Redazione Ciao Elisa, grazie per aver accettato di chiacchierare con noi, all’interno della rubrica Periplo, del tuo libro Sulla rotta balcanica, pubblicato da Prospero Editore nel 2024. Prima, vorremmo sapere un po’ di te, cosa ti piace? Quali sono i tuoi desideri?
Elisa Attanasio: Grazie a voi per avermi proposto uno spazio dentro la vostra rubrica. Non è semplice rispondere a una domanda sui desideri, e al tempo stesso è molto facile: desidero, molto ‘banalmente’, di stare bene, passare dei momenti di gioia vicino alle persone che amo, ma anche da sola; desidero viaggiare, e al tempo stesso trovare un posto accogliente dove fermarmi (sia nel concreto che in senso intimo). Sicuramente – per entrare nel vivo della questione sul libro – mi interessa vedere quello che accade in zone del mondo lontane da dove vivo, e non intendo solo geograficamente, ma anche lontane come tipo di esperienze, vissuti e modi di stare al mondo. Mi interessa continuare a riflettere, interrogarmi e mettermi in discussione; capire, infine, come poter resistere alla violenza. Credo che la scrittura e l’attivismo siano due modi – diversi ma intrecciati – di farlo: la scrittura perché dà forma a ciò che altrimenti resterebbe invisibile, l’attivismo perché oppone gesti concreti alle logiche di abbandono e sopraffazione. Entrambi sono modi di incontrare l’altro.
mariel: Qualche mese fa ho letto il libro (segnalato da Progetto Melting Pot Europa. Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza) e ciò che mi ha colpita sono stati i numerosi passi in cui riporti il sentirti d’ingombro (che mi si riversava addosso, facendomi sentire fuori luogo nello stare a leggere comodamente quelle storie sul divano), tanti che ne ritrovo uno anche aprendo a caso le pagine:
Cerco un po’ d’ombra, ma ancora non so dove mettermi e mi sembra di occupare sempre troppo spazio. Di nuovo entro nell’edificio semi crollato.
ibid, p. 89
Come si supera il sentirsi fuori posto? Si supera?
E: Non credo si superi, non lo vedo possibile, anche per ragioni storiche e sociali. Sentirsi fuori posto in quelle situazioni, oltre al disagio che comporta, significa anche essere consapevoli della propria posizione, del proprio privilegio. Il senso di ingombro, di occupare troppo spazio, è qualcosa che ho sentito spesso sui confini della rotta balcanica, e che ho cercato di non rimuovere. In un certo senso, è una forma di vigilanza su di sé, un modo per non cadere nella tentazione di appropriarsi delle storie altrui o di ridurre la complessità di ciò che accade. Forse la domanda non è tanto come si supera questo sentirsi fuori posto, ma come ci si convive, senza che diventi paralizzante. Accettare di essere in una posizione di privilegio – per passaporto, provenienza, colore della pelle – significa anche capire che non si può mai davvero condividere fino in fondo l’esperienza dell’altro, ma che si può cercare di stare accanto, di essere utile senza sovrastare. Scrivere Sulla rotta balcanica è stato anche questo: un modo per fare spazio alle tracce di chi attraversa quei confini, senza che la mia voce coprisse la loro. Scrivere di certe esperienze significa fare i conti con il rischio della retorica, con la tentazione di spettacolarizzare il dolore altrui o, all’opposto, di trasformare chi attraversa quei confini in una figura eroica. Nel tentativo di evitarlo, ho adottato uno stile asciutto e secco, e ho ridotto la mia voce, lasciando parlare le tracce, i gesti, i dettagli, i frammenti di un’esperienza.
