ↩︎
  5. Bevanda non gassata, integratore di sali minerali, creata negli anni 80. ↩︎

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