Nelle tre ore di viaggio non ascolto musica, non leggo, non scrivo messaggi, non guardo notizie. Ripenso al Rancho e alla Fattoria. Alla ripetizione ossessiva delle stesse parole, degli stessi suoni: game, harash (forte prurito), qualcosa come ‘allam’ (dolore), mushkila (problema), big mushkil, shkran (grazie), yallah bye-bye! L’antistaminico fa venire sonnolenza: if you go on game, don’t take it. On game, not this. Ok? In qualunque punto della rotta balcanica, dall’Afghanistan alla Germania dalla Siria all’Italia, dall’Iran all’Olanda, la stessa manciata di parole a contenere settimane, mesi e anni di cammino, di stanchezza, di terrore. La frontiera rende i corpi interscambiabili. I campi fatti di container roventi d’estati e ghiacciati d’inverno, gli squats fatti di pareti nere di fumo e di pavimenti di rifiuti, i parchi delle città fatti di corpi stanchi e invisibili. La frontiera rende interscambiabile la frontiera stessa fatta di muri, fili spinati, cani e polizia.
ibid, pp. 108-109
Silvia Penso: Questo passo molto bello preso dal tuo reportage rende bene l’idea di cosa comporti per i migranti la reiterazione frustrante dei molteplici tentativi di passare il confine, non riuscirci, ritentare, per giorni, mesi, anni, come fosse un videogioco. Mettendo a dura prova la mente, incrinando ogni fiducia nell’umano e in quella presunta civiltà che tanto l’occidente ama sbandierare confrontandosi con “l’altro”. Per tutto l’arco della narrazione, inoltre, viene messa in risalto anche la materialità e la fragilità dei corpi, della sofferenza dei corpi, di cosa comporti il game in termini tangibili sulla pelle di chi a quel “gioco” si deve prestare. In questo senso il tuo è anche un libro sulla fisicità, l’organico, la mera materia, attraversato com’è da odori insopportabili, fumi, fuochi, immondizie, rifiuti, oggetti abbandonati, liquami, ferite, disinfettanti, sangue, piaghe, pustole, parassiti, aghi. La necessità di curare il corpo martoriato dalla marcia, dalla privazione, dalla sporcizia dei giorni e delle notti cui non ci si può sottrarre. Credo che questo trovarsi a contatto con tanta tribolazione, che riguarda anche crudelmente il corpo, abbia un duplice aspetto: la gioia dell’aiuto portato ma anche la pena e la difficoltà ad abituarsi a tutto quello che si vede, tu come vivi questo doppio aspetto nella tua esperienza sul campo?
E: La fisicità della rotta è qualcosa che non si può ignorare, e credo che sia una delle dimensioni che più colpiscono chi si avvicina a queste realtà per la prima volta.Spesso si pensa alle migrazioni in termini astratti, politici, numerici. Ma la realtà delle frontiere è fatta di corpi: corpi che resistono, che si consumano, che portano addosso i segni della fatica, della violenza, dell’abbandono. La frontiera agisce sui corpi in modo concreto, li trasforma, li segna, li riduce a funzioni – camminare, nascondersi, fuggire – e al tempo stesso li rende interscambiabili, perché il destino di chi attraversa è spesso simile, al di là delle provenienze e delle storie individuali. I corpi delle persone in movimento portano i segni della violenza a più livelli. Alla violenza subita nei paesi di origine – guerra, persecuzioni, carestia – si somma quella dei confini, delle frontiere chiuse e delle polizie di Stato. I respingimenti illegali sono accompagnati dalla distruzione di ciò che si possiede: telefoni rotti, vestiti sottratti, tende bruciate. Gli stessi corpi vengono colpiti: ossa rotte, falangi amputate dai morsi dei cani, ferite aperte dal filo spinato. E poi ci sono le ferite invisibili, quelle della stanchezza estrema, della fame, dell’assenza di cure. L’esposizione prolungata al freddo, alla pioggia, alla sporcizia, nei campi come nelle foreste, provoca infezioni, malattie della pelle, debilitazione. Anche negli spazi formalmente adibiti all’accoglienza la violenza persiste, attraverso la segregazione e l’isolamento. Le persone vengono spostate lontano dai centri abitati, come è accaduto per il campo di Eleonas ad Atene, smantellato per fare spazio a un parcheggio. I corpi vengono allontanati, nascosti, cancellati. Parlare di questa dimensione materiale è il tentativo di restituire il peso fisico della frontiera sulle persone che la attraversano. Vivere questa esperienza sul campo significa muoversi continuamente tra due poli opposti. Da una parte, c’è la necessità concreta dell’aiuto: fare una medicazione, distribuire cibo, portare un paio di scarpe, scaldare dell’acqua. Gesti semplici che in quel contesto diventano essenziali, e che danno un senso immediato alla presenza. Dall’altra parte, c’è la consapevolezza della sproporzione tra il gesto e il problema. Aiutare qualcuno a riprendersi da una ferita non cambia il fatto che, il giorno dopo, sarà costretto a rimettersi in cammino, rischiando di essere respinto e picchiato di nuovo. Questa tensione è difficile da sostenere, perché se da un lato l’azione immediata sembra dare sollievo, dall’altro si ha sempre la percezione di stare intervenendo su una ferita aperta che non si rimargina mai. Non credo ci si abitui mai del tutto a ciò che si vede. Ci si abitua a gestire l’urgenza, a riconoscere i bisogni essenziali, a muoversi con lucidità nelle situazioni più dure. Ma la sensazione di ingiustizia rimane intatta, anzi, si acuisce. Perché più si torna, più si vedono i cicli ripetersi, più si capisce che ciò che sembra emergenza è in realtà un sistema, una strategia precisa di gestione dei confini. Eppure, in questa realtà fatta di fatica, di odori, di ferite, esiste anche qualcosa che resiste: la solidarietà tra le persone, la cura reciproca, la capacità di costruire relazioni anche nei luoghi più ostili. Non riguarda solo le persone solidali, ma anche chi è in movimento, chi attraversa la frontiera e, nonostante tutto, trova modi per prendersi cura degli altri. Penso a chi, nei campi e negli squat, si improvvisa barbiere, a chi prepara il chapati con gesti precisi, a chi condivide le poche risorse disponibili con chi sta peggio. Sono gesti piccoli, quotidiani, profondamente politici, perché si oppongono all’abbandono e alla logica di frammentazione imposta dalle politiche di confine. Al tempo stesso, questa resistenza viene criminalizzata. Sempre più spesso, chi aiuta è accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, chi offre un passaggio rischia il carcere, chi distribuisce cibo è visto come un ostacolo al funzionamento del confine. E le stesse persone in movimento vengono trasformate in “clandestini”, in “illegali”, esposte a violenze sistematiche e a un’invisibilizzazione strategica. Le politiche europee non si limitano a respingere: producono vulnerabilità e morte come condizione stessa del loro funzionamento. Ecco perché la resistenza non è solo un atto di solidarietà immediata, ma anche una presa di posizione contro un sistema che si regge sulla violenza.
m: È tremendo che per intendere il viaggio di attraversamento dei confini si usi il termine “Game”. È tremendo pensare che la vita delle persone diventi un gioco, che pure è il più autentico momento di crescita, confronto e relazione dei viventi.
E: “Game” è un termine tremendo, ma perfettamente rivelatore. Chi attraversa la rotta balcanica lo usa per descrivere i tentativi di passare il confine, come se fosse un videogioco fatto di livelli sempre più difficili, di respingimenti, di nuovi tentativi. Ma in un gioco, per definizione, si può scegliere di non giocare. Qui no. Il game non è una scelta, è l’unica possibilità per chi non ha alternative.
S: Il viaggio che tu hai fatto, oltre che durissimo dal punto di vista emotivo, è anche difficile in termini di logistica, organizzazione, di contatti. Cosa succede prima di cominciare il viaggio? E nonostante le difficoltà (ti sei mai sentita a rischio?), cosa ti spinge ogni volta ad andare e, in particolare, cosa vorresti riportare, cosa vorresti che i lettori del libro capissero nel profondo, vedessero?
E: Da parte mia, prima di ogni viaggio, c’è una preparazione che si svolge su più livelli. C’è l’organizzazione concreta: trovare contatti affidabili sul posto, capire quali realtà solidali sono attive, organizzare il materiale da portare con sé e da distribuire. E poi c’è tutto il resto, che è più difficile. Ogni volta, prima di partire, si affacciano gli stessi dubbi: ha senso farlo? A cosa serve, davvero? So che non cambierò nulla, che la violenza delle frontiere continuerà a esistere, che chi incontro sarà comunque costretto a riprovare, a rischiare di nuovo. Il senso di impotenza è fortissimo. A volte, l’unico modo per superare questi dubbi è ricordarsi che partire significa esserci, stare accanto, opporsi all’invisibilizzazione non solo con le parole, ma anche con la presenza. Mi sono mai sentita in pericolo? Non davvero. Ci sono stati momenti di tensione – controlli improvvisi, fughe necessarie per evitare di essere fermate, attenzione costante. Ma la realtà è che io, in quanto cittadina europea, posso sempre tornare indietro. Se mi fermano, posso esibire un documento e uscire da certe situazioni. Per le persone in movimento, invece, è tutta un’altra storia. Il rischio che per me è episodico, per loro è quotidiano. Cosa mi spinge a tornare? Da una parte, sapere che posso compiere minimi gesti: una coperta a chi ha passato la notte sotto la pioggia, un paio di scarpe a chi ha camminato per giorni, una medicazione, una parola di conforto. Dall’altra, convincermi che raccontare è una forma di resistenza. Non perché voglia fornire risposte, ma perché credo sia necessario spostare il modo in cui guardiamo alla migrazione. Cosa vorrei che il lettore vedesse? Vorrei che vedesse la rotta balcanica per quello che è: non un’emergenza temporanea, ma un sistema strutturale fatto di esclusione, controllo, violenza normalizzata. Vorrei che vedesse i corpi resi invisibili, il dolore inflitto con metodo. Ma anche la resistenza: la cura reciproca tra le persone in movimento, la capacità di organizzarsi, quei gesti che sfidano la logica dell’abbandono.
Se non è illegale percorrere le strade vicino al confine, perché la polizia ci ferma? Se non è illegale portare la coperta a una persona che ha freddo, perché ho paura a farlo? Se non è illegale offrire il the a un amico, perché mi nascondo? Se qualcuno ha bisogno e mi chiede aiuto, perché devo temere per la mia e la sua incolumità? Ci guardiamo per avere dallo sguardo dell’altra la conferma: non stiamo facendo nulla di illegale. I respingimenti al confine: quelli sono illegali.
S: L’importanza di libri come il tuo risiedono nel dare corpo e voce a una invisibilità che si vuole mantenere tale, in tv si parla tanto di immigrazione come un problema, un pericolo, non viene mai mostrata la realtà di ciò che queste persone sopportano, né le persone in carne e ossa con le loro storie; grazie al racconto di chi ha visto e cerca di portare aiuto anche i migranti acquistano volti e corpi, è un tentativo, io credo, di raccontare per portare a conoscere. Ho apprezzato il doppio canale comunicativo del libro, da una parte un narrare paratattico che quasi vuole scomparire per essere solo occhio, per non trasformare di nuovo uomini e donne in oggetti, cercare di raccontare senza entrare, e poi il vedere accanto al narrare, le foto; che rapporto hai con questa duplice narrazione, come la usi?
E: Le domande che pongo in quel passaggio del blog nascono da un paradosso vissuto ogni giorno sulla rotta: la normalizzazione della violenza e l’anomalia della solidarietà. Ci si abitua all’idea che sia “normale” che qualcuno venga respinto nel bosco senza scarpe, ma che sia problematico offrirgli un paio di calzini. Si interiorizza l’idea che chi aiuta debba farlo con discrezione, quasi con vergogna, mentre chi esercita violenza lo faccia nella piena legittimità. Raccontare questi paradossi significa provare a renderli visibili per ciò che sono: non il risultato di singole eccezioni o deviazioni, ma il funzionamento stesso del confine. Anche per questo, nel mio libro, ho scelto uno stile che non imponga una narrazione “emotiva” o giudicante. Come dicevo prima, ho cercato di scrivere nel modo più asciutto possibile, procedendo per sottrazione. Nelle storie di migrazione, il rischio della retorica è sempre presente: da un lato, la spettacolarizzazione del dolore; dall’altro, la costruzione di un’immagine eroica che cancella le ambivalenze. Il mio tentativo è stato quello di sottrarmi a entrambe queste derive, scrivendo con uno stile paratattico, distillato, senza sovrastrutture. Una scrittura che cerca di non invadere, che prova a non trasformare chi attraversa la rotta in un oggetto del racconto, ma prova a restituire frammenti di realtà senza sovrascriverli con un’interpretazione. Le immagini seguono lo stesso principio e hanno avuto per me, prima di tutto, una funzione pratica. Le giornate sulla rotta erano piene, scandite da tempi rapidi, dalla necessità di essere operative, di rispondere ai bisogni immediati. Non c’era il tempo di prendere appunti, e così le foto sono diventate una forma di annotazione, un modo per fissare dettagli, atmosfere, frammenti di spazio e tempo. La sera, rivedendo le immagini, ricostruivo ciò che avevo vissuto, lasciando che le fotografie mi guidassero nella memoria e nella scrittura. Non ho mai scattato foto per documentare in modo diretto il dolore altrui: non volevo che diventassero uno strumento di esposizione o di consumo visivo. Ho preferito concentrarmi su ciò che resta, sulle tracce stratificate di passaggi che continuano a ripetersi. Scarpe lasciate in un angolo di una fabbrica occupata, resti di un fuoco acceso in un bosco vicino al confine, scritte sui muri degli squat. Scrivere e fotografare, per me, significano la stessa cosa: provare a dare visibilità a ciò che viene sistematicamente nascosto, rifiutando la logica dell’invisibilità imposta dalle politiche europee.
m: Hai incontrato molte persone, migranti, cooperanti, persone ostili, quale storia ti è rimasta più impressa o quale uomo o donna o bambino ti sono entrati dentro in maniera speciale, quale immagine di questi viaggi porti dentro di te appena ritorni a pensare alla tua esperienza mischiata a quelle di altri?
E: Penso a I., conosciuto in Grecia: quando ci siamo incontrati, per la prima volta, avrebbe riempito una valigia che non sarebbe stata caricata su un camion o nascosta tra i cespugli, ma su un aereo. La sua storia è molto complessa: riporto le pagine del libro dove la ripercorro: «I. ha la mia età; in Afghanistan è un agente segreto. Da lì, quattro anni fa, parte con la madre, la moglie e le tre figlie di uno, quattro e sei anni. Vanno in Iran, poi passano in Turchia. Un giorno camminano per 18 ore: la figlia grande sui propri piedi, la media in braccio a lui e la piccola in braccio alla moglie. Arrivati in Turchia, prendono contatti con dei trafficanti che li portano di fronte a un’imbarcazione diretta in Grecia. Appena I. la vede, si rifiuta di far salire la sua famiglia. I trafficanti li forzano. Arrivano su un’isola greca; da lì li spostano al campo di Corinto, dove rimangono per un anno e mezzo, forse due. Chiedono lo status di rifugiati ma la loro domanda è respinta. Fanno ricorso, chiedono per la seconda volta lo status. Arriva il secondo diniego. Al campo, I. è un punto di riferimento per tutta la comunità afghana; è interprete per il farsi e l’inglese. La situazione però è molto pesante: tende con sei/sette nuclei famigliari, continue liti, episodi di violenza, aggressioni. Decidono di ripartire. I trafficanti garantiscono il viaggio verso Creta, ma a causa di una soffiata, appena arrivano sull’isola trovano la polizia. Riescono a scappare e si nascondono nella foresta. Per cinquantadue giorni. Grazie a un’organizzazione anarchica di Creta, riescono ad arrivare ad Atene; nei campi però non sono più accettati. I. si rimette in contatto con i trafficanti per avere indietro i suoi soldi. I trafficanti dicono che i soldi non li riavrà, ma che possono fare andare in Svizzera una persona. Una sola. Decidono di far partire la moglie. Va tutto bene. Ma la figlia piccola, abituata a stare sempre con la mamma, soffre troppo. I. non ha scelta: la mette nelle mani di altri trafficanti, una coppia di italiani che si fingono i genitori e riescono a portarla alla mamma. Va tutto bene. Partono le pratiche per il ricongiungimento famigliare: la richiesta è accettata. Ora I. è in attesa dei biglietti aerei per la Svizzera per sé, sua madre e le due figlie più grandi». Segnalo, con molta gioia, che in questo momento la famiglia è riunita in Svizzera e stanno tutti bene.
Quando finiscono le medicazioni e le visite, R. si siede di fianco a noi e ci racconta che l’altro giorno alle donne del campo è stato impedito di tenere l’hijab, con minacce di multe di 1500 leva (700 euro). Dice che queste donne hanno subito una grande violenza, e chiede se può essere fatta una cosa del genere, in Europa. Scuotiamo lentamente la testa; sempre con il traduttore del telefono gli diciamo che se vuole possiamo sentire dall’avvocata. Sì sì, grazie. Rimettiamo tutto dentro al borsone nero. Piego gli sgabelli mentre osservo, ancora, le ombre degli alberi che si mescolano a quelle dei cappotti appesi. Alberi che nascondono persone sotto la neve, reggono bicchieri di the e sostengono grucce
S: Le storie che leggo e sento sulla rotta balcanica mi stupiscono e avviliscono sempre, mi chiedo come sia possibile respingere con tale violenza e rabbia esseri umani che già fuggono da guerre, dittature e carestie, usando la forza, mi sembra un’allucinazione collettiva questo modo di considerare e trattare uomini, donne, bambini, e dietro nascosta una profondissima ipocrisia. La violenza non è solo fisica, e tramite un becero abuso di potere, in forma piramidale, credo si celi l’intento di rendere l’essere umano una cosa, sia privandolo di beni e cure di prima necessità, sia svilendolo in modi diversi, anche attraverso la brutalità di azioni inutili come la confisca dei pochi averi che i migranti possiedono, per esempio l’atto di rompere i cellulari, che sono il solo modo per comunicare e immagino per orientarsi. Nei boschi di queste rotte è pieno di oggetti abbandonati, carrozzine, documenti, vestiario, giocattoli, caramelle, blister di antidolorifici per placare i dolori muscolari, causati dalle lunghe marce, o medicine contro l’influenza. Ti è mai capitato di assistere a confische del genere?
E.A.: Non ho mai assistito direttamente a confische, ma i segni che lasciano sono ovunque, e chi attraversa la rotta ne parla continuamente. Non sono episodi sporadici, ma parte di una strategia sistematica applicata lungo tutta la rotta balcanica. La distruzione dei cellulari è una delle pratiche più diffuse: la polizia spesso li spezza, li confisca o li getta nell’acqua, privando le persone di uno strumento vitale. Un telefono non è solo un mezzo di comunicazione, è una bussola, una mappa, l’unico collegamento con chi è già arrivato a destinazione o con chi è rimasto indietro. Rompere un cellulare significa rendere una persona ancora più vulnerabile, disorientata, esposta ai pericoli della rotta. La violenza sulle frontiere non si manifesta solo attraverso i pestaggi, ma anche attraverso azioni apparentemente meno eclatanti, eppure ugualmente devastanti. Nei boschi vicino ai confini si trovano oggetti abbandonati che raccontano meglio di qualsiasi discorso la durezza di questo viaggio: vestiti strappati, scarpe consumate, zaini aperti e svuotati, farmaci lasciati a metà. Ogni tanto si vedono carrozzine, pupazzi, libri. Oggetti che appartengono a bambini, a famiglie, a persone che stanno cercando di costruirsi un futuro e che vengono invece trattate come un problema da eliminare, da respingere, da cancellare. C’è un’intenzione precisa dietro tutto questo. Non si tratta solo di respingere, ma di umiliare, di esasperare, di far sentire chi attraversa il confine impotente, senza controllo sulla propria vita. Le tende vengono bruciate, i vestiti rubati, le scarpe distrutte. A volte la violenza è “inutile” solo in apparenza: è un modo per far capire a chi tenta il game che non è il benvenuto, che deve arrendersi, che non ha diritto a nulla, nemmeno ai propri averi. Ma non si arrendono. Nonostante tutto, le persone continuano a camminare, a provare e riprovare, a resistere. Credo che la vera ipocrisia sia proprio qui: da una parte, si sostiene di voler regolare i flussi migratori, di voler gestire la mobilità; dall’altra, si creano percorsi sempre più pericolosi, si rendono impossibili vie legali di accesso, si condannano migliaia di persone alla violenza sistematica. E questo avviene con la complicità e l’indifferenza di chi potrebbe cambiare le cose e sceglie di non farlo.
m: Dietro la questione dei migranti è nascosto anche un grande business a molti livelli, a partire dalla manodopera a basso costo, tu che idea ti sei fatta a riguardo e come, secondo te, si potrebbe mettere fine allo sfruttamento e a questo sistema fallato di (non) accoglienza?
E: La gestione della migrazione, così com’è strutturata oggi, è un sistema fallato e volutamente inefficace, che non si limita a escludere, ma anche a sfruttare. L’idea che i governi vogliano “fermare” i flussi migratori è un’illusione: in realtà, le politiche restrittive creano un esercito di persone senza diritti, esposte a ogni forma di abuso, facilmente ricattabili e utilizzabili come manodopera a bassissimo costo. La chiusura delle vie di ingresso legali e sicure non ha impedito alle persone di muoversi, ma le ha costrette a farlo in condizioni sempre più pericolose, rendendole vulnerabili allo sfruttamento una volta arrivate a destinazione. Il business della migrazione agisce su più livelli. A partire dai confini, dove le persone sono costrette a pagare cifre enormi per poter passare, arricchendo reti di trafficanti che spesso operano con la complicità delle forze di polizia locali. Ma il profitto non si ferma lì: chi riesce ad attraversare la frontiera si trova spesso intrappolato in un sistema di sfruttamento lavorativo. Nei campi agricoli del Sud Italia, nelle fabbriche tessili, nei cantieri edili, negli allevamenti intensivi, nelle consegne a domicilio: il lavoro nero dei migranti regge interi settori economici, con condizioni di vita e salari al di sotto di qualsiasi soglia di dignità. Questo non è un effetto collaterale delle politiche migratorie, ma una conseguenza diretta. Perché un sistema in cui lo sfruttamento è strutturale ha bisogno di manodopera che non possa difendersi, che non possa denunciare, che non abbia alternative. Mettere fine a questo sistema significa prima di tutto riconoscerne il funzionamento e la complicità tra politiche migratorie e sfruttamento economico. Significa creare canali di ingresso regolari, garantire la possibilità di richiedere protezione senza dover attraversare confini in condizioni disumane, smettere di considerare i migranti come un problema di ordine pubblico e iniziare a riconoscerli come parte di una società in cui già vivono, lavorano, resistono.
R: Grazie Elisa, dell’intervista e anche dei tuoi viaggi, che portano, speriamo, coscienza. Chiudiamo con le tue parole, quelle dell’ultimo itinerario; una parte che non è entrata nel libro ma che si può leggere su balkanroute.blog, dove racconti ciò che vedi.
È passato poco più di un anno dall’ultimo viaggio sulla rotta balcanica. Dall’aereo mezzo vuoto, vedo i dintorni di Sofia imbiancati. Aspetto un po’ di ore in aeroporto, poi un altro po’ di ore alla stazione dei bus, e riparto verso Harmanli.
Gli abeti dalla punta bianca mimano le cartoline della montagna: pensa a camminare lì in mezzo per ore, giorni. Pensa ad attraversare il bosco in questo momento della giornata, in cui il sole sta scendendo e il bianco diventa nero. Pensa a non avere le calze termiche e i maglioni che hai tu, continuo a ripetermi. Pensa ad avere la polizia alle calcagna. Pensa – e questa è un’immagine che cerco di ricacciare perché è concreta e si aggancia a una foto molto recente – a morire così, stremata dal freddo. La neve che piano piano ti ricopre. A tre ragazzi giovanissimi è successo un paio di giorni fa.
Harmanli è nel Sud della Bulgaria, ha meno di 20.000 abitanti e si trova a circa 50 km dal confine con la Turchia. Nevica. Il bus si ferma in una piazzetta non lontana da uno dei più grandi campi profughi della Bulgaria, in grado di ospitare – sulla carta – fino a 1600 persone. La maggior parte proviene dalla Siria e in questi ultimi mesi, in seguito alla caduta di Assad e al cambiamento della situazione politica, ha ricevuto risposta negativa alla richiesta di asilo; la scorsa settimana, a 94 persone è stato detto ‘no’, perché la Siria è considerata “Paese sicuro”. Alcuni pagheranno altre migliaia di euro per tornare in Siria, altri per la Turchia, da dove ripartire per tentare di raggiungere un altro paese europeo.
Arrivo alla casa che mi ospiterà per la settimana, dove stanno quattro medici e infermiere. Ritrovo Rachele e conosco S., che sta preparando la cena.
Domani andrò con loro al parco vicino al campo, dove alcune attiviste e attivisti trascorrono qualche ora per piccole medicazioni, distribuzione di vestiti e pannolini, the caldo e biscotti